Attualità

The hangover

La classe creativa e l'abuso di alcol. Un vizio ma anche un prodotto storico, che dal '68 ha deformato l'immagine della borghesia in tutto il mondo.

di Cesare Alemanni

Primo giugno, Venezia, terzo giorno del vernissage della Biennale Arte. Campo San Barnaba, a mezzogiorno di un sabato meteorologicamente incerto, è tutto un coro di lamenti e di rimpianti. Si lamenta un giovane con la barba fulva e la Lacoste verde, si lamenta una bella ragazza castana con i Wayfarer dall’ossatura bianca, si lamenta un critico tedesco con la camicia di lino, si lamenta un ragazzo che mi somiglia – magro, baffi e capelli neri, solo poco più basso di me – e ovviamente mi lamento anche io. Il mio quasi sosia è un dj sulla trentina, la sera prima ha suonato a una delle feste che gravitano intorno al circo della Biennale. La ragione dei suoi lamenti, o forse è più corretto dire dei suoi rimpianti, è identica alla mia e la stessa di tutti i presenti: ieri ha «bevuto troppo». Se fosse possibile tracciare e assegnare un colore alle frequenze emesse da un’emicrania, in questo momento Campo San Barnaba apparirebbe come una gigantesca macchia sulla cartina di Venezia. Si dovrebbe poi soltanto puntare una freccia e scriverci sopra la parola Hangover.

È stato lì, in mezzo a quei coetanei o quasi coetanei, a quelle vecchie e nuove conoscenze a cavallo tra i 25 e i 40 anni preda di malesseri assortiti e sensi di colpa reconditi, quasi tutte comunque già con un altro spritz in pugno, pronte a cominciare una nuova maratona alcolica che con ogni probabilità le avrebbe condotte di nuovo lì, il giorno dopo, a lamentarsi con un altro spritz in pugno degli eccessi del giorno prima; tutte, o quasi tutte, impegnate in conversazioni sull’alcol, sul suo consumo e sui loro postumi, che ho percepito chiaramente l’incongruenza della situazione. È stato lì, in mezzo a quella tribù vociante di «non posso andare avanti così», «dai, non pensarci», «sempre così la Biennale», «colpa di Venezia, hai ragione», «per un po’ non bevo», «ma stasera c’è la festa di pincopallo, come si fa?», che ho realizzato, con quel po’ di lucidità che mi concedeva il mio cerchio alla testa, che quasi tutte le persone che frequento hanno, più o meno dichiaratamente, un rapporto quantomeno ambiguo, allo stesso tempo strettamente confidenziale ed estremamente conflittuale, con l’alcol. È stato insomma lì che ho deciso che forse valeva la pena tentare di indagare cosa si nasconde dietro questa ambiguità. Quello che segue è il risultato di quel tentativo o, se preferite, una seduta di autocoscienza a episodi.

È stato lì che ho realizzato che quasi tutte le persone che frequento hanno, più o meno dichiaratamente, un rapporto quantomeno ambiguo, allo stesso tempo strettamente confidenziale ed estremamente conflittuale, con l’alcol

Il pezzo non è praticamente ancora partito e già mi trovo a dover fare una precisazione rispetto a una frase di appena poche righe fa. Non è infatti del tutto vero che “quasi tutte le persone che frequento” hanno un rapporto complicato e pressoché quotidiano con l’assunzione di alcolici. Ho numerosissimi amici e conoscenti che fanno i lavori più disparati – avvocati, ingegneri, maestri elementari, programmatori, assistenti sociali, persino un pugile – tutti perfettamente in grado di bere una birra o un bicchiere di vino ogni tanto, se proprio capita. È però assolutamente vero che la maggior parte delle persone che conosco, orbitanti intorno a quella che con una grande generalizzazione a inizio 2000 Richard Florida ha definito come “classe creativa”, dimostra un’abitudine all’uso e abuso quasi quotidiano di alcol, che non è solo diffusa e tollerata da anni ma addirittura incentivata all’interno del “gioco linguistico” della categoria ed elevata a status in quasi tutte le principali metropoli occidentali (di sicuro nelle due che conosco meglio – Milano e Berlino – due città agli antipodi per quasi tutto il resto).

A livello statistico il rapporto privilegiato tra alcolici e “industria creativa” nei paesi del Primo Mondo è confermato da un rapporto stilato a fine 2011 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che delinea un’inversione di lungo corso nel trend del consumo di alcol all’interno dell’arco sociale. Se per larga parte dell’800 e del ‘900, l’alcol è stato soprattutto un vizio appannagio degli strati più elevati e di quelli più bassi della società, da un certo punto dello scorso secolo in poi esso ha iniziato un graduale riposizionamento verso il centro, ovvero verso i quadri medi della borghesia urbana. Gli stessi che, durante tutto il lungo processo di definizione della propria identità, avevano guardato all’alcol e a qualunque altro induttore di stati di alterazione con diffidenza e ostilità: distrazioni da lasciare al proletariato per affogare le proprie fatiche e ad aristocratici (d’animo o di condizione) decaduti nella bohème. Il ’68, con le crepe prodotte dai suoi miti sull’inconscio borghese e con la conseguente emersione di figure come quella del BoBo (il bourgeois-bohème), è stato il primo moto tellurico a scuotere la superficie dell’immagine severa, sobria e morigerata che la borghesia aveva proiettato fin dalla sua nascita. Il parziale riassorbimento di quelle energie all’interno della cultura consumistica degli anni ’80 e l’affiorare dell’idea di “creatività fatta a sistema” hanno così prodotto un nuovo tipo “borghese”, un nuovo genere di “colletto bianco” che con il recente incremento della precarietà economica ed esistenziale…

La mondanità alcolica tardo-pomeridiana dei professionisti creativi ha una sua ritualità riempita da parole come “aperitivo”, “happy hour”, “vernissage”, “evento”, “presentazione”. Tutte occasioni, più o meno mascherate, per cominciare a bere il prima possibile

Ecco, sono scivolato nel weberismo da bar. Quando ho iniziato questo pezzo una delle prime cose che mi ero promesso di fare era di non cadere nella sociologia nemmeno per fornire quel poco di contesto necessario a dare un inquadramento storico al fenomeno. A interessarmi non sono tanto le ragioni per cui si è arrivati al punto in cui bere innumerevoli shot di Vodka, all’interno di un certo milieu, è considerato perfettamente normale anziché un probabile segno di alcolismo, quanto quello che accade nei bevitori abituali prima, durante e dopo l’assunzione di innumerevoli shot di Vodka come se fosse un’abitudine come un’altra.

La mondanità alcolica tardo-pomeridiana dei professionisti creativi ha una sua ritualità riempita da parole come “aperitivo”, “happy hour”, “vernissage”, “evento”, “presentazione”. Tutte occasioni, più o meno mascherate, per cominciare a bere il prima possibile, appena lasciata la scrivania del proprio impiego, praticamente ogni giorno. Generalmente questa prima finestra si caratterizza per l’assunzione di alcolici deboli – vini leggeri, cocktail a bassa gradazione e birra – che garantiscono un iniziale, piacevole e rilassante stordimento, una leggera ebrezza che ristora l’animo dallo stress della giornata lavorativa. «Il primo drink è il momento migliore di tutta la serata», mi ha detto una volta un’amica giornalista con cui discutiamo spesso, non senza un certo disagio, del tema. Poi ha continuato: «Bisognerebbe riuscire a fermarsi lì, dire basta e andarsene a casa o al cinema o in qualunque posto dove non ci sia dell’alcol a portata di mano». In realtà questo non accade quasi mai. Come un esploratore mandato in avanscoperta, il principale scopo del primo bicchiere infatti è quello di aprire il varco per i successivi e così, quando la coscienza presenta la fatidica domanda: «ne prendo un altro?» è semplice risponderle, «un altro e poi basta. Un altro e vado a casa. Alla fine ne avrò bevuti solo due e che sarà mai?».

