Attualità

L’uomo d’oro

Datta Phuge era il primo ricco indiano ad avere una camicia dorata su misura. La sua storia, diventata virale, è una fiaba senza lieto fine.

di Mattia Salvia

Continua Studio Ritratti, una serie di profili di personaggi dell’attualità, della politica, della cultura da leggere durante le vacanze agostane, con cui vi accompagneremo nelle prossime settimane. Qui la prima puntata, Greta Gerwig, e qui la seconda, Luigi Di Maio. Buona lettura, buona estate.

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Era quasi la mezzanotte di giovedì quando l’auto dell’uomo d’affari indiano Dattaray “Datta” Phuge si era fermata in un parcheggio Dighi, un sobborgo di Pune, uno dei principali centri urbani sulla costa occidentale dell’India, a 150 chilometri da Mumbai. Il parcheggio era in terra battuta, senza illuminazione. Da quell’oscurità era emerso un gruppo di una dozzina di persone. Phuge era stato tirato fuori a forza dalla vettura e accoltellato con un falcetto. Mentre era rimasto a terra sanguinante, gli aggressori avevano continuato a colpirlo con dei sassi. Non si muoveva già più quando erano stati messi in fuga dalle urla del figlio, accorso sul posto.

Nei giorni seguenti, prima del funerale, la casa della famiglia Phuge era stata perennemente affollata di gente tra parenti, amici e conoscenti venuti a portare le loro condoglianze, giornalisti locali, semplici curiosi. La moglie Seema Phuge, ex funzionario politico locale, era inconsolabile. Ma segretamente tutte quelle persone riunite lì a piangere la morte di Dattaray si ponevano la stessa domanda, che nessuno aveva il coraggio di fare ad alta voce, ovvero: “Dov’è la camicia d’oro?”.

Fino al 2013, Dattaray Phuge era noto soltanto per la sua ricchezza e soltanto a livello locale, a Pimpri Chinchwad, il sobborgo di Pune dove viveva. Veniva da una famiglia povera e inizialmente si era arricchito facendo lo speculatore immobiliare. Poi aveva fondato la Vakratunda Chit Fund, una società di prestiti specializzata in chit fund, un sistema di investimenti molto popolare in India. I soldi veri li aveva fatti così. In pratica, era un usuraio. E come vogliono gli stereotipi sugli usurai, Datta Phuge era ossessionato dall’oro.

In realtà, posta nel suo contesto, la sua non era un’ossessione poi così assurda. L’India è uno dei maggiori consumatori d’oro del mondo e nella cultura indiana l’oro ha un posto centrale: indossare collane, bracciali e anelli d’oro è un’ostentazione di status diffusa in modo profondo e capillare in tutto il Paese, dalle grandi città alle zone rurali. Come molti altri giovani di bassa estrazione sociale, Datta Phuge aveva sempre sognato di fare i soldi. Ed essendo nato in India, aveva sempre sognato di spenderli in oggetti d’oro.

Aveva iniziato a portare i primi gioielli verso i 20 anni, quando andava all’università, come ostentazione di uno status che ancora non possedeva e voleva disperatamente raggiungere. Quando poi era riuscito effettivamente ad arricchirsi, aveva tenuto fede ai suoi sogni d’infanzia. Secondo Tejpal Ranka, il suo gioielliere di fiducia, ogni semestre Phuge si presentava da lui e ordinava collane e bracciali d’oro di peso diverso a seconda dei profitti maturati dalla sua azienda. All’inizio, la collane che chiedeva pesavano in media intorno ai 200 grammi. Col tempo, erano arrivate a pesare mediamente più di mezzo chilo. Finché nel dicembre 2012, Datta Phune si era presentato da Ranka e gli aveva suggerito di creargli «qualcosa di diverso». Una camicia d’oro massiccio. «Farmi un vestito d’oro è sempre stato uno dei miei sogni», avrebbe detto più tardi ai giornali.

Phuge aveva sognato di fare i soldi. Ed essendo nato in India, aveva sognato di spenderli in oggetti d’oro

Secondo il racconto di Ranka, quando aveva visto per la prima volta la sua camicia Datta Phuge ne era rimasto estasiato. Nelle due settimane successive era andato a tre matrimoni e a tutti e tre l’aveva indossata, finendo sempre al centro dell’attenzione. Qualche tempo dopo, quando la storia della camicia d’oro era diventata virale, il gioielliere l’aveva convinto a fargliela esporre in vetrina per qualche mese, per attirare clienti. Aveva funzionato: erano in molti in quel periodo a passare dal negozio per farsi una foto con la camicia d’oro. Intanto, le foto che ritraevano Datta Phuge con la sua camicia d’oro addosso, corredata da altri sette chili d’oro tra collane, bracciali e anelli erano diventata virali ed erano finte sui giornali di tutto il mondo, dalla Bbc al Daily Mail. Per la stampa, Phuge era diventato ufficialmente “l’uomo d’oro di Pimpri”.

