Attualità
Ulteriori interpretazioni….
Pubblichiamo per intero un lungo racconto di Kevin Moffett intitolato Further Interpretations Of Real Life Events; apparso originariamente sul numero 0 di Studio per celebrare la sua inclusione nell’ultimo volume della prestigiosa antologia The Best American Short Stories.
Ulteriori interpretazioni di alcuni fatti della vita
di Kevin Moffett
traduzione di Anna Mioni
Dopo che mio padre andò in pensione, cominciò a scrivere racconti piuttosto veri su padri e figli. Aveva provato le immersioni subacquee, aveva provato a studiare i sogni, ma ora aveva cambiato idea e si era messo a fare quello. Io ero scettico. Da anni scrivevo racconti piuttosto veri su padri e figli, racconti che non erano perfetti, naturalmente, ma erano miei. Alcuni uscivano su riviste letterarie e avevo persino ricevuto una lettera da una mia fan, tale Helen del Vermont, alla quale piaceva il pezzo di un mio racconto in cui il padre chiede al ragazzino di grattare la schiena alla matrigna. Helen del Vermont diceva che trovava il racconto “godibile” ma un po’ “deprimente”.
La scena con la matrigna era l’interpretazione di un fatto vero. Quando avevo dieci anni mia madre morì. Io e mio padre abitammo da soli per cinque anni, poi lui sposò Lara, una signora gentile dalla risata fragorosa. L’aveva conosciuta a una conferenza sui sogni. Nella vita mi era piuttosto simpatica, ma non nel racconto. In quel racconto, “La fine dell’estate”, ero risentito con Lara (che avevo ribattezzato “Laura”) per aver sposato mio padre subito dopo la morte di mia madre (avevo fatto diventare i cinque anni cinque mesi).
“Grattavi sempre la schiena a tua madre”, dice mio padre nell’ultima scena. “Perché non la gratti mai a Laura?”
Laura è seduta di fianco a me, a sgranare piselli in un secchio. La tensione cresce. “Se non gratti la schiena a Laura, ti puoi scordare i regali di Natale!”, minaccia mio padre.
Allora, le gratto la schiena. A sentirlo ora sembra stupido, ma alla fine del racconto il Natale simboleggia altre cose. Non è più soltanto Natale.
La scena mi era stata ispirata dalla volte in cui mio padre e Lara erano stati a Città del Messico (mentre io ero perseguitato dai bulli e dai simulidi al campeggio estivo per oboisti) e mi avevano portato a casa un souvenir. Un oggettino artigianale di latta?, vi chiederete voi. Un assortimento di caramelle al fico d’India? No. Un grattaschiena di legno con il manico lungo, per la massima autogratificazione. Ma il peggio non era finito: sul manico c’era inciso TE QUIERO. Che all’epoca io credevo volesse dire Mi amo. (Mi sbagliavo di una parola.)
“Provalo”, disse mio padre. Aveva un’abbronzatura con sfumature color tuorlo d’uovo e portava una maglietta con scritto DI PROPRIETÀ DEL MESSICO sulla schiena. Era la classica maglietta che si trovava dappertutto.
Alzai il braccio sopra la testa e mi strofinai il grattaschiena su e giù lungo le vertebre. “Funziona”, gli dissi.
“Ha passato tutta la settimana cercare un regalino per te”, disse Lara. “Ha persino provato a tirare sul prezzo al mercado. È stato divertente.”
“Non ci sono molte cose adatte un ragazzino come te in Messico”, disse mio padre. “Però, il signore che mi ha venduto il grattaschiena mi ha raccontato una storia. Tutti gli uomini che erano partiti per combattere durante la rivoluzione si erano portati dietro le mogli. Volevano ricordare più…”
Non riuscivo ad ascoltare. Ci ho provato, facevo finta, con cenni della testa e mmm quando disse Pancho Villa e wow quando disse sparatorie e poi accidenti che storia quando ebbe finito. Chiesi il permesso di alzarmi e corsi di sopra in camera mia, sbattei la porta e spezzai in due sul ginocchio quell’infausto grattaschiena, come uno sterpo.
Un ragazzino come me!
Non ci si guadagna da vivere scrivendo racconti, non se si è bravi. Me l’ha detto il mio mentore, Harry Hodgett. Dovevo aver imboccato qualcosa di giusto, perché in effetti non aveva ancora ricevuto un centesimo per i miei scritti. Di giorno lavoravo all’università per adulti e lavoratori, e insegnavo Preparazione alla scrittura, un corso per gli studenti che non avevano ancora le capacità necessarie per Scrittura per principianti. Insegnavo anche Preparazione a preparazione alla scrittura, per chi non aveva ancora le capacità necessarie per Preparazione alla scrittura. Immaginatevi gli studenti più spregevoli dell’universo: ragazzi che, se gli chiedevi il nome di un tempo verbale, ti fissavano come se gli avessi appena chiesto di suonare la polka facendo le pernacchie sotto le ascelle.
Le riviste letterarie pagavano con copie per gli autori e abbonamenti, cosa piacevole, perché quando si pubblicavano un racconto almeno sapevi che tutti gli altri autori pubblicati in quel numero l’avrebbero letto. (Anche se, a dire la verità, io non lo facevo mai.) Così mi era arrivato il numero autunnale di Vesper: mi avevano pubblicato nel numero di primavera. Era restato sul tavolino del salotto per qualche giorno dopo l’arrivo, poi tornai a casa e trovai Carrie sul divano che lo leggeva. “Shh”, mi disse.
“Non ho detto niente”, risposi.
“Shh”, ripetè lei.
Una digressione: avrei voluto tenere fuori Carrie da tutto questo, perché non ho ancora pensato a come scrivere di lei. Era alta con i capelli castani corti e gli occhi castani e indossa degli abiti e… vedete? Questa descrizione potrebbe essere di chiunque. Carrie è adorabile, il suo viso è un nido per i miei sogni. Bisogna distanziarsi dall’argomento di cui si scrive. Bisogna affrontarlo con lo sguardo lucido e glaciale di un chirurgo. Un’altra persona di cui non riesco scrivere è mia madre. Ogni volta che ci provo, mi sembra di tentare un trapianto di reni con un apriscatole e una manciata di elastici.
“Incredibile”, disse, chiudendo la rivista. “Triste e sincero e privo di facili meschinità. È come se il racconto si sviluppasse man mano che lo leggo. Quel pezzettino nel motel è fantastico. Perché non me l’hai mai mostrato? Mi sembra davvero un progresso importante.”
Si alzò e mi abbracciò. Profumava di perle da bagno. Ero geloso della persona, chiunque fosse, che aveva scatenato quella reazione in lei: di solito Carrie, che avevo conosciuto alle lezioni di Hodgett, leggeva i miei racconti con malcelata impazienza.
“Un passo avanti importante, eh?” dissi con aria noncurante (da disperato). “Chi l’ha scritto?”
