Attualità | Cronaca

Vittime e colpevoli sui social network

L'omicidio di Willy Monteiro Duarte a Colleferro dimostra ancora una volta quanto può essere problematico usare i social come fonte del racconto.

di Ferdinando Cotugno

Willy Monteiro Duarte

Tutto quello che pubblicheremo potrà essere usato contro di noi. L’omicidio di Willy Monteiro Duarte a Colleferro ci ha mostrato ancora una volta come i social network siano diventati una scena del crimine allargata, che tutti si sentono autorizzati a setacciare in cerca di qualcosa. Per primi arrivano i giornalisti – lunedì mattina le foto più sociologicamente interpretabili degli aggressori erano sulle prime pagine di tutti i quotidiani – poi tutti gli altri. Non serve più mediazione, basta una barra di ricerca. Per tutti i recenti casi di cronaca, ogni post, like e immagine può essere una prova, un’attenuante, un’aggravante, una spiegazione. Nella giornata di martedì ho passato diversi minuti a guardare il video di uno stand up comedian che doppia delle scenette da situation comedy con scimmie come protagoniste. È l’ultimo contenuto postato da Gabriele Bianchi prima di essere arrestato e dopo aver partecipato all’omicidio di Monteiro Duarte. Niente che avessimo bisogno di vedere, soprattutto in questo contesto. Eppure era sulla homepage di Repubblica.

La cronaca nera esiste nei dettagli, ha una fame vorace di piccole cose, perché sono quelle che rendono una storia diversa dall’altra, è giornalismo, ma anche intrattenimento, tirare in lungo, massimizzare un investimento di tempo e attenzione. Certo, c’è il legittimo bisogno dei lettori di comprendere perché un pacifico ragazzo di ventuno anni viene ammazzato di botte fuori da un locale, se c’è una lettura politica, se c’entrano il sottobosco fascista e il mai sufficientemente affrontato problema dell’Italia con il razzismo, oppure il controllo micro-criminale del territorio, se era violenza fine a se stessa, quanto quelli agissero da squadristi, da picchiatori, da bulli. Ci vuole tempo, però, per arrivarci, il lavoro dei cronisti sul campo e quello degli inquirenti può durare mesi, anni, come ci ha insegnato l’omicidio di Emanuele Morganti nella vicina Alatri. E nel frattempo quello che ci rimane sono i profili Facebook. C’è stata la celebrazione della vita di Monteiro Duarte, gli studi, i sogni, il lavoro, il tifo per la Roma. E, dall’altra parte, le sopracciglia ad ali di gabbiano, l’MMA, le assonanze estetiche con i tronisti, i tatuaggi, gli allenamenti, l’estetica della violenza, ogni post un presagio. Nel Web anglosassone gli utenti hanno un approccio più produttivista, è quella cosa chiamata “websleuthing”, le comunità che (soprattutto su Reddit) incrociano le informazioni digitali disponibili per provare a risolvere i casi aperti. Da noi invece la destinazione d’uso di quel materiale è sociologica, ogni foto una verità sul Paese, un suggerimento per migliorarlo, l’analisi a distanza di un territorio.

I nostri profili Facebook, Instagram, Twitter sono sempre sceneggiature pronte da usare, qualora dovesse succederci o dovessimo commettere qualcosa di rilevante. Ho paura di volare e, prima di salire su un aereo, c’è sempre un momento in cui penso all’ultimo tweet, all’ultima foto che ho pubblicato, a come saranno usati nella gallery sulle vittime, quale saranno il titolo e la sintesi scelti per celebrare il momento in cui la mia vita è diventata pubblica. È un dibattito che non si fa mai abbastanza spesso, ci provò Anna Masera, da public editor della Stampa, quando diversi lettori chiesero a che titolo il giornale avesse usato le foto Facebook e Instagram delle vittime dopo il crollo del ponte Morandi. «Nell’era dei social media, nell’esercitare il diritto di cronaca è comprensibile che i giornalisti si affidino alla ricerca delle immagini online anziché andare a bussare alla porta dei famigliari delle vittime», rispose Masera, «Ma proprio perché è diventato più facile reperire questi dati personali, serve maggiore attenzione all’essenzialità di quelle informazioni per non urtare la sensibilità del pubblico. E chiedere il permesso è sempre meglio».

In inglese, al saccheggiare le vite virtuali d’interesse pubblico hanno dato un nome procedurale e rassicurante: “virtual doorstepping”. Il problema è che quasi nessuno pensa a chiudere la soglia delle proprie vite digitali a chiave, sono fatte per essere permeabili, perché tanto a chi può interessare? Che può succedere? Nei caotici giorni di Colleferro si è discusso molto dell’ “intervista” fatta via Facebook Messenger e pubblicata dal Corriere della Sera a Federico, l’amico per il quale il quale Willy sarebbe stato assassinato. Glenda Cooper, ricercatrice in giornalismo alla City University di Londra, ha pubblicato un saggio su questo argomento, parlando con decine di persone che si sono trovate coinvolte in eventi traumatici, e riporta storie di giornalisti che non solo avevano chiesto l’amicizia a loro, ma anche a tutti i loro contatti, ai loro capi, che avevano provato a entrare negli account, alla ricerca di un frammento di colore da aggiungere alla loro storia.

Un tentativo per trovare una via per distinguere quello che è d’interesse pubblico e utile alla comprensione degli eventi da quello che non lo è, lo aveva fatto Mario Tedeschini Lalli, giornalista, lavorando con l’Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino a delle linee guida per l’uso dei social media. «L’uso di fotografie e materiali tratti da profili sui social media di protagonisti di fatti di cronaca, in particolare di vittime o di sospetti in eventi di cronaca nera, può avvenire solo in casi assolutamente eccezionali. Il giornalista avrà cura di farlo con grande parsimonia e con il massimo rispetto delle persone coinvolte». Sarebbero linee guida prudenti, niente di rivoluzionario, eppure già così sono lontanissime da quello che si fa e si legge a ogni caso di cronaca. E intanto quello che emerge dai profili social coinvolti diventa radioattivo. Il processo, anche in un caso che sembra così evidente, sarà complesso, e bene hanno fatto Mattia Feltri e Luca Bizzarri a ricordare che il nostro sistema è garantista. Lo è sicuramente più della conversazione digitale: in questi giorni ogni elemento social spesso non è solo una prova di colpevolezza dei quattro arrestati ma anche dell’elemento stesso.

Il tempo per le redazioni di processare l’esistenza dell’MMA che già Massimo Giannini, direttore della Stampa, aveva chiesto di «bandire certe discipline “marziali” e relative palestre». Si è dovuto dissociare perfino Davide Marini, