Attualità
Uno vale di più
Dai 189 voti alle parlamentarie M5S agli incontri da aspirante premier, Luigi Di Maio è diventato il leader del movimento che non voleva avere leader.
Continua Studio Ritratti, una serie di profili di personaggi dell’attualità, della politica, della cultura da leggere durante le vacanze agostane, con cui vi accompagneremo nelle prossime settimane. Qui la prima puntata, Greta Gerwig. Buona lettura, buona estate.
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«Io imparo sempre da Di Maio, anche quando sta zitto». Beppe Grillo, in un’intervista, lo lanciò così. Nel partito dell’uno vale uno, della leadership quale male assoluto, sembrò una bestemmia, un’investitura prematura. Oggi però Luigi Di Maio, nato ad Avellino e cresciuto a Pomigliano d’Arco, 40 mila abitanti in provincia di Napoli, figlio di padre fascista, appassionato di Formula 1, maturato al liceo classico, studi eternamente a metà di Giurisprudenza, e dal 2013 vicepresidente della Camera dei deputati, è il candidato naturale del M5S alle prossime elezioni politiche. Trent’anni, compiuti il 6 luglio e festeggiati sul barcone del Lian Club, quello delle feste di Dagospia, dove si è presentata anche la sua fidanzata Silvia Virgulti, di dieci anni più grande. Per essere anti-sistema, Di Maio sembra trovarsi a suo agio con i riti della tradizione romana, festaiola e non. Sempre elegante, abito blu e cravatta, sempre con una valigetta in mano quando cammina rapidamente in Transatlantico. «Ma che cosa avrà in quella borsa, i codici della Casaleggio?», scherzano alcuni parlamentari al suo passaggio. «Eh, si può pure mettere l’abito blu, ma la faccia da impiegato Tecnocasa gli resta».
Il percorso di progressiva istituzionalizzazione di Di Maio, che parte avvantaggiato sedendo sullo scranno più alto della Camera come vice di Laura Boldrini, va di pari passo con quello del MoVimento, che tenta di superare la fase dello sciachimismo e del complottismo Club Bilderberg. La vittoria di Chiara Appendino a Torino, una che – si dice persino in ambienti renziani – avrebbe potuto partecipare benissimo alle prime edizioni della Leopolda, è il primo segnale palmare, senza dimenticare anche il risultato di Roma per mano di Virginia Raggi, l’avvocatessa che ha studiato e lavorato negli studi legali “de destra”. Di Maio da mesi è impegnato in un tour con poteri forti ed esponenti di governo stranieri; ha assunto come responsabile relazioni istituzionali l’ex presidente dell’Unicef Vincenzo Spadafora, già capo della segreteria al ministero dei Beni culturali allora guidato da Francesco Rutelli ed ex membro della segreteria dei Verdi a guida Alfonso Pecoraro Scanio.
Alcuni di questi incontri hanno suscitato clamore, come quello del 30 aprile all’Ispi di Milano, al quale hanno partecipato Mario Monti ed esponenti della Trilateral, e altri hanno generato polemiche per le gaffe di Di Maio, come il recente viaggio in Israele, dove l’aspirante grillino al potere si è recato insieme al deputato Manlio Di Stefano (quello che dice che serve «rispetto» per capire l’Isis). Insieme alla delegazione grillina Di Maio voleva andare nella Striscia di Gaza, ma il governo israeliano gliel’ha impedito. «Questo è un cattivo segnale per la pace», hanno subito detto Di Maio e Di Stefano. Ma dall’ambasciata israeliana a Roma hanno dovuto spiegare l’ovvio, e cioè che la Striscia di Gaza è controllata dai terroristi di Hamas e che per entrare da Israele a Gaza servono permessi speciali.
