Attualità

Un cuoco tra i cuochi di Expo

La visita di un cuoco (a digiuno) nelle cucine di Expo: il problema non è che "sono solo ristoranti", semmai l'opposto.

di Tommaso Melilli

Un cuoco che visita l’esposizione universale di quest’anno è come un bambino in un negozio di giocattoli, quindi non era difficile immaginare con che spirito sarei andato all’Expo. Nei mesi precedenti, mentre scorrevano anticipazioni, entusiasmi e profezie nefaste, l’eccitazione non faceva che crescere: nuovi ingredienti da scoprire, nuovi abbinamenti da imparare e magari qualche tecnica di cottura stupefacente da sbirciare. Il giorno dell’inaugurazione, mi proibisco addirittura di seguire la diretta online. Per riscattarmi comincio a fare programmi: prenoto un biglietto per il mese successivo, quando finalmente potrò passare dall’Italia, e decido perentoriamente e con una certa ingenuità che visiterò tutti i padiglioni. In attesa del giorno stabilito, evito accuratamente di informarmi, come quando si è costretti a guardare una partita in differita.

C’è una rara bellezza nell’essere accolti come fratelli nel giorno libero, lasciar sbollire lo sfinimento nelle dolci gioie dell’appartenenza, sapere che potrai sempre chiedere, a chi lo vende, cosa si compra di migliore. Questa complicità un po’ militare presenta molti vantaggi considerevoli, e si converte generalmente in cibo offerto, bottiglie di vino “dimenticate” sul tavolo, permanenze oltre l’ora di chiusura e conti poco dolorosi. Quindi, per me, andare all’Expo voleva dire trovare tanti nuovi amici, e soprattutto mangiare e bere cose incredibili — gratis. Conseguenza: non più tardi delle tre del pomeriggio, mi sarei ritrovato seduto su un muretto, stanco, sazio, sudaticcio e un po’ ubriaco; drammaticamente incapace di continuare la mia visita e privo di qualunque avanzo di lucidità.

È per questo che alla fine ho deciso che all’Expo non avrei mangiato nulla. E non come protesta simbolica o raffinato atto situazionista. Ma unicamente per scopi scientifici: perché il cibo, i vini e i sapori mi interessano fin troppo, e non assaggiando nulla avrei potuto prestare attenzione al resto. Alle cucine soprattutto.

Quando arrivo, fa abbastanza caldo, ma non me la sento di incolpare l’organizzazione per il fatto che c’è il sole. Del resto, ho scelto il giorno perfetto: è il primo giorno dopo la chiusura delle scuole, quindi non c’è neanche l’ombra di gruppi di adolescenti rumorosi, e anche se il decumano è un po’ affollato, le condizioni sono ottimali.

Non ho mappe, mi dico che seguirò l’istinto. Il codice disciplinare che ho stabilito per il mio digiuno prevede che mi astenga non solo da ogni tipo di cibo, ma anche da vini, cocktail esotici e bibite gassate: nello zaino ho tre bottigliette d’acqua che mi sono portato da casa, e due pacchetti di sigarette.

Hotel Kitchens
Rischgitz / Getty Images

Primo padiglione: la Caritas. Al centro della sala c’è un’installazione di Wolf Vostell: un’enorme Cadillac carbonizzata, foderata con centinaia di baguettes. La ragazza che mi accoglie propone una chiave di lettura dell’opera: il lusso (la Cadillac) ha ormai perso ogni utilità, e viene ricoperta dalla semplice e più autentica ricchezza del pane. Nell’installazione originale, ogni visitatore poteva portarsi via una baguette, e ogni giorno ne venivano messe di nuove. Mi viene spiegato che il pane, in questo caso, non si può prendere e non viene sostituito, quindi è secco. Chiedo quindi cosa ne faranno, e mi dicono che rimarrà per tutti i sei mesi e poi, probabilmente, verrà buttato via. Faccio per dire che col pane secco si possono fare un sacco di cose buone, ma la ragazza è più veloce di me e mi spiega, con una punta di orgoglio, che il pane è stato vaporizzato con un prodotto che evita che si decomponga e marcisca.