Può sembrare assurdo, ma non era il primo ad essere chiamato in quel modo: prima di lui c’erano già stati ben due uomini d’oro nella zona di Pune. Il primo era stato Ramesh Wanjale, un politico della zona noto per l’abitudine di indossare due chili d’oro tra collane e bracciali; poi c’era stato Samrat Moze, un uomo d’affari trentenne le cui foto in cui indossava quasi nove chili d’oro erano diventate virali su WhatsApp in India. Ma in tutti quei casi quello sfoggio di opulenza si era limitato alle collane e ai bracciali, mentre Phuge era stato il primo ad andare veramente oltre. Dopo di lui, per politici e uomini d’affari indiani farsi fare dei vestiti d’oro non era stato più qualcosa di impensabile, era una possibilità concreta. Solo un anno dopo, nel 2014, l’industriale di Mumbai Pankaj Parakh l’aveva emulato e si era fatto fare una camicia d’oro massiccio per il suo 45esimo compleanno. Anche nel suo caso, la fascinazione per l’oro derivava dalla sua infanzia povera.

Secondo i pochi giornalisti che hanno avuto l’onore di provarla, la camicia d’oro di Datta Phuge non era particolarmente comoda da indossare. Tejpal Ranka, l’uomo che l’aveva disegnata, aveva raccontato di aver condotto delle «ricerche approfondite sul design e l’aspetto del gioiello» prima di decidere di farla simile a una cotta di maglia. Quindici artigiani ci avevano lavorato per due settimane, 18 ore al giorno. Era composta da 14 mila anelli d’oro, chiusi da sette bottoni di cristallo Swarovski. L’interno era stato ricoperto con uno strato di velluto per impedire che gli anelli tagliassero la pelle di chi la indossava. Il risultato finale pesava oltre tre chili.

datta

A Phuge la camicia era costata quasi 13 milioni di rupie, circa 240 mila dollari, ed era entrata nel Guinness dei Primati come il capo d’abbigliamento più costoso del mondo. «Ho forse commesso un crimine?» aveva detto l’uomo d’oro in un’intervista in cui gli si chiedeva conto di quella spesa. «Semplicemente, mi piace l’oro. È per questo che ho speso così tanti soldi in questa camicia. La gente spende i suoi soldi in auto di lusso e vacanze all’estero, io li ho spesi così». Non era preoccupato per la sua sicurezza, diceva. La sua casa era protetta da ogni genere di sistema di allarme e lui ne usciva solo accompagnato da delle guardie del corpo.

Stando alla testimonianza del figlio Shubham, giovedì mattina Dattaray Phuge si era sentito male ed era rimasto a letto per tutta la giornata. Dormiva ancora alle sette di sera, quando il figlio aveva ricevuto una telefonata da un uomo che si era presentato come un amico di suo padre e che aveva detto di volerlo invitare a una festa quella stessa sera. Non volendolo svegliare, il figlio aveva lasciato cadere l’invito ma qualche ora dopo l’uomo aveva richiamato. Gli aveva detto di aver scommesso con gli amici 10 mila rupie che suo padre non sarebbe mancato alla festa e gli aveva chiesto di convincerlo e di aiutarlo così a vincere la scommessa.

Non c’erano guardie del corpo con lui quando Datta Phuge era uscito per andare alla festa. E ovviamente non c’era nemmeno nessuna festa. Quando Shubham, che era uscito qualche tempo dopo con l’intenzione di raggiungerlo, era arrivato nel luogo convenuto, aveva visto 12 persone che fuggivano e il padre sdraiato in una pozza di sangue. Secondo la polizia indiana, il movente dell’omicidio sarebbe una questione di soldi: l’uomo d’oro avrebbe fatto dei prestiti a tassi esorbitanti a persone che non volevano o potevano ripagarlo.

Al momento, la camicia d’oro è conservata nel caveau dei gioiellieri che l’hanno creata. Nei giorni in cui era diventata di pubblico dominio, il quotidiano della città di Pune aveva chiesto a diversi stilisti ed esperti di moda di commentarla. «A livello di design non è niente di che», aveva detto uno di loro, «mi chiedo quale uomo pagherebbe mai per indossare una roba del genere».