Lei si avvicinò per baciarmi. “Tu. ”
Presi la rivista per controllare che non fosse il numero primaverile, dove era pubblicato “Il giorno più lungo dell’anno”, la seconda parte della mia trilogia estiva. Parla di un ragazzo e di suo padre (sì, lo so) che tornano a casa in macchina, discutendo sul giradischi che il padre rifiuta di comprare a suo figlio, anche se il ragazzo ne ha bisogno, perché quello che ha ora gli ha rovinato due dei suoi dischi degli Yes, compreso l’introvabile Time and a Word, finché –sbam! – investono un cervo. All’improvviso la posta in gioco cambia.
Sono andato a leggere le note sugli autori. FREDERICK MOXLEY è un docente di statistica in pensione che vive a Vero Beach, in Florida. Nel tempo studia i sogni. Questo è il primo dei suoi racconti che viene pubblicato.
“Mio padre!” gridai. “Mi ha rubato il nome e mi ha trasformato in uno studioso di sogni!”
“Tuo padre ha scritto questo racconto?”
“E mi ha trasformato in uno studioso di sogni del cazzo! Penseranno tutti che mi sono rimbecillito!”
“Mi sa che nessuno la legge, questa rivista”, disse Carrie. “Senza offesa. E non si chiama anche lui Frederick Moxley?”
“Fred! Lui si fa chiamare Fred. Sono io che mi faccio chiamare Frederick. Dai tempi della terza elementare, quando in classe mia c’erano due Fred.” Sfogliai le pagine e trovai il racconto, “Miglio zero”, e lessi la prima frase: da bambino sognavo sempre di volare. Siamo in due, pensai. Di volare al circo, in Tibet, a vivere con una famiglia di gentili seguaci della Chiesa dell’unificazione. Sentii la bile che mi si avviticchiava su per la gola come una pianta di fagioli. “Cosa sta cercando di fare?”
“Leggilo”, disse Carrie. “Credo che espliciti molto bene cosa sta cercando di fare.”
Se il racconto fosse stato terribile l’avrei sopportato senza battere ciglio, capisco ora. Avrei potuto telefonargli e dirgli che, se insisteva a scrivere pasticci senili, usasse uno pseudonimo. E che permettesse al Moxley interessato alla verità e alla bellezza, eccetera, di pubblicare con il suo vero nome.
Ma il racconto non era terribile. Anzi, tutt’altro. Sì, infrangeva due delle sei leggi di Hodgett sulla scrittura di racconti (Non sceneggiare i sogni, Non usare più di un punto esclamativo per racconto), ma era riuscito a inanellare qualche vera e propria illuminazione. Inoltre, romanzava i fatti della vita vera in modi sorprendenti. Riconobbi un particolare specifico del periodo successivo alla morte della mamma. Ci eravamo trasferiti l’anno seguente, perché a mio padre non era mai piaciuta la pianta della nostra casa. O, almeno, questo era quello che credevo io. Era troppo sacrificata, diceva sempre: dovunque ci si girava, si trovava una parete o un armadio a muro a bloccare la strada. Nel racconto, però, i personaggi si trasferiscono perché il padre non riesce a smettere di associare la casa a sua moglie. La sua presenza è ovunque: nella camera da letto, nel bagno, nella disposizione dell’argenteria, nella jacaranda fiorita in cortile.
Tagliava fiori viola dall’albero e li sparpagliava in giro per la casa, sugli scaffali delle librerie, sul tavolo del salotto, scriveva. Sembrava una reazione di perfetta armonia con il mondo naturale, un modo di invitare l’esterno dentro la casa.
Mi ricordavo quei fiori. Mi ricordavo che la casa, quando c’era lei, aveva un odore particolare, cui non riuscivo a dare un nome. Mi ricordavo la sua presenza, una cosa immane e ineffabile.
Finii di leggere nella vasca da bagno. Non ero più arrabbiato. Ero un po’ geloso. Soprattutto, ero triste. Quel racconto, in cui mostrava continui tentativi di comunicazione tra padre e figlio falliti, finiva in una stanza di motel a Big Pine Key (ci andavamo in dicembre), con il padre che guarda un poliziesco alla tv mentre il ragazzino dorme. Lui fa un brutto sogno, il padre lo capisce dalla smorfia e dal cipiglio che ha sul viso. Il padre si sdraia al suo fianco, incerto se svegliarlo o no, e prova a immaginare che cosa sta sognando.
Non svegliarti, gli dice il padre. Nel sonno niente ti può fare del male.
Probabilmente il ragazzino sognava un elicottero che perdeva altitudine. Era un mio incubo ricorrente dopo la morte della mamma. Fendevo il cielo, superando casa nostra, superando l’ospedale, quando improvvisamente il pannello di controllo comincia a fare bip e l’elicottero scende vorticando. Il corpo mi si riempie d’aria mentre mi aggrappo alla leva di comando. Il rumore è la cosa peggiore di tutte. Come un’ape mostruosa che si avvicina. La testa continua a ronzarmi a lungo, persino dopo che mi sveglio, faccio la doccia e mi siedo a mangiare la colazione. Mio padre, che ha appena iniziato a studiare i sogni, un hobby che già allora trovavo ridicolo, mi chiede che cosa ho sognato.
“Be’”, dico tra un boccone e l’altro di cereali. “Ho un costume azzurro, anzi no, dorato. Improvvisamente sto nuotando in un’enorme vaschetta per i pesci in un negozio di animali pieno di clienti entusiasti. E il punto è che assomigliano tutti a te. E l’altro punto è che mi piace un sacco. Voglio restare per sempre nella vaschetta per i pesci. Hai una vaga idea di cosa vuol dire?”
“Finisci la colazione”, mi dice, con gli occhi bassi.
Mi piacerebbe aggiungere una parte in cui dico ma no, scherzavo, poi gli racconto il mio sogno vero. Lui potrebbe decidere che si tratta di ansia, o di paura. O, ancora meglio, potrebbe darmi un manrovescio. E io potrei andare in giro con l’impronta di una mano in faccia. Diventerebbe rossa, poi viola, poi di un blu marrone, molto poetico. Invece, stavamo lì a tenerci il broncio. Continuava a ripetersi, finché le mattine diventarono tristi e coreografate come le interazioni tra la gente che lavora in mezzo a macchinari assordanti.
Nel bagno mi asciugai e mi avvolsi un asciugamano attorno alla vita. In cucina ho trovato Carrie che mangiava oyster crackers. “E allora?”.
Aveva un’espressione così implorante, come un vaso vuoto senza coperchio.
Schiaffai la rivista sul tavolo. “Orribile”, dissi. “Sentimentale, noioso. Non so. Forse ho solo un pregiudizio contro la cattiva scrittura.”
“E forse sei solo geloso della buona scrittura”, rispose lei. Si spazzolò via le briciole della camicetta. “So che è un buon racconto, e anche tu lo sai. Non vai da nessuna parte finché non lo ammetti.”
“Dove credi che stia cercando di andare?”
