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Storia di un ponte rinato

Intervista a Carlo Piano che in un romanzo ha raccontato le vicende umane intorno al cantiere che ha riportato in piedi il ponte crollato il 14 agosto del 2018 a Genova.

di Enrico Ratto

Il nuovo ponte San Giorgio (Photo by ANDREAS SOLARO / AFP) (Photo by ANDREAS SOLARO/AFP via Getty Images)

Tre anni dopo il crollo sappiamo tutto sui numeri, sui dati, sulla tecnologia impiegata a Genova per demolire il vecchio Ponte Morandi e ricostruire il nuovo Ponte San Giorgio. È quindi un buon momento per iniziare a far parlare le persone, e Carlo Piano lo ha fatto con il libro Il cantiere di Berto (Edizioni E/O), protagonista un geometra – mezza età, scapolo, nato e cresciuto a due passi dal ponte, pochi amici dai tempi della scuola, qualche rimpianto ma sempre curioso del mondo, come un vero uomo di cantiere – che in questa ricostruzione vede il riscatto di una vita. È lui uno dei mille operai che, in un anno e mezzo, «senza fretta, ma con rapidità», come ha detto il padre di Carlo, Renzo Piano, doveva riparare a un lutto e ricucire una città nel modo più sicuro possibile.

Immagino che durante la tua vita tu abbia visto molti cantieri, sei cresciuto tra i cantieri. Credi che dovremmo farlo tutti, che siano formativi?
Beh sì, ho bazzicato tanti cantieri. I cantieri sono magici, perché il miracolo è che alla sera c’è un mucchio di sabbia ed il giorno dopo c’è un pilastro. Il cantiere è anche un posto dove si celebra un rito collettivo, dove si fa qualcosa assieme. È un luogo di solidarietà, dove si stemperano le differenze. Il linguaggio del cantiere è un linguaggio comune, un misto tra il genovese, il napoletano, il siciliano, l’arabo, spesso ci si capisce a gesti nel cantiere. È un luogo di pace. Il cantiere del ponte di Genova ha visto impegnate oltre mille persone, venivano da ogni angolo del mondo. I saldatori erano tutti indiani, per esempio. Ma anche la colonna sonora stessa del cantiere, fatta di tutte queste imprecazioni, rispecchia una multi-etnicità. Il cantiere è dove si costruisce, l’esatto contrario del distruggere.

Parlami di come è stato costruito il libro, raccontami il cantiere di questo tuo romanzo.
Andavo spesso a Coronata, la collina che si affaccia proprio sull’area del ponte, per vedere come procedevano i lavori. Ed ogni volta che ci andavo vedevo sempre più persone che passavano lì i pomeriggi, con binocoli sempre più lunghi, per guardare il cantiere. Erano i classici pensionati, erano davvero tanti. Allora mi sono chiesto: ma come può succedere? La risposta più ovvia è che un pensionato non ha niente da fare, ma ho pensato che ci dovesse essere qualcosa di più profondo. Ho pensato che il cantiere ha dentro qualcosa di ottimistico, guarda al futuro, spinge la speranza. A maggior ragione, nel caso del ponte di Genova, il cantiere riparava un lutto che ha colpito tutta la città. Nel costruire c’è una magia, questa è stata la scintilla che mi ha mosso. Oltre al fatto che, come per tutti i genovesi, è stato il modo personale per elaborare un lutto.

In questi tre anni abbiamo letto numeri, cifre, indagini, assetti societari, nomi degli indagati. Tu sei partito dalla storia di una persona qualunque, volevi umanizzare questa opera?
Ci ho provato. Dietro questo ponte ci sono numeri impressionanti, l’acciaio utilizzato è tre volte e mezzo quello utilizzato per la Tour Eiffel. Con il calcestruzzo si potrebbe costruire un Empire State Building e mezzo. Ma dietro questi numeri c’è stato l’intreccio di mille vite. C’erano le persone che arrivano la mattina con la focaccia. C’era il demolitore bergamasco che salutava gli altri dicendo «mai mollare!».

Infatti, nel libro ricorrono spesso le frasi «ce la faremo», “mai mollare». Sono ovvie se a pronunciarle sono le istituzioni, o i progettisti. Meno ovvio è che anche tra gli operai il coinvolgimento fosse questo.
Lo definirei un orgoglio che accomunava tutti, altrimenti non sarebbe stata possibile questa impresa. Ti trovi sotto la pila nove, parli con gli operai, uno di loro indica col dito un particolare e ti dice “quello l’ho fatto io”. C’era questo orgoglio di partecipare a qualcosa per il bene comune. Trovo interessante il discorso che ha fatto mio padre durante l’inaugurazione, ha detto “noi progettisti, noi ingegneri, noi architetti, al sicuro delle nostre scrivanie abbiamo disegnato il ponte. Però tradurlo in realtà spetta a voi. E state attenti, state attenti a non farvi male”. Credo che uno dei motivi di orgoglio del cantiere sia che non ci siano state vittime durante i lavori. L’attenzione era sui tempi, sulla rapidità, ma quando mio padre parla alle persone del cantiere dice che l’unica cosa che conta era che non si facessero male. Una corsa contro il tempo senza cadere nella trappola della fretta. Se per fare una pila ci voleva un mese, non si poteva fare in venti giorni.

Lo definisci un “ponte che non se la tira”, mentre tre anni fa alcuni immaginavano un progetto ancora più spettacolare del Ponte Morandi. Perché è stato scelto un ponte sobrio?
Il Ponte Morandi rispecchiava il suo periodo, il boom economico, la motorizzazione degli italiani, la voglia di avvenire, la prateria che avevamo davanti e che sembrava non finire mai. Un’opera straordinaria. Questo nuovo ponte rispecchia i nostri tempi, più sobri, più sostenibili. L’acqua piovana viene riutilizzata per lavare i pannelli frangivento, la luce del sole viene catturata durante il giorno per alimentare i lampioni durante la notte. È un ponte che non si impone sul territorio, che attraversa la valle passo dopo passo.

Nel libro non ti occupi delle grandi questioni economiche, piuttosto scegli di raccontare il particolare, per esempio la vita del quartiere di Certosa, dove il crollo del ponte ha portato alla chiusura di piccoli supermercati, di alimentari, di trattorie.
È un quartiere a cui sono molto legato, che economicamente ha sofferto tantissimo. Parlavo con i militi della Croce Verde di Certosa e mi dicevano che, prima del crollo, per andare all’ospedale più vicino impiegavano un quarto d’ora, durante il cantiere impiegavano quaranta minuti. Pensa a quanto disagio, in un periodo in cui è esplosa la pandemia. Inoltre sono legato a questo quartiere perché ci era nato mio nonno, Carlo, si chiamava come me. Mio padre da bambino mi portava a vedere i luoghi del nonno. Non è una periferia, è un borgo, li chiamano quartieri ma Genova è fatta di tanti piccoli paesi che circondano la città, ognuno ha una storia molto forte.

Due anni fa hai scritto il libro Atlantide, insieme a tuo padre avete attraversato il mondo su una nave alla ricerca della città perfetta. In questo libro ha voluto raccontare la ricerca del cantiere perfetto?
Non ci avevo pensato. Ma certo, è un cantiere che ha cercato di avvicinarsi alla perfezione. Di sicuro, c’è stata una ricerca della bellezza, intesa nel senso greco, non vacua, non cosmetica, ma nella quale la bontà si unisce alla funzione. Un ponte lo puoi fare in tanti modi, ma resta un oggetto bello in se stesso. È il mestiere stesso del ponte ad essere bello, al contrario del mestiere di un muro.