È il ragionamento che prima o poi fanno tutti ed è anche il primo e principale trabocchetto di qualunque serata, un auto-inganno per cui si giudica un azione su due piedi procrastinando qualunque valutazione delle sue conseguenze. Inutile dire che, nel trabocchetto ci si cade quasi sempre, nonostante si sia perfettamente consapevoli che terminato il secondo drink sarà ancora più difficile rinunciare al terzo. Ci sarà sempre qualcuno, più avanti di noi nel computo alcolico, che dirà «dai sono solo le 8, beviamone un altro e poi tutti a casa» e dopo due drink i nostri centri dell’autocontrollo saranno già abbastanza allentati da cedere inesorabilmente all’offerta e così, prima ancora di aver cenato, ci si ritrova in un limbo in cui è troppo tardi e troppo presto per qualunque cosa e alla leggera ebrezza del primo drink è subentrata una tristezza velata di ineluttabilità e assuefazione e quando arriva immancabile la proposta di proseguire la serata, il pensiero di tornare a casa ad affrontare la solitudine sarà così insopportabile che qualunque offerta ci sembrerà migliore. E quindi si va a cena. E là ci sarà del vino o dell’altra birra, a seconda dell’alcolico con cui si è cominciata la serata e poi ci sarà un digestivo e poi un altro locale, dei cocktail più pesanti e quindi degli shot, e i nomi dei rituali non saranno più “aperitivo”, “happy hour” ma “serata”, “club”, “lista”, “after” e i discorsi si faranno prima sovraeccitati e poi via, via sempre più anchilosati, i rapporti professionali si confonderanno con quelli umani, si diranno cose sempre più stupide e inopportune alle persone sbagliate, cose di cui ci si dimenticherà il giorno seguente, si causerà qualche incidente diplomatico, si respirerà un’atmosfera sempre più artificiale e artefatta, finché non si barcollerà in qualche modo fino al proprio letto. «E il mattino dopo desideri essere morto» (John Cheever, I Diari).

Il mutamento del carattere dovuto all’assunzione di alcol in quantità ingenti per lungo periodo può essere permanente e considerevole o transitorio e residuale ma è certo che avviene sempre

Qualche tempo fa un mio amico di Berlino, photoeditor di una rivista indipendente, uno dei bevitori più forti che abbia mai conosciuto, mi ha comunicato la sua decisione di provare a smettere, almeno per un po’, di bere. Un po’ sorpreso, dato che con tutta l’introversione del suo carattere tedesco non aveva mai lasciato trasparire nessun tipo di problema con il vizio, gli ho chiesto cosa lo aveva spinto a quella risoluzione proprio in quel momento. La sua risposta è stata: «Il giorno dopo, quando mi sveglio, il mal di testa ormai è l’ultimo dei miei problemi, il vero problema è che sono così depresso che un paio di volte ho pensato in modo molto concreto di suicidarmi». È risaputo che uno dei principali effetti psico-fisici a lungo termine dell’assunzione continuativa di alcol è una potente alterazione dell’umore anche da sobri, in direzione soprattutto di apatia/depressione e irascibilità/euforia o un mix ciclotimico di queste cose a seconda dei soggetti. Il mutamento del carattere dovuto all’assunzione di alcol in quantità ingenti per lungo periodo può essere permanente e considerevole o transitorio e residuale ma è certo che avviene sempre, e anche dopo molti anni di completa sobrietà, è pressoché impossibile risalire alla personalità di un individuo che ha avuto una elevata confidenza con l’alcol al netto degli influssi di quest’ultimo.