Esco dal padiglione, mi siedo a riordinare il contenuto del mio zainetto, e mi dico che qui butta male. Il padiglione della Repubblica Ceca ha una piscina e delle sedie a sdraio, dove dei visitatori, probabilmente autoctoni, sorseggiano grandi birre. In fondo c’è un bar che, oltre alle birre, vende profumi, superalcolici e saponette. Il mio sguardo è però attirato dal padiglione limitrofo, dove ci sono moltissimi bambini che camminano per aria: è il Brasile, e infatti, al di sopra di un grande giardino con piante esotiche (vere), c’è questa rete elastica lunga almeno 100 metri, con vari dislivelli, che è l’accesso principale al padiglione. Faccio dieci minuti di fila e cammino anch’io sospeso sull’orto, e tutti sudano e si divertono. Alla fine della rete si accede al padiglione vero e proprio. All’ultimo piano ci dovrebbe essere un ristorante, ma forse non è ancora aperto, e ci indicano di scendere. Senza trovare nulla che attiri la mia attenzione, arrivo fino al piano terra. Il percorso sembra studiato: il visitatore comincia divertendosi e stancandosi, poi scende, “visita” e approda al bar coi succhi di goiaba e maracuja. A quel punto, la lunga sala del bar, attraversata da lunghissimi e tentacolari divani di paglia intrecciata, è il regno del pisolino.

All’ingresso del padiglione del Belgio rifiuto cortesemente un cioccolatino da un simpatico artigiano francofono. Il punto forte, oltre alla birra e al cioccolato, è nel seminterrato, dove si stagliano nella penombra tanti macchinari per la coltivazione idroponica: è una specie di piccola serra a forma di ruota, con piantine di basilico, timo e valeriana. Ruotando a velocità impercettibile, le foglioline vengono accarezzate da una rugiada artificiale, che poi attraversa la terra e, da quello che ho capito, ricade in una vasca sottostante. In questa vasca la rugiada contribuirà a nutrire moltissime trote che, intanto, nuotano freneticamente.

Al piano di sopra intravedo una cucina piuttosto attrezzata, ma non ci sono menu. C’è un fiammingo vestito da cuoco che va avanti e indietro, ma nessuno mangia. Nel frattempo sono quasi le due: sulla terrazza assolata ci sono cinque o sei ragazzi belgi che fumano, e quando mi avvicino mi guardano un po’ male, quindi torno indietro.

Al padiglione del Myanmar sono esposte tante varietà di riso, e c’è un piccola cucina che si affaccia su un ancor più piccolo bancone, ma di nuovo non c’è nessuno. Ci sono invece due signore vestite in abiti tradizionali all’accoglienza, che chiacchierano fra di loro mangiando del riso da un Tupperware di plastica: si sono portate la schiscetta da casa.

Io ci provo a prestare attenzione ai poster e alle infografiche su come e quanto nutriamo il pianeta, sulla condivisione del cibo e così via, ma ho la sensazione che qualcosa mi sfugga. In fondo al padiglione della Corea del Sud trovo il primo ristorante in attività. Una decina di clienti seduti ai tavoli, ma senza che io abbia il tempo di chiedere alcunché mi viene detto che il servizio è finito e che non si può più mangiare, si ricomincia alle 7. Così esco da una porta laterale, costeggio la sala del ristorante e mi ritrovo sul retro del padiglione. Non vedo nessuno, ma il mio naso percepisce nettamente la combustione del prodotto di agricolture lontane. Si apre una porta che non avevo visto e vengo praticamente travolto da un ragazzo vestito con una giacca da cuoco sformata. Gli chiedo se gli posso fare qualche domanda, ma lui mi risponde nel modo più scorbutico possibile che non ha molto tempo perché sta andando a mangiare. È calabrese, e mi spiega che al ristorante della Corea del Sud ci sono 4 cuochi coreani, che comandano, e altri 16 italiani che cercano di eseguire i loro ordini, anche se nessuno parla la lingua dell’altro.

Dice che le cose che fanno lì sono buone, soprattutto le carni e i dolci (lui sta ai dolci): le verdure, mi dice, sono terribili

Cerco di presentarmi, ma la cosa non sembra interessargli e non riesco a farmi dire come si chiama. Mi dice però che fino all’anno scorso «faceva» i fast food la sera e un villaggio vacanze la mattina, per mettere da parte un po’ di soldi. Dice che le cose che fanno lì sono buone, soprattutto le carni e i dolci (lui sta ai dolci): le verdure, mi dice, sono terribili, niente a che vedere con le nostre. Mi chiede in che padiglione lavoro io, ma fortunatamente nel frattempo siamo arrivati. Riesco infine a strappargli un mezzo sorriso: «Quindi che ti mangi?». «Secondo te? Pizza!».