«Sono ragazzi meravigliosi», direbbe Grillo. Meravigliosi non sappiamo, ma ragazzi sicuramente. Il 20 luglio scorso ha partecipato a un incontro organizzato da Fb&Associati con alcune lobby, quelle che di solito piacciono molto poco ai grillini. «Il rapporto tra portatori di interessi e politica va regolato per legge», ha risposto Di Maio a chi gli ha fatto notare l’incoerenza. «Abbiamo discusso di regolamentazione delle lobby. È dal 2014 che mi batto per un regolamento sui lobbisti alla Camera dei deputati. Lo faccio ascoltando le associazioni europee che si occupano di trasparenza e le associazioni che si occupano di lobbying». Come a dire: nessuna contraddizione, io parlo con tutti. Di Maio, poi, è scivolato su quella frase offensiva, quella sulla «lobby dei malati di cancro». Non voleva offendere, si è capito, ma in epoca di comunicazione pervasiva, ogni passo falso è pericoloso. Il 26 luglio, il deputato campano – che vinse le parlamentarie del M5S con 189 voti – ha incontrato padre Antonio Spadaro, gesuita, direttore di Civiltà Cattolica, per parlare di Europa, nel chiostro della Minerva, a Roma. «La Chiesa è casa mia», ha detto Di Maio, che ha attaccato questa Unione Europea senza però chiedere Italexit. «Siamo stati spesso definiti antieuropeisti, ma non è così. Ci sentiamo tutti cittadini d’Europa e nessuno di noi ha mai pensato di uscirne». Tuttavia, i «fondatori avevano una visione e ideali che sono stati traditi».
L’accusa di antieuropeismo, peraltro non del tutto sopita, era invece ben riposta. Fino a poche settimane fa il Sacro Blog invocava il diritto dei cittadini a «poter esprimere la loro opinione, senza dover sempre subire decisione calate dall’alto» e l’addio all’euro. Adesso, invece, sul blog si legge che il «Movimento 5 Stelle è in Europa e non ha nessuna intenzione di abbandonarla». C’è di più: «L’unico modo per cambiare questa “Unione” è il costante impegno istituzionale, per questo il Movimento 5 Stelle si sta battendo per trasformare l’Ue dall’interno».
Ma che cosa rappresenterebbe l’eventuale leadership di Di Maio per il M5S? Può essere letta come l’evoluzione istituzionale di un movimento che nasce come anti-sistema e che ora deve fare i conti con il governo (intanto nelle città, come Roma e Torino)? «Rappresenterebbe, e in parte già rappresenta, un passaggio cruciale per un attore politico che, seppure in forma del tutto peculiare, ha riproposto fin dalle origini molte delle caratteristiche del partito personale», dice a Studio il politologo Fabio Bordignon, autore de Il partito del capo. Da Berlusconi a Renzi (Apogeo). «Grillo è stato, per il M5s, non solo un frontman ma il megafono che ha consentito di sfondare sui media (nuovi, e soprattutto vecchi). È stato il garante. Non solo il garante della “moralità” dei candidati. È stato, insieme allo staff della Casaleggio, il garante dell’ordine interno: un ruolo cruciale per un movimento che si è presentato come squisitamente orizzontale, antigerarchico, leaderless, ma, proprio per questa intrinseca debolezza organizzativa, aveva bisogno di un capo. Di un leader. Di più: di un proprietario. Ora le cose stanno cambiando, sulla spinta di fattori interni ed esterni. La morte di Casaleggio. Il passo di lato (tutto da verificare) di Grillo. La nemesi giudiziaria di Napoli e Roma, con gli espulsi reintegrati dai giudici. La legge sui partiti in corso di approvazione».
L’ascesa di Di Maio, dunque, «si inserisce in questo quadro, il cui esito finale è ancora difficile da vedere, ma che indubbiamente ha a che fare con il percorso di istituzionalizzazione del partito-movimento. Un percorso nel quale, tuttavia, Di Maio dovrà fare i conti con l’inerzia del passato, rappresentata dalla Casaleggio Associati e dallo stesso Grillo. Ma anche con il nascente partito nelle istituzioni». Questo significa che il M5S è già pronto a fare a meno di Beppe Grillo? E può esistere e risultare vincente un movimento senza Beppe Grillo? «Partiamo da un dato: Di Maio» – dice Bordignon – «ha già superato Grillo nelle preferenze interne. Quando nei sondaggi chiediamo agli elettori pentastellati quale sia il loro leader o politico preferito, una netta maggioranza indica Di Maio (si veda l’analisi proposta in questo articolo).
Grillo, dal punto di vista personale, gode ancora di ampio apprezzamento presso la base. Un apprezzamento ancora superiore, seppur di poco, a quello di Di Maio. Tuttavia, quando si parla di leadership, quando si parla di individuare una figura “politica”, Di Maio è già oggi il primo riferimento. Poco più del 10% indica Grillo: si pensi che era il 77% all’indomani delle politiche del 2013. Attenzione, però: l’impressione, per ora, è che Di Maio funzioni bene “in ticket” con Grillo». Quindi, argomenta Bordignon, «se l’ex comico è la figura ideale per la piazza e il palcoscenico – con le sue urla, il suo sudore, i suoi occhi fuori dalla testa – il giovane vicepresidente della Camera – con la sua freddezza, la sua moderazione, il suo volto istituzionale – garantisce l’ideale bilanciamento. Consente, allo stesso tempo, di “parlare” a un elettorato molto eterogeneo per quanto riguarda il background politico e le istanze programmatiche. Insomma, un leader “di protesta” e un leader “di governo”: finora il gioco ha funzionato. Anzi, l’anima istituzionale e governativa del movimento, incarnata da Di Maio, ha probabilmente favorito la recente espansione elettorale del M5s e i successi ottenuti su scala locale. È tutto da verificare se lo stesso schema possa funzionare anche nel contesto una campagna nazionale. Se Di Maio sarà in grado di tenere la scena. Da solo. Sempre che Grillo sia disposto a concedergliela…».
Resta da capire se questo percorso di progressiva istituzionalizzazione non comporti anche per il M5S un «prezzo del potere» da pagare. «Il potere logora, nella politica postmoderna. Governare logora. Persino quando hai governato bene, con un certo grado di consenso. Come sa Piero Fassino. E come sa il M5s, che, su questa voglia di cambiare, di punire gli incumbent (i detentori del potere) ha fatto le proprie fortune, da Parma fino a Torino. Ora il M5s chiede di essere messo alla prova. E il 40% dell’elettorato – era il 30% solo un anno fa – ritiene il movimento pronto per governare a Roma: non solo al Campidoglio, ma anche a Palazzo Chigi. Governare però, per il M5s, significa spingere ancora più in là il percorso di istituzionalizzazione. E ripropone lo spettro della normalizzazione, il più insidioso per un movimento anti-establishment». Significa fare i conti con una realtà che non è solo bianca o nera, «e per questo impone dei compromessi. Entrare nel palazzo, inoltre, alimenta il fermento interno e la complessità dell’organizzazione. Come è successo al momento dell’ingresso in parlamento. Come sta succedendo a Roma, soprattutto nella fase di costruzione della giunta. Non a caso, mentre i sondaggi registrano il massimo storico per il M5s, Renzi, che sa di avere nel M5s il primo competitor, da velocista si trasforma in temporeggiatore. Prende tempo. Per dare tempo agli avversari di farsi male. Non è detto che questo accada, ma sicuramente il M5s è atteso ad ulteriori, importanti test, nei prossimi mesi».
A vederlo nei video di qualche anno fa, sembra che Di Maio si stia preparando a una eventuale sfida nazionale da tempo. Pareva già parecchio impostato, nel tono e nelle parole, a vent’anni. «Il meccanismo secondo il quale il rappresentato delegava il rappresentante», disse presentandosi, a 23 anni, al consiglio comunale di Pomigliano d’Arco, «faceva in modo che eravamo sempre in pochi a decidere per tanti. quando abbiamo avviato l’esperienza del Meetup si è respirata subito un’altra aria. Non c’erano delegati, non c’erano rappresentanti, non c’erano capibastone, non c’erano segretari. c’erano solo le iniziative e tante persone che decidevano in egual modo attorno a quelle». Praticamente era un’autogestione scolastica, o la comune di qualche partito di sinistra. Quel tempo ora pare essere finito. Ora c’è Di Maio, aspirante premier.