Mi scoccò uno sguardo che mi ricordavo dalle lezioni di Hodgett. Dubbioso e divertito. Il primo giorno, quando Hodgett chiese a tutti di dire qual era il nostro libro preferito, e poi ci spiegò perché ci sbagliavamo, sognavo a occhi aperti che quella ragazza con il maglioncino a V bianco leggesse i miei racconti e mi avvicinasse timidamente in seguito per chiedermi: “Cosa rappresentava l’orologio rotto del padre?” e io le rispondevo la futilità, o la disperazione, e poi magari la baciavo. Si rivelò che era la lettrice più accanita della classe, ben più accanita di Hodgett, che di solito si accontentava di fare vaghe dichiarazioni sull’adesione a un modello comportamentale o la potenza incredibile del momento illuminante. Carrie era fredda e intelligente e meticolosa. Si insinuava lenta nel tuo racconto con una torcia e ti spegneva tutte le candele. Aveva detto di uno dei miei primi tentativi: “Su quale pianeta la gente si parla così nella realtà?”. E poi ancora: “Ma questo personaggio non fa altro che sgranare piselli?”.
So che aveva ragione sul racconto di mio padre. Ma non volevo più parlarne. Quindi mi aprii l’asciugamano e lo lasciai cadere sul pavimento. “Oh oh”, dissi. “Che ne dici di questo espediente narrativo?”
Mi squadrò dalla testa ai piedi più volte. “Non facciamo niente finché non ammetti che tuo padre ha scritto un buon racconto.”
“Buono? Cos’è che vuol dire? Cioè, è capace di riportare e di parlare e di stare seduto?
“Vuol dire buono”, ripeté Carrie. “È realizzato con la stessa energia con cui è stato ideato. Non è falso e nemmeno pretenzioso. Non mena per il naso il lettore inutilmente. È coerente con la propria logica. È toccante senza essere sforzato.”
Abbassai lo sguardo sul mio torso nudo. In qualche momento della sua litania, a quanto pareva, mi era venuta un’erezione. Il mio pene sembrava molto impaziente, come se volesse entrare anche lui nella discussione, e superfluo. “Se è così”, le risposi, “mi sa che ha scritto un buon racconto. E dovrei esserne felice?”
“Ora voglio che tu gli telefoni e gli dica quanto ti piace.”
Raccolsi l’asciugamano, me lo rimisi e mi avviai verso il salotto.
“Scherzavo”, disse lei. “Gli puoi telefonare dopo.”
Sconfitto, seguii Carrie in camera mia. Aveva vinto, vinceva sempre. Non avevo nemmeno più voglia di fare sesso. La mia camera puzzava come il fondale di uno stagno, come il guscio umido e putrefatto di una tartaruga. Lei si sdraiò sul mio letto, e parlava ancora del racconto di mio padre. “Adoro quel ragazzino nella stanza del motel”, disse, mentre mi baciava, e si tolse la maglia. “Adoro il cipiglio che ha ancora mentre dorme.”
Non telefonai mai a mio padre, ma dissi a Carrie di averlo fatto. Dissi che l’avevo chiamato e mi ero congratulato con lui. “Qual è il suo nuovo progetto?” mi aveva chiesto lei. Progetto! Come se fosse un architetto famoso, o roba del genere. Dissi che stava esaminando vari progetti, e ognuno era più “toccante senza essere sforzato” del precedente.
Mi telefonò lui la settimana dopo. Stavo correggendo i temi dei miei allievi, e m’inasprivo sempre di più a ogni parola. I paragrafi erano la risposta al tema: “Dove vai quando vuoi stare da solo?”. Tutti gli studenti, tranne uno, andavano in camera loro per stare da soli. L’unica eccezione era Daryl Ellington, che andava in “cammera” sua.
“Dalla voce sembri indaffarato”, disse mio padre.
“Sto lavorando un pochino”, gli risposi.
Ci scambiammo versioni-cartolina delle nostre ultime settimane. Sto bene, Carrie sta bene. Lui sta bene, Lara sta bene.
“E la scrittura…”, disse.
“Così cosà. A volte mi viene l’ispirazione, a volte no.”
“Parlavo di me”, disse, e mi riassunse goffo l’accaduto: scriveva racconti da quando gliene avevo spedito uno dei miei (mi ero dimenticato di averlo fatto), e aveva letto decine di antologie di racconti; poi mi riferì un sogno che aveva fatto, e poi, finalmente, che il suo racconto era stato accettato da una rivista (e altri due erano in corso di pubblicazione). Sembrava mortificato per tutta la faccenda. “Gli ho detto di pubblicarli a nome di Seth Moxley, ma devono aver invertito le righe”, mi disse. “Comunque, te ne spedisco una copia oggi. Se hai occasione di leggerlo, mi piacerebbe sapere che ne pensi.”
“Ma che fine hanno fatto le immersioni subacquee?” gli chiesi.
“Faccio ancora immersioni. La settimana prossima io e Lara andiamo a Pennecamp.”
“Sì, ma… la scrittura non è un hobby qualunque, di cui ci si occupa a tempo perso, papà. Non è come le immersioni.”
“Non ho detto che lo è. Sei stato tu a tirare fuori il discorso delle immersioni.” Respirò a fondo. “Perché fai sempre così?”
“Così come?”
“Rendi tutto così difficile. Ho dovuto bere due bicchieri di vino prima di telefonarti, solo per rilassarmi. Eri un bambino così accomodante, lo sai? Tua madre ti chiamava Placido. Mi svegliavo in piena notte, in preda al panico, e venivo a controllarti, perché non facevi rumore.”
“Forse la mamma si riferiva al cantante lirico”, ho detto.
Una pausa, e le marce che scattavano in silenzio. “Non ti ricordi molto di tua madre, vero?
“Qualcosa”, disse.
“La sua voce?”
“Non proprio.”
“Aveva una voce fantastica. ”
Dopo di quello, non ascoltai molto. Non perché l’avessi già sentito, anche se era così: volevo essere io a scegliere alcune cose da ricordare di lei, invece di che ascoltare per l’ennesima volta la sua versione. Non aneddoti oggettivi o particolari di seconda mano, ma… qualità. Immagini incollate insieme che potevo evocare senza bisogno di parole: lei che mi prendeva per mano senza bisogno di guardarmi quando eravamo per strada, le cicatrici sul polso per gli aghi che avevano inserito quando si era rotta il braccio, lei che rideva, lei che piangeva, il suo affetto smorzato per sempre, lei che non c’era più, si dissolveva dalla nostra casa una stanza alla volta. Non ero mai riuscito a scrivere di lei, non espressamente. Ogni volta che ci provavo, mi usciva fuori tutta gioiosa e vestita di bianco, olezzante, che dispensava saggezza, e imponeva le mani predestinate su di me e su tutti quanti. Scrivere di lei era ricordare in modo imperfetto: mi sembrava come una seconda morte. Ero molto più felice di scrivere di padri che si facevano aiutare dai figli a trascinare un cervo sul ciglio della strada, e gli dicevano: “Guarda quegli occhi annebbiati. È questa la morte, ragazzo mio”.
“Lei ha sempre avuto progetti ambiziosi su di te”, stava dicendo mio padre. Era una cosa che diceva spesso. Non gli avevo mai chiesto di specificare meglio.
Mi sovviene che sto infrangendo due delle leggi di Hodgett ora. Non scrivere mai della scrittura e Non sceneggiare i sogni. Mettete i personaggi nella stessa stanza, diceva sempre. Vedete cosa fanno quando non possono riagganciare. “Ci farebbe piacere rivedere Carrie”, disse mio padre dopo un po’. “Pensi che verrete da noi per Natale?”
Mancavano due mesi a Natale. “Facciamo del nostro meglio”, gli risposi.
Dopo aver riagganciato tornai ai temi dei miei studenti, felice di immergermi per un po’ nelle loro intuizioni semplici. La mia stanza è il posto più speciale, scriveva Monica Mendez. Tutto intorno a me ci sono scaffali di cose della mia memoria.
Immaginate per i vostri personaggi un periodo in cui le cose sarebbero potute finire diversamente, soleva dire Hodgett. Trovate il momento in cui si è compiuta una scelta che ha reso impossibili tutte le altre. Ai lettori piace vedere che i personaggi compiono delle scelte.
Lei morì in maggio. Una settimana dopo il funerale, mio padre accompagna me con tre amichetti a un parco a tema che si chiamava Boardwalk and Baseball. Forse spera che ci distragga per qualche ora. Io e i miei amici per tutto il giorno andiamo sulle giostre, diamo colpi di mazza da baseball a turno, mangiamo hot dog. Io tiro una pallina da ping pong dentro una bottiglia del latte e vinco una maglietta. Non mi ricordo nemmeno che maglietta fosse, ma mi ricordo quanto ero felice dopo averla vinta.
Mio padre ci segue e sta seduto su una panchina mentre noi ci mettiamo in coda. Lui probabilmente è piuttosto distrutto, ma suo figlio se la cava benone. Suo figlio passa da una giostra all’altra e se la ride con i suoi amichetti. Anzi, da quando sono entrati non ha ancora pensato a sua madre.
Mio padre porta gli occhiali da sole, per via delle allergie, dice. Ha le maniche della camicia umide. Credo che abbia pianto. “Ti diverti?” continua a chiedermi.
Certo, è evidente. E va bene, mia madre è morta una settimana fa, ma ho appena vinto una maglietta nuova e mio padre ha dato venti dollari a tutti e la coda per salire sul Viper è cortissima e c’è il sole e credo che abbiamo appena visto la ragazza di Casalingo Superpiù, o una che le assomiglia, in fila al carretto dei popcorn.
Quando mi ricordo di quella giornata muoio d’imbarazzo. Vorrei ritoccare tutto. Vorrei prendermi un’intossicazione alimentare, o perdere un paio di dita sul Raptor, qualcosa che rovinasse il divertimento perfetto di quei momenti. Ora lo devo rovinare nella mia memoria, lo devo ricordare con una riga nera tirata sopra.
“Sono contento che ti sei divertito”, dice mio padre mentre torniamo a casa.
Al rientro c’è casa nostra che ci aspetta. Le piante di falangio morenti sul porticato, le buste celesti nella cassetta postale.
Novembre fu una macchia. Una mattina dopo l’altra, cercavo di scrivere ma invece giocavo con la Lavagna magica per due ore. Scrivevo una frase. Aspettavo. Mi alzavo e andavo su e giù per la stanza, pensando alla frase. Mi appoggiavo al lavello della cucina e mi mangiavo un tubo intero di Graham crackers. Mi sedevo alla scrivania e fissavo la frase. La cancellavo e ne scrivevo una diversa. Tornavo in cucina e mangiavo una manciata di carotine. Cominciava a sorgermi qualche dubbio sulle carotine, allora chiamai il numero verde sulla confezione e parlai con una donna a Bakersfield, in California.
“Vorrei sapere l’origine delle carotine”, le chiesi.
“Vuole sentire la versione corta o la versione lunga?” chiese la donna.
Per la prima volta da giorni sentivo che qualcuno si prendeva davvero cura di me. “Entrambe”, risposi.
La versione corta è: la carotine sono carote adulte tagliate a pezzetti più piccoli.
Tornai alla scrivania, cancellai l’ultima frase e scrissi: “I bambini sono adulti tagliati a pezzetti più piccoli”. Mi piaceva. Sapevo che sarebbe venuto fuori un racconto notevole, uno che avrebbe vinto premi e cambiato il modo in cui la gente vedeva i rapporti padre figlio, se solo fossi riuscito a trovare altre trecento frasi circa per continuare. Ma dove diavolo erano?
Qualche settimana dopo che mio padre mi aveva mandato il suo primo racconto, ricevetti il numero invernale del Longboat Quarterly con un biglietto: Tuo padre vuole davvero sapere che ne pensi del suo racconto. È convinto che ti abbia fatto schifo. Non ti ha fatto schifo, vero? Baci e abbracci, Lara. No, Lara. E probabilmente non mi farebbe schifo nemmeno questo, però non riuscii ad andare oltre al titolo, “Angeli azzurri”, senza cedere all’impulso di lanciare la rivista sotto il divano (ci vollero quattro tentativi). Sapevo già di cosa parlava.
Più tardi sono rimasto vicino a Carrie sul divano mentre lei lo leggeva. Avete mai guardato qualcuno che legge un racconto? All’inizio ha un’espressione incerta ed esitante, arrivato a metà alterna sorpresa e sconcerto, ed è sereno alla fine. O, almeno, così era successo quel giorno con Carrie.
“Be’, in che modo dobbiamo agire?”, mi chiese quando finì.
“Non dirmi niente. Dammi solo un pugno nello stomaco. Forte. ”
Mi alzai la maglia, chiusi gli occhi e aspettai. Sentii che Carrie chiudeva la rivista, poi la sentii che mi atterrava sulla pancia, piano.
Lessi il racconto nella vasca da bagno. Basti dire che non era quello che mi aspettavo.
Da bambino ero ossessionato dai caccia. Tomcat, Super Hornet, qualsiasi cosa fosse dotato di ali e di missili. Pensavo che racconto parlasse di quando mio padre mi aveva portato a vedere i Blue Angels, la pattuglia acrobatica della marina americana. Non sarebbe stato granché come racconto: un caldo infernale, aerei che facevano acrobazie, io che stavo in coda per un’ora ad aspettare un autografo, ustionandomi, e poi mi addormentavo guardando il poster con cinque caccia mentre tornavamo a casa.
Il racconto parla di un padre vedovo che beve troppo e decide che deve pulire la casa. Passa stanza per stanza a spolverare, pulire pavimenti, buttare via gli oggetti. Gli angeli azzurri sono un terzetto di porcellane antiche che mia madre possedeva sin dall’infanzia. L’uomo tuttavia, poi si ricrede appena sente il camion della nettezza urbana che parte. Il racconto finisce con il padre e il figlio alla discarica, che guardano enormi collinette di immondizie, paralizzati.
Mi ricordo la discarica, la puzza di sciroppo caldo, le tempeste di uccelli sopra di noi. Mi disse che era importante vedere dove andava a finire la nostra immondizia.
Quando finì, ero di nuovo triste, in preda alla nostalgia, e volevo telefonare a mio padre. Lo feci dopo essermi asciugato. Carrie era seduta al mio fianco sul divano, con le gambe sopra le mie. “Cosa fai?” mi chiese. Composi il numero, aspettai e sentii il messaggio della segreteria telefonica (Qui Fred e Lara, incredibile, non siamo riusciti a rispondere alla vostra telefonata) e poi riattaccai.
“Ti ho mai raccontato di quando ho visto i Blue Angels?” Chiesi a Carrie.
“Non credo.”
“Be’, preparati” le dissi.
Per qualche settimana smisi di scrivere e uscii nel mondo. Andai in visita all’aeroporto, alla spiaggia, a un allevamento di pesci, in un cimitero, in una dolina. Raccolsi prove, ascoltai, cercai di andare oltre la mia impazienza per vedere il cuore splendido di sangue delle cose. Vidi un uomo che trasportava una donna sul manubrio di una bicicletta olandese. Portavano gli occhiali da sole. Erano poveri. Erano innamorati. Sentii una donna che diceva a un’altra: Tutti hanno un odore speciale, tranne me. Annusami, io non ho alcun odore.
Al cimitero in cui era sepolta mia madre, incontrai un vecchio immobile per terra davanti a una lapide. Quando passai, lessi le due scritte. RUTH GOODINE 1920-1999, CHARLES GOODINE 1923-, “Faccia come se io non ci fossi”, mi disse l’uomo mentre passavo.
Una volta seduto alla scrivania, mi sforzai di ricavare qualcosa da quello. Mi immaginai cosa era successo prima e dopo. Quale momento rendeva impossibili gli altri. Quell’uomo era andato al cimitero per allenarsi per l’eternità. Lo vedevo ancora sdraiato lì con il completo grigio, ma il prima e il dopo erano confusi. Prima era stato su un autobus, o una macchina, un taxi. Dopo sarebbe andato sicuramente… al supermercato per comprare… carne in scatola?
“Qualsiasi cosa che valga la pena di essere detto è indicibile”, dichiarava Hodgett di solito. È per quello che raccontiamo le storie.”
Tornai al cimitero. Lo percorsi da un’estremità all’altra, dai cenotafi di granito alle lapidi in legno senza scritte. Poi entrai nel mausoleo e trovai la targa di mia madre, seconda dal fondo. Dovetti inginocchiarmi per vederla bene. Un’altra delle sei leggi di Hodgett: Non sceneggiare un funerale o una visita al cimitero. Troppo melodrammatico, troppo ovvio. Mi sedetti contro un muro che chiamavano Muro della serenità e osservai i visitatori che entravano e uscivano frotte. Sembravano più infastiditi che tristi. Io e mio padre ci andavamo una volta, ma a un certo punto smettemmo. Dopo andavamo in una tavola calda e lui mi diceva: “Ordina qualsiasi cosa, tutto quello che vuoi”, e io invece ordinavo il solito.
Una signora con la macchina fotografica mi chiese se potevo fotografarla davanti alla targa di sua nonna. Dissi: “Uno, due, tre, sorrida”, e scattai.
Quando la donna se ne andò, dissi alcune cose a mia madre, tutte melodrammatiche, tutte ovvie. Nei mesi prima che morisse, parlava della morte come se fosse un lungo viaggio per cui sarebbe imbarcata. Se glielo permettevano, avrebbe vegliato su di me, mi diceva. “Mi mancherai tanto”, mi diceva, il che non mi era sembrato strano fino a quel momento. A volte speravo che stesse vegliando su di me, ma di solito era una cosa troppo terribile da immaginare. “Sono qui”, dissi alla targa. Non so perché. Mi fece sentire bene, quindi lo ripetei.
“Perché non parli di tua madre?” mi chiese Carrie dopo che le ho raccontato che ero stato al cimitero.
“Intendi in generale, o adesso?”
Carrie disse niente. Era molto paziente quando c’era da aspettare.
“Cosa vuoi sapere?” le chiesi.
“Qualsiasi cosa mi dirai.”
Fece una risatina sforzata. “Credevo che stessi per dirmi: ‘Qualsiasi cosa mi dirai rimane tra noi’. Come quando si va dallo psicologo. Non è così che ti dicono dallo psicologo?”
Per qualche motivo mi ricordavo mia madre sulla spiaggia, nell’acqua fino alle ginocchia, che mi dava le spalle. Ha i pantaloni bagnati fino alla vita e se avanza le si bagnerà anche la camicia. Mi chiedo perché dovessi tesaurizzare quel ricordo. Perché quella semplice immagine statica sembrava una moneta così rara?
“Sono ancora qui che aspetto”, disse Carrie.
Mio padre pubblicò altri due racconti in novembre, entrambi su un uomo la cui moglie sta morendo di cancro. Aveva un debole per descrivere i sogni, sogni lunghi, palesemente simbolici, e scoprii che anche i suoi racconti si leggevano come se fossero sogni, li subivo come se fossero sogni, e dopo un po’ mi dimenticavo che stavo leggendo. Come ci diceva il direttore della banda in cui suonavo alle superiori: “La meta è smettere di vedere le note”. Non mi successe mai, ogni nota era un seme che dovevo mandare giù, ma adesso capivo cosa voleva dire.
Verso la fine del mese mi ammalai per una settimana. Annullai le lezioni e restai a letto, in un dormiveglia frenetico. Carrie spariva, scompariva, riappariva. Prendevo i racconti di mio padre a casaccio e li rileggevo mescolando i paragrafi. Cercavo le parole ricorrenti, i particolari ripetuti. Una frase specifica richiamò la mia attenzione, tratta da “Sotto la luce “.
Quell’autunno gli alberi rifiutavano con tirchieria di separarsi dalle proprie foglie.
Nel mio delirio, sembrava che quella frase risolvesse tutto. La memorizzai. La recitai. Ero io l’albero che rifiutava di separarsi dalle proprie foglie, ma non potevo lasciarle libere, perché se lo facevo non me ne sarebbero rimaste più. Mio padre aspettava con un rastrello perché quello era il suo compito, ma io ero troppo tirchio e gli alberi assomigliavano tanto alle persone, non è vero?
Guarii.
La mattina in cui tornai in classe, Jacob Harvin del corso di Preparazione alla scrittura mi mise un pacchetto di Cheetos sulla scrivania. “La macchina me ne ha dati due per sbaglio”, disse.
Lo ringraziai e cominciai a parlare di concordanza tra soggetto e verbo. Con la coda dell’occhio continuavo a sbirciare il pacchetto di Cheetos arancioni e provavo una gratitudine incredibile. “Qualcuno mi parli del soggetto di questa frase”, dissi, scrivendola sulla lavagna. “Gli alberi in Florida rifiutano di separarsi dalle proprie foglie“.
Terrie Inal alzò la mano. “Sta piangendo, professor Moxley?”, Chiese.
“No, Terrie, sono solo allergico alle cose” risposi.
“A me sembra che stia piangendo”, disse. “Ha bisogno di un momento di pausa?”
La parola momento fu la goccia che fece traboccare il vaso. Piansi davanti alla classe mentre gli allievi assistevano inorriditi, annoiati, divertiti, comprensivi. “È solo che… è stato un gesto così carino”, ho spiegato.
Più tardi nel corso della settimana mio padre telefonò e gli dissi che avevo quasi finito di leggere uno dei suoi racconti. “Per ora è buono”, dissi. Carrie mi suggerì di smettere di scrivere per un po’, senza sapere che l’avevo già fatto. Mi ubriacai e mi ruppi gli occhiali. Qualcuno mi scrisse ciospo con il pennarello indelebile sul cofano della macchina.
***
Un giorno andai a trovare Harry Hodgett nel suo ufficio. Mi recai al campus a piedi, con una bottiglia di Chivas Regal, il suo preferito, e mentre camminavo ripensavo a quello che avrei detto. Hodgett era un personaggio che incuteva timore. Si divertiva a fare giochetti con la gente.
Aveva la porta aperta, ma l’unica traccia della sua presenza era una tazza vuota di fianco al racconto di uno studente. Mi sporsi e vidi T.M.N.I. scritto sul margine con l’eloquente penna blu di Hodgett (stava per Triste ma non interessante), poi mi sedetti. Nell’ufficio c’era odore caldo e stantio di libri vecchi. Alle pareti erano esposte fotografie incorniciate di Hodgett e vari degeneri famosi.
“Questo non è lo zoo didattico”, disse Hodgett mentre entrava. Portava pantaloni della tuta e una maglietta Everlast con le maniche sfrangiate. “Chi sei?”
Hodgett stava facendo uno dei suoi giochetti. Sapeva benissimo chi ero. “Sono io, Moxley”, risposi, stando al gioco.
Si sedette con un grugnito. Sembrava malandato, confuso, sfiatato, il che significava che era all’inizio di uno dei suoi periodi da sobrio. “Ah, certo, Moxley. Non ti avevo riconosciuto senza il… hai presente.”
“Il cappello”, azzardai.
Tossì per un po’, poi sollevò il cestino e ci scatarrò dentro. “Allora, cosa fingi di essere oggi?” mi chiese, che nella lingua di Hodgett significava: “Allora, come stai?”.
Esitai, poi risposi: “Bambù”, una bella cosa imperscrutabile da fingere di essere. Chiuse gli occhi, appoggiò la testa sullo schienale per mostrare la cicatrice livida sotto il mento, che nella lingua di Hodgett significava: “Vai pure avanti”. Gli raccontai tutto di mio padre. Conoscendo bene i gusti di Hodgett, esagerai alcuni particolari, facendolo sembrare più violento. Hodgett aveva gli occhi chiusi, ma capivo che stava ascoltando dal fatto che sul viso gli si disegnavano tic e cipigli. “Ha mandato i racconti usando il mio nome”, dissi. “E io non scrivo una riga da più di un mese.”
Con mia grande sorpresa, Hodgett aprì gli occhi, mi guardò come se si fosse appena svegliato e disse: “Il mio vecchio una volta ha cercato di graffettarmi un uccello canoro allo scroto con la pistola sparapunti.” Incrociò le braccia sul petto. “È solo la verità, non sto cercando di farmi compatire.”
Mi ricordai di aver già letto quella frase precisa (pistola sparapunti, uccello canoro, scroto) e poi mi sovvenne dove. “Succedeva a Moser”, gli dissi, “alla fine del tuo romanzo La strada difficile. Suo padre gli vuole dare una lezione sulla perdita.”
“Quello non è un romanzo, Capo. Quella era vita vissuta in prima persona.” Sbuffò, rauco. “Tutta questa storia delle riviste letterarie e delle telefonate e della sensibilità ferita non è per nulla affascinante. Un racconto deve cantare come una ferita. Voglio dire, metti il tuo padre e il tuo figlio insieme nella stessa stanza. Lascia in giro un po’ di armi.”
“Ma questo non è un racconto”, gli dissi. “Lo sto vivendo in prima persona.”
“Sono pagato per insegnare agli studenti come te il modo di rovinare la carta. Guardami, amico: sì e no riesco a pensare.” Sul viso gli si succedette una serie di contrazioni, come uno spirito maligno in uno specchio. “Vuoi il mio consiglio?”, Disse. “Vai a parlare con il tuo vecchio. La vita non è un’opera lirica. Assomiglia di più a una serie di pubblicità di oggetti che non abbiamo la minima intenzione di comprare.”
Strizzò gli occhi, mentre mi esaminava. Aveva gli occhi cadenti e una pellicola bianca agli angoli della bocca. Il naso era ricoperto da una ragnatela di capillari scoppiati.
“Che cos’è successo alla ragazza, comunque?” mi chiese Hodgett. “Quella dal fascino sexy.”
“Parli di Carrie? Della mia ragazza?”
“Sì, Carrie. Una volta avevo anch’io ragazze come Carrie. Sono divertenti.” Chiuse gli occhi e con la mano destra cominciò a massaggiarsi l’inguine, noncurante. “Aveva scritto quel racconto sul reparto ustionati.”
“Carrie non scrive più”, dissi, cercando di infrangere l’incantesimo.
“Che peccato” disse Hodgett. “Be’, immagino che le cose vadano così. Il talento comprende suoi limiti e rinuncia, mentre l’incompetenza continua a sfacchinare finché non ha pronto un libro. In una rissa per strada, secondo me l’incompetenza batterebbe il talento in qualsiasi circostanza.”
Raccolsi la bottiglia di Chivas Regal e feci per andarmene. Esaminai il faccione vistoso, grezzo e malconcio del vecchio. Si stava ancora toccando. Volevo dirgli qualcosa di risoluto. Volevo che le mie parole gli sbatacchiassero nella testa tutto il giorno, come le sue nella mia. “Grazie”, gli dissi.
Annuì, poi indicò la bottiglia. “Puoi lasciarla dove vuoi”, disse.
Un altro ricordo: mia madre, mio padre e io nel nostro salotto. Io ho otto anni. In un angolo c’è l’albero di Natale, sul muro sono appese tre calze, sul tavolo della cucina c’è un pupazzo di neve fatto di palle di polistirolo. Stiamo per aprire i regali. A mio padre piace ispezionare accuratamente quelli per lui, e provare a indovinare cosa c’è dentro. Prende un pacchetto piatto, avvolto in carta argentata, lo scuote, lo rigira, se lo appoggia all’orecchio, poi dice: “È un libro”. Se lo appoggia sulle ginocchia e chiude gli occhi. “Un… un’autobiografia.”
Ci azzecca ogni volta.
Mia madre porta una vestaglia gialla e sta seduta sotto una coperta. Ha di nuovo freddo. È malata, ma io non lo so ancora. Apre i regali distratta, dicendo wow e che bello e poi piega con ordine la carta da regalo a metà e poi in quattro, mentre io apro i miei regali strappando la carta uno dopo l’altro. Ringrazio senza neanche alzare lo sguardo.
Quell’anno io e lei avevamo scelto per mio padre un nuovo orologio subacqueo, che aspettammo a dargli quando tutti gli altri regali erano stati aperti. L’avevamo messo in una scatolina e poi l’avevamo chiusa in una scatola più grande.
Gliela metto di fronte. Lui guarda me, poi lei. Solleva la scatola. “Leggerissima.” La scuote, bussa su tutti i sei lati della scatola. “Le cose non sono ciò che sembrano.”
Mia madre comincia a tossire, piano sulle prime (mio padre si ferma, posa le mani piatte sopra la scatola) poi in modo incontrollabile, in grandi scoppi secchi. Le porto dell’acqua che beve ancora tossendo. Mio padre l’accompagna in bagno e la sento che ha conati di vomito e tosse secca. Per qualche motivo punto il telecomando verso la televisione.
Il pacchetto rimane ancora chiuso in salotto per il resto della giornata. La sera, quando la mamma è a letto e io mi sto lavando i denti, lui lo prende e dice: “Un orologio subacqueo, impermeabile fino a cento metri”, poi lo apre.
Io e Carrie andammo a Vero Beach la vigilia di Natale. Ai lati della strada pareva ci fosse un eccesso di auto abbandonate e animali morti, e tra quello e il cielo grigio e i cartelli scritti a mano che delimitavano le fattorie messe a maggese (PREPARATEVI ALL’ESTASI: LODATELO) cominciai a sognare ad occhi aperti l’Apocalisse. Speravo che arrivasse proprio così, in silenzio, senza troppo preavviso o grandi celebrazioni.
“So che è opera di fantasia”, stava dicendo Carrie, a proposito del racconto più recente di mio padre, “ma è difficile non interpretarlo come realtà. Hai incollato davvero delle foto di tua madre sulla porta d’ingresso quando Lara è venuta a casa vostra per la prima volta?”
“Forse”, risposi. “È probabile. Non me lo ricordo, davvero. ”
Avevo attaccato le fotografie in cerchio, come il quadrante di un orologio. Stavo in cima alle scale ad aspettare che suonasse il campanello.
Carrie indicò un cartellone pubblicitario su cui compariva la sagoma dell’auto di un pilota della NASCAR che era rimasto ucciso da poco, affiancata da ali bianche da angelo. “Spero che non abbiano cominciato ad accogliere in paradiso anche le auto da corsa”, commentò.
Riuscii finalmente a parlare con mio padre della sua scrittura mentre eravamo in garage a cercare il pupazzo di neve di palle di polistirolo. Frugavamo dentro scatoloni e trovammo annuari scolastici, gufi fatti a macramé, vestiti e il mio oboe avvolto nel velluto viola. Mi dimenticavo sempre quanto mio padre fosse in forma e belloccio finché non lo vedevo di persona. Aveva i capelli ormai del tutto grigi e gli occhialini da lettura argentati in fondo al naso.
“Non sapevo che eravamo andati alla discarica cercare quella bambola”, dissi. Mi uscì un tono più di rimprovero di quanto avessi voluto.
Lui alzò lo sguardo dello scatolone, con gli occhi ancora strizzati, come se avesse esaminato delle stanze buie ammassate di oggetti. “Parli del racconto?”
“’Angeli azzurri’”, risposi. “L’ho letto. Li ho letti tutti, a dire la verità.”
“Mi sorprendi”, disse, mentre piegava la falda dello scatolone che aveva davanti. “È meglio non ruminare troppo su quello che succede nei racconti, non trovi?”
“Ma tu cercavi quelle bambole.”
“Non mi aspettavo di trovarle. Volevo vedere dove andavano a finire.” Scosse la testa. “È difficile spiegarlo. Dopo la morte di tua madre… preparavo la colazione, per esempio, e mi mettevo a pensare ad Annie e cominciavo a dare i numeri. L’unico momento in cui mi rilassavo era nel sonno. Per quello ho cominciato a studiare i sogni. Ho scoperto che, se facevo alcuni esercizi prima di addormentarmi, potevo controllare quello che sognavo. Potevo ricordarmelo. Potevo fare una pausa e riavvolgerli avanti e indietro. Mi stai guardando come se ti facessi pena.”
“È solo strano”, gli dissi. “I sogni, i racconti, sembra che io non ti abbia prestato attenzione. Non avevo la minima idea che tu ti disperassi in silenzio mentre io aspettavo il toast del mattino.”
“Non era proprio sempre così.” Si tirò sugli occhiali e mi guardò. “Dovresti provare a scrivere qualcosa su di lei, se non l’ha già fatto. Vedrai che porterai alla luce cose incredibili. I racconti sono proprio come sogni.”
Qualcosa nel suo consiglio mi innervosì. Mi fece ricordare la sua nota dell’autore, presuntuosa e noncurante: Questo è il primo dei suoi racconti che viene pubblicato. “I racconti non sono sogni”, dissi.
“Davvero? E allora cosa sono?”
Non lo sapevo. Sapevo solo che, se lui credeva che fossero sogni, allora dovevano per forza essere qualcos’altro. “Sono vasi”, dissi. “Pieni di api. Sviti il coperchio e le api escono.”
“E va bene”, disse, spostando la scatola. “Ma penso comunque che dovresti provare a scrivere qualcosa su di lei. Anche se significherebbe far uscire le api.”
Continuammo a cercare finché trovai il pupazzo di neve a faccia in giù in una scatola piena di tovaglie ricamate. Un topo o una faina gli aveva mangiato mezza testa, ma aveva ancora il suo sorriso di perle nere.
“Mi ricordo quando l’hai costruito”, disse mio padre.
Anch’io. O meglio, mi ricordavo quando l’avevo costruito, senza ricordarmi le procedure. L’avevo costruito con la mamma quando avevo tre anni. Ogni anno compariva a centro tavola in cucina e ogni anno lei diceva: “Questo l’abbiamo costruito io e te. Fuori pioveva e tu continuavi a dire: ‘Andiamo fuori in mezzo alla nebbia’”. Forse era convinta che, se me lo ricordava a sufficienza, non avrei mai dimenticato il giorno in cui l’avevamo costruito, e forse per un po’ fu proprio così.
Portai in casa il pupazzo di neve e lo mostrai a Carrie, che era seduta in salotto con Lara. “È mostruoso”, disse Carrie.
Lara mi lanciò uno sguardo eloquente. In grembo aveva una ghirlanda di popcorn incompiuta. “Carrie mi raccontava cosa pensa dei racconti di tuo padre”, mi disse. “Vuoi aggiungere qualcosa?”
Mio padre entrò in salotto con due candelieri spaiati.
“Sono”, dissi lentamente, guardando Carrie, e aspettando che mi suggerisse le parole con le labbra, “molto”, era così carina, non solo da vedere, ma proprio carina come persona, “buoni”. Respirai e dissi: “Sono molto buoni”.
Carrie applaudì. “E lo pensa sul serio”, disse. “Quell’espressione vagamente nauseata che ha in faccia, quella è sincerità.” E poi, rivolta a me: “Visto che non era poi tanto difficile? Non ti senti più leggero adesso, che ti sei tolto il peso?”
Mi sentivo come se avessi ingoiato una pietra. La sentivo che si piazzava lì e cominciava a ricoprirsi di muschio.
“È Frederick il vero scrittore”, disse mio padre. “Io lo faccio solo come passatempo. ”
Che umile, no? Che saggio e che paterno e che gentile. Ma sapevo cosa voleva dire: È Frederick l’impostore. È lui il finto ventriloquo. Io mi limito a tamponargli le ferite.
Che altro devo aggiungere sulla nostra visita? Voglio arrivare al racconto di mio padre sul Messico senza troppi arzigogoli. Sentivo la voce di Hodgett: Non finire mai un racconto con un personaggio che comprende qualcosa. I personaggi non devono comprendere qualcosa, spetta ai lettori farlo. Ma se il personaggio è anche un lettore?
Decorammo l’albero di Natale. Apprendemmo le luci sulle palme da sagù nel cortile davanti alla casa. Facemmo colazione in un vecchio zuccherificio e, dal molo, vedemmo un piccolo branco di delfini che uscivano dall’acqua all’alba e si rotolavano. Io studiavo mio padre, cercando di resistere all’impulso di catalogarlo. La sua espressione fissa era di curiosità benevola. Lui e Lara si tenevano ancora per mano. Completavano le frasi l’uno dell’altra. Sembravano felici. Osservando mio padre che guardava i delfini mi sembrava di stare ad un’asta a fare offerte sullo stesso oggetto. Era una sensazione brutta e avara.
La vigilia di Natale non riuscivo a dormire. Io e Carrie eravamo nella mia vecchia camera, che ora ospitava due letti singoli separati dal mio vecchio comodino tricolore. Appena mi abbandonavo al sonno mi ritornavano tutte le vecchie paure, il senso di morte di una stanza buia, il rumore di pietra contro pietra della lastra che scivola a chiudere una cripta.
Durante la notte sentii Carrie che si rigirava. “Non riesco a dormire”, dissi.
“Continua ad allenarti”, disse, assonnata. “È tutta questione di allenamento.”
“Mi chiedevo perché hai smesso di scrivere. Avevi più talento di tutti noi messi insieme. Sembrava che ti venisse facilissimo.”
Espirò dal naso e si girò a guardarmi. Al buio le vedevo a malapena gli occhi. “Facciamo finta”, disse.
Aspettai che finisse la frase. Non la finiva, così chiesi: “Facciamo finta di cosa?”.
“Facciamo finta che ci siano due persone sdraiate vicine in una stanza. Facciamo finta che parlino di una cosa, poi di un’altra. Diventava troppo difficile mettergli delle parole in bocca. Avevano smesso di collaborare.” Si girò e sbatté un ginocchio contro il muro. “Cominciavano a dire cose del tipo: ho fame, ho sete, ho bisogno d’aria. Sono stufo di essere descritto. Voglio vivere.”
Pensai al suo racconto sul reparto ustionati, al fatto che i ragazzi erano da una parte della stanza e le ragazze dall’altra. Prima del coprifuoco entrava l’infermiere e faceva cantare tutti, poi chiudeva una tenda per separare i ragazzi delle ragazze. Dopo un po’ le chiesi: “Dormi?”. Non rispose, quindi scesi al piano di sotto.
Mi versai un bicchiere d’acqua e cercai qualcosa da leggere nello studio di mio padre. Sul tavolo aveva un dizionario normale, uno dei sinonimi e una cosa di nome Testo classico di medicina interna dell’imperatore Giallo, che mi misi a sfogliare. Quando l’uomo invecchia, le ossa gli si seccano e diventano fragili come la paglia, e gli occhi si fanno sporgenti e infossati. Aprii il primo cassetto del suo schedario e perlustrai una pila di racconti fotocopiati, finché non trovai il manoscritto graffettato dal titolo: “Racconto sul Messico”. Mi sedetti sul suo divano a esse per leggerlo.
In Messico, cominciava, si ricordano ancora di Pancho Villa. Mi preparai per un resoconto appena dissimulato della vacanza di mio padre con Lara, ma a quanto pareva invece la storia seguiva un uomo, sua moglie e il figlio in vacanza a Città del Messico. Ci sono andati perché la madre è malata e la loro ultima speranza è un guaritore che ha fama di saper aiutare anche i casi più disperati. La famiglia è nella sala d’attesa del guaritore e aspetta la visita. Il figlio, nascosto sotto le cuffie del suo nuovo walkman, vorrebbe solo andare a casa. La mamma cerca di parlargli, ma lui continua a rispondere Eh? Eh?.
Poi i tre entrano in una stanza poco illuminata, dove il guaritore chiede a mia madre cosa c’è che non va, cosa le hanno detto i suoi medici e perché è andata da lui. Racconta una storia sconclusionata su Pancho Villa, che nessuno di noi ascolta, poi pesca in un cassetto e ne estrae un grattaschiena di legno. Lo fa scorrere su e giù per la schiena di mia madre.
“Come si sente?”, chiede.
“Bene”, risponde la madre. “Serve a qualcosa?”
“A niente. È piacevole, no? Se lo può tenere, gratis.”
Dovevo essermi addormentato mentre leggevo, perché un certo punto del racconto i fili si scioglievano e la madre, il padre e il figlio se ne andavano dal Messico fino a una spiaggia che sembrava molto quella vicino a casa nostra. Alberghi che incombono sulle piante di avena marina. Il faro dell’insenatura che si vede a malapena in lontananza. Sono seduto su una coperta a fianco di mio padre, mentre mia madre è nell’acqua fino alle ginocchia e ci volta le spalle.
“È malata”, mi dice mio padre. “Non vuole che ti dica niente, ma sei abbastanza grande per saperlo. È molto… malata.”
Se è malata non dovrebbe stare nell’acqua, penso io. Ha i pantaloni bagnati fino alla vita e se avanza le si bagnerà anche la camicia. Prendo una manciata di sabbia e me la lascio scorrere tra le dita.
“È come una battaglia”, dice. “Il bene contro il male. Se ci facciamo forza tutti insieme, la supereremo indenni.”
Mia madre esce dall’acqua. È inondata di luce e già la vedo a malapena. Si siede vicino a noi, mi posa la mano sulla testa e, nel sogno, capisco che quello è uno dei momenti che ho bisogno di prolungare. Le metto la mano sulla testa e ce la trattengo. La spingo giù finché fa male, e continuo a spingere.
“Puoi mollare”, dice lei. “Tanto, non vado da nessuna parte.”
Il mattino dopo trovai mio padre con un pigiama a scacchi vicino all’albero di Natale. Scavalcò un mucchio di regali per prendere il dono che gli avevamo portato io e Carrie. Scosse il pacchetto e lo auscultò. Ci picchiettò sopra con le dita.
“Non è un orologio”, dissi io.
Si girò verso di me e sorrise. “Ho ristretto le possibilità a due”, disse. “Vieni.” Mi fece cenno di avvicinarmi. “Siediti, ho una cosa per te.”
Mi sedetti sul divano e mi porse un pacchetto lungo e piatto avvolto in carta rossa e bianca. “Aspetta, aspetta”, disse quando cominciai ad aprirlo. “Indovina che cos’è.”
Lo guardai. Mi venivano in mente solo un paio di bacchette di legno.
“Ascoltalo”, disse, prendendomelo di mano. Me lo avvicinò all’orecchio e lo scosse. “Non pensare, ascolta e basta. Cosa ti dice questo suono?”
Non sentivo niente. “Non sento niente”, gli dissi.
Continuò a scuotere il dono. “Sta cercando di dirti che cos’è. Lo senti?”
Aspettai, ascoltai. “No.”
Mi picchiettò il pacco contro la testa. “Ascolta più attentamente”, mi disse.