*

Sono in un luogo imprecisato, lontano dal decumano, e finalmente capisco cosa non sta funzionando nella mia visita: da una parte sto cercando di concentrarmi sulla parte informativa e ricreativa dei padiglioni, dall’altra qualcosa mi attira inesorabilmente verso le cucine, i cuochi e i punti ristoro. Il risultato è che non presto a nulla la giusta attenzione: il mio sguardo è ogni volta smarrito, come se non sapessi cosa cercare. Parallelamente, il mio stomaco sta cominciando a gorgogliare. Bevo un po’ d’acqua e, allontanandomi dal baracchino delle pizze al taglio, decido di provare un altro approccio. D’ora in poi mi disinteresserò del viale principale e continuerò la mia visita su un sentiero più ostico, accidentato e del tutto privo di visitatori: il retro.

Trovo quindi un padiglione che sembra un colossale container, molto geometrico ma, a parte la taglia, per nulla appariscente: non c’è niente, quindi giro intorno fino a che non trovo una porta aperta. Sulla soglia ci sono due giovanotti poco più che trentenni, uno molto magro e l’altro appena massiccio. Le loro barbe sono curate senza essere leziose, e stanno fumando con la schiena appoggiata allo stipite della porta, nella posa elegante e disinvolta che riesce solo ai grandi chef in pausa. Sulle loro giacche, bianchissime e impeccabili, hanno ricamati i loro nomi di battesimo e, appena sotto, un piccolo e discreto logo della San Pellegrino.

Sono a Identità Expo, il padiglione di Identità Golose, una delle più attive e multiformi organizzazioni della gastronomia italiana: organizzano un festival dove ospitano sempre grandi chef e io li conosco principalmente grazie un magazine online, curato e ben scritto. Si chiamano tutti e due Domenico, e si vede che sono stanchi. Ciononostante, quando mi avvicino mi lanciano uno sguardo aperto e simpatico, forse dovuto all’entusiasmo infantile che hanno appena visto nel mio.

Spontaneamente, mi rivolgo a loro con un banalissimo: «Come va?». Tutti e due alzano gli occhi sorridendo e cominciano a spiegarmi come funziona il loro padiglione: sono i due sous-chef di un ristorante stellato di Alessandria, e per sei mesi ospiteranno svariate decine di chef stellati e famosissimi, che verranno a cucinare le loro cose. Gli chef approdano al padiglione soli o al massimo con un aiutante, e il resto delle mansioni viene eseguito dalla brigata del ristorante di Alessandria. Il problema è che il programma è fittissimo, e ospitano due chef-star a settimana, il che significa che ogni tre giorni cambia tutto. È ovviamente interessantissimo. Un ristorante stellato dev’essere una macchina perfetta, dove il numero di cuochi presenti in cucina tende a corrispondere al numero di coperti: un cuoco per due clienti, a volte si arriva addirittura a un rapporto di uno a uno. Qui di coperti ne hanno 150, e sono in 10.

«Guarda, ormai non sono più un cuoco: sono uno psicologo»

In una cucina del genere, è fondamentale conoscere a memoria i frigoriferi, il posto dove sta ogni strumento, e la brigata diventa un’entità corporea uniforme che condivide sensazioni, posizioni e sistemi nervosi. In modo che, se un commis sta per sfiorarti alle spalle con una pentola incandescente, tu lo sai, anche se non l’hai visto, e senza bisogno di dirsi nulla ti sposti. Organizzare queste sinergie in tre giorni è un’impresa inimmaginabile. Uno dei due Domenico mi guarda e mi dice: «Guarda, ormai non sono più un cuoco: sono uno psicologo».