Il mio amico tedesco era pienamente consapevole che senza un periodo più o meno lungo di astinenza correva il rischio di incorrere in un problema di depressione serio e che c’era ben poco da scherzare. L’ho incontrato alcuni giorni dopo che mi aveva comunicato la sua decisione a una specie di cena/festa sul tetto della casa di un’amica comune. Quasi tutti gli invitati erano artisti, fotografi e scrittori sulla trentina di varie nazionalità e redditi personali incerti – i famosi, cosidetti “creativi” di cui sopra – e lui non stava bevendo. A un certo punto qualcuno se ne è accorto e per cinque minuti abbondanti quasi tutti i presenti, a eccezione del sottoscritto e di un altro paio di persone, hanno inscenato un teatrino allo scopo sostanzialmente di mettergli pressione per deviarlo dalla sua nuova condotta che, a seconda di alcuni, non era abbastanza di “compagnia” e lo collocava da qualche parte al di fuori del “gruppo” sociale dei bevitori di quella serata. È il meccanismo che gli americani conoscono come peer pressure di cui parla anche Kendrick Lamar in un pezzo di Good Kid, M.A.A.D. City, uno degli album rap più maturi e meglio scritti del decennio in cui il tema dell’alcol è centrale nell’auto-narrazione che conduce il suo giovane autore che, tra l’altro, qualche tempo fa ha comunicato la sua decisione di smettere di bere in netta contro-tendenza con gli stilemi del suo genere.

Stupendomi nuovamente, sempre considerata la proverbiale riservatezza germanica, il mio amico ha spiegato ad alcuni presenti, con ironia certo ma senza nemmeno lesinare troppo sui dettagli, le ragioni della sua scelta – la depressione, i pensieri di suicidio etc – sperando probabilmente di trovare comprensione e supporto, se non della vera e propria empatia, rispetto al suo problema e a quella serie di reazioni emotive così difficili da gestire ma tutto quello che ha ottenuto è stato un aumento del volume dello scherno finché finalmente, come accade sempre in queste situazioni, il “gruppo” non ha trovato qualcosa di più interessante a cui dedicare la propria attenzione di “gruppo” e lui ha potuto proseguire a bere acqua per il resto della serata senza più i riflettori puntati adosso. Più tardi quella sera mi si è avvicinato e mi ha detto: «E pensare che alcuni di questi tizi in teoria sarebbero i miei migliori amici».

«Dopo quella sera ho resistito, credo, altri tre giorni. Restare sobri in un mondo di sbronzi è mostruoso, anzi è impossibile»

Un venerdì sera di due settimane dopo l’ho incontrato al barbeque organizzato in un parco di Kreuzberg da un’altra comune conoscenza, uno svedese in cerca di fortuna nel mondo dell’arte berlinese che aveva radunato un po’ di amici per celebrare la festa dell’Estate, che coincide col solstitizio del 21 giugno e che sostanzialmente consiste nel cantare tutti insieme delle canzoni svedesi che parlano di quanto sia spassoso bere; al termine delle quali si deve buttare giù uno shot di una specie di Vodka aromatizzata locale (le canzoni, ovviamente, sono moltissime e chiaramente solo un pretesto). Il mio amico neo-astemio è arrivato con tre six pack (le confezioni da sei di birra) di Pilsner Urquel da 50 cl., una delle quali aperta nelle sue mani e già oltre la metà. Alle 3 di mattina eravamo di fronte a un bar e questa volta quello che aveva preso la decisione di smettere di bere per un po’ – per calarsi nei panni dell’antropologo della sbronza – ero io in un embed in teoria propedeutico alla stesura di questo pezzo ma in pratica quasi del tutto inutile. Lui si stava scolando l’ennesima birra e a un certo punto gli ho chiesto che fine aveva fatto la sua decisione: «Dopo quella sera ho resistito, credo, altri tre giorni. Restare sobri in un mondo di sbronzi è mostruoso, anzi è impossibile». Gli ho domandato se a volte si sentiva ancora depresso il giorno dopo: «A volte sì. Il fatto è che se non bevo sono depresso la sera prima». Mezz’ora più tardi mi stava urlando “ti voglio bene” (in un italiano impastato di etanolo e tedesco) in un orecchio.

Questo articolo, come si nota, non ha una morale.

 

Dal numero 15 di Studio

Illustrazione di Sarah Mazzetti