Si affaccia un’altra ragazza, un po’ spaurita, e uno dei due chef le dice che purtroppo anche questa settimana le devono togliere la giornata di riposo che aveva chiesto: ha la morte negli occhi. Sono le tre e mezzo, e stanno aprendo una bottiglia di vino. Senza neanche chiedermelo, versano un bicchiere anche per me, che io rifiuto con grande imbarazzo. «Guarda che è buono», mi dicono. Dopo aver fumato una dozzina di sigarette comincio a defilarmi, perché ho capito che devono fare dei discorsi da adulti. Li saluto calorosamente, promettendo che magari verrò a cena la sera: «Vedi che questi qui dell’Expo sono abituati a fare congressi: solo che un ristorante è proprio il contrario di un congresso».

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Attraverso rapidamente il padiglione della Illy, che è circondato da numerosi mini-padiglioni di paesi noti per le loro coltivazioni di caffè. Yemen, Uganda, Burundi, Kenya, El Salvador, Repubblica Dominicana: caffè, caffè, caffè. Al Guatemala mi abbordano proponendomi di assaggiare un chicco, e me la cavo dicendo che ho i denti fragilissimi.

Faccio una piccola escursione bucolica e, con mio grande stupore, mi ritrovo davanti all’ingresso del ristorante della Francia. Mi stupisco perché l’accesso al padiglione (un labirinto fra piantine di asparagi in fiore e spinacine) è dal lato opposto. Salgo al piano superiore e il ristorante ha 400 coperti, la metà dei quali su un’enorme terrazza. Aspetto un po’ al bancone, fino a quando appare il maître dhôtel, che mi guarda malissimo. Cerco di spiegargli, nel modo più cortese e formale possibile, i miei obiettivi e le ragioni della mia presenza. Lui si agita, mi dice che non sa se è autorizzato a rispondere alle mie domande, deve chiedere al suo superiore. Mi fa sedere al bancone, mi porge un iPad e mi dice che se voglio posso dare un’occhiata al menu, dopodiché sparisce nelle gioie segrete della burocrazia.

Chef's Test
John Craven/Hulton Archive

Io gironzolo un po’, e vedo che il muro che separa la sala dalla cucina è in realtà una bellissima vetrata. Per ora non c’è nessuno, ma durante il servizio deve fare il suo effetto, perché veramente si vede tutto. È così difficile? Come si fa a non capire che per un evento che si chiama “Expo” il minimo è mostrare ai visitatori ciò che si fa? Tanto più che le cucine aperte, o quantomeno a vista, sono ormai un must per qualunque ristorante di tendenza. Nel frattempo François (mi pare) è tornato, mi dice che il suo superiore non si trova, e mi offre un bicchiere d’acqua ghiacciata. Le mie bottiglie sono tremendamente tiepide, e mi dico che forse posso accettare almeno dell’acqua del rubinetto.

Il padiglione ospiterà quattro chef stellati nell’arco di sei mesi e ciascuno presenterà la sua cucina per poco più di un mese. La scelta è senz’altro più prudente e sensata rispetto a Identità Expo, ma il risultato non è esattamente eccitantissimo: gli chef stellati sono un po’ di second’ordine, e nel menu ci sono cose tipo «il famoso fois gras con la sua cipolla caramellata». La sensazione è che, come spesso accade, i francesi preferiscano ancora mostrarsi al mondo per come il mondo se li immagina, e non per come realmente sono. Tutto ciò non rende tanto giustizia alla vera e propria rinascita della cucina francese degli ultimi 15 anni, ma tant’è: hanno fatto una cosa prudente, altisonante, un po’ noiosa, e tutto sommato riuscita. L’unico problema è che l’ingresso del ristorante è invisibile, ma il maître dice che hanno tanta gente lo stesso.

La Spagna è divertente: non riesco a salire al ristorante, che è ancora chiuso e invisibile, ma c’è un tapas bar col dj-set, la carta propone otto diversi gin-tonic e, benché tutti i padiglioni abbiano delle sedie di “design”, le sedie spagnole finora sono le uniche belle.

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Approdo al cardo di Eataly, che è un po’ come la Francia: per ogni regione c’è un piccolo ristorante con una cucina aperta ricavata nella sala stessa, quindi hai proprio i cuochi che ti guardano. Ogni regione d’Italia ospita un ristorante per un mese, e nello spazio della Lombardia ho un sussulto. Nel menu ci sono i marubini in brodo: così allargo lo sguardo, dietro ai fornelli non c’è nessuno, ma l’insegna dice che i cuochi di questo mese vengono da un piccolo paese in provincia di Cremona. In seguito, una rapida telefonata a mia madre confermerà i miei sospetti: è il ristorante dove s’era fatto il pranzo della mia prima comunione. In Campania vedo uscire da un forno a legna una pizza meravigliosa senz’altro destinata allo staff, che mi fa un po’ vacillare.

Una rapida telefonata a mia madre confermerà i sospetti: è il ristorante del pranzo della mia prima comunione

Mi avvicino al Veneto, dove finalmente c’è qualcuno che lavora. Chiedo come va a un cuoco alto e biondo, che non ha il tempo di rispondere perché il suo collega più piccolo e vispo corre lì e dice: «Scommetto che lui è un cuoco e viene qui a rompere», e mi fa un gran sorriso. Si chiama Shab, sta preparando la sua versione del carpaccio di manzo, e anche se ha solo 19 anni ha capito tutto: della cucina, e forse anche della vita. Mi racconta che quel piatto è stato inventato all’Harry’s Bar di Venezia nel 1950, da Giuseppe Cipriani: una sua amica, Amalia Nani Mocenigo, era venuta a pranzo e aveva problemi di stomaco. Così Cipriani s’inventa questo piatto di carne cruda, e lo chiama così perché nel palazzo vicino c’era una mostra del noto pittore. Accanto a Shab c’è una minuscola stagista di origini orientali, chiaramente innamorata di lui. Nel carpaccio c’è anche una sottilissima fettina di lardo, che Shab sta tagliando proprio mentre mi parla, e che inevitabilmente mi propone di assaggiare. Io sono paralizzato: non posso rifiutare, ma so anche che si comincia con una fettina di lardo e dopo cinque minuti si è allo spritz, e poi al grappino, e così via. Afferro la fettina, e faccio una specie di gioco di prestigio, sfarfallando con la mano davanti alla bocca. Gli dico che è buonissimo e in realtà me lo tengo lì. Mentre Shab mi chiede se conosco Iesolo, il lardo mi si scioglie in mano, fino a scomparire, così che anch’io avrò sprecato del cibo all’Expo

Negli altri padiglioni è quasi ora di cena, ma non in Messico. Al quarto piano c’è il ristorante Besame Mucho, che è su una terrazza bellissima, dove tutto luccica sotto il sole struggente: la cucina è talmente piccola che ci sta praticamente solo il cuoco, che è grande due volte me e ha tantissimi tatuaggi. Vengo accolto come un vecchio amico, e cerco di organizzare quel po’ di spagnolo che una volta sapevo parlare, ma in realtà non è necessario. Sembra che il cuoco abbia quattro mani: lo vedo maneggiare ceviche, ostriche in salsa verde con le polpette, e quando capisce che faccio il cuoco mi offre un piattino di polpo con la salsiccia fritta: e lì è dura.

Scappo, mimando che tornerò alla fine del servizio. Il ristorante della Germania sembra un po’ una mensa aziendale, ma lo stinco di maiale mi fa venire le vertigini. Per il padiglione del Giappone ci sono almeno 30 minuti di coda, quindi passo: per entrare al ristorante, invece, si deve ordinare la propria cena su una specie di consolle situata all’ingresso, che somiglia tanto ai videogiochi a forma di frigorifero che c’erano negli oratori quando eravamo piccoli. Ordini, paghi, poi entri, ti siedi e aspetti. Lascio perdere.

Nel padiglione United States 2.0, dove per un attimo avevo sperato di trovare uno stand del Maine Lobster Festival, non c’è da mangiare: ci sono invece tantissimi schermi con Obama che dice «Ciao!», in loop. A Israele c’è praticamente solo pane e hummus, ma sembra buono.

Sono praticamente alla fine, e vago senza troppo capire fra la Russia, l’Estonia, la Turchia e il Kuwait. Il mio ultimo obiettivo è lo stand di Slow Food, che so essere in fondo al decumano, quando sento un preponderante profumo di salamella. Il mio olfatto mi tradisce, perché quello non è un paese per salamelle, ma è il ristorante del Kazakhstan, dove si grigliano spiedini di agnello. Mi avvicino e incontro due ragazzi che lavorano al padiglione della Coop e che hanno fame. Sono al tempo stesso tentati e perplessi, cercano di parlare con quello che griglia che però non sa nulla, tantomeno l’italiano. Gli dico che faccio il cuoco, e che si vede che è roba buona. Decidono quindi di fermarsi, e mi propongono di unirmi a loro: gli dico che mi piacerebbe, ma sto digiunando all’Expo: «Eh, ti capisco».

Il padiglione di Slow Food, che immaginavo come l’apice del mio percorso, mi provoca invece un crollo di tensione. È accanto alla mastodontica astronave della Russia, e consiste in tre casette di legno, a metà fra una baracca degli attrezzi e un punto ristoro alla Giornata mondiale della gioventù. In una delle baracche c’è il bookshop e si tengono conferenze, ma oggi non c’è niente. Nell’altra c’è una mostra, con un albero con appesi dei foglietti con scritti i nomi di vari ortaggi. Infine c’è il punto assaggio, dove si paga per avere un piattino e un bicchiere biodegradabile e poi si assaggiano dei formaggi che, chiusi in tre piccole vetrinette, hanno l’aria di aspettare che accada qualcosa, qualcosa che però si ostina a non accadere. A parte me e una signora che telefona seduta su una panchina, non c’è nessuno.

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Dopo dieci ore di visita, mi viene da pensare una cosa: se quando si cerca di riflettere sugli scarti e su come ci nutriamo il risultato sono tutte queste cose interattive con la parola «sharing», forse si sarebbe potuto concepire il tutto in modo un po’ più radicale. Magari, sorpassando da destra le critiche sul fatto che è solo una grande fiera di cibo, forse si poteva fare una cosa con solo ristoranti.

Perché la maggior parte, soprattutto quelli dei padiglioni più piccoli, sono proprio un po’ mortificanti: è come se ogni Paese fosse venuto cercando di costruire un ristorante e un menu completo, solo che i mezzi e gli spazi, nella maggior parte dei casi, non lo hanno permesso. Invece di rabberciare menu e vaschette di alluminio, ogni cucina avrebbe potuto portare e servire una cosa sola. Ciascuno avrebbe potuto prendersi cura di un piatto di cui gli importa davvero.

Piccola digressione: l’uomo è notoriamente l’animale più onnivoro del pianeta, e questo perché l’uomo è l’unico animale che cucina; la cottura rende digeribile, e quindi nutriente, quasi tutto. Ora, nonostante questo primato (in cui battiamo di poco i topi), per ragioni misteriose ogni essere umano si nutre abitualmente di una parte minima degli alimenti che sarebbe in grado di digerire. Ci sono un’infinità di cose che gli esseri umani riconoscono come “cibo”, ma ciascuno di essi difficilmente ne mangia più del 3%. La “biodiversità” e il cibo come “cultura”, sono anche questo: un labirinto di cose terrificanti e disgustose che non mangeremmo neanche sotto tortura, ma che popoli interi mangiano da secoli. Lévi-Strauss diceva che il cibo, per l’uomo, deve essere «non solo buono da mangiare, ma anche buono da pensare». Ecco, mi dispiace, ma tutte queste cose non si spiegano e non si disegnano: si fanno. Di conseguenza, sostenere che il problema di Expo 2015 è che “sono solo ristoranti” e non c’è abbastanza ragionamento, significa considerare che la cucina non è in grado di pensare.

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Topical Press Agency/Hulton Archive

In questo senso, giù il cappello a Massimo Bottura, che sta curando, a Greco, una mensa per i poveri in cui i 40 più grandi chef al mondo, da Alain Ducasse a René Redzepi, cucinano ogni giorno gli avanzi degli altri padiglioni. L’ha fatto in collaborazione con la Caritas, la stessa che spruzzava il Ddt sul pane secco. (En passant, Bottura, nei tre giorni in cui ha cucinato al padiglione di Identità Expo, s’è inventato un dessert che riprende un’antica merenda dei bambini italiani: la zuppa di latte col pane vecchio.)

Dispiace anche un po’ per Slow Food che, dopo anni di azioni magnifiche e spesso eroiche, ha fatto un piccolo passo falso. Magari non è colpa loro – non lo so – e comunque non è neanche tanto grave: un lavoro di decenni sulla biodiversità agricola non sarà certo compromesso da quelle tre casette di legno tristi e da quattro formaggi (sicuramente buonissimi) che però non assaggerà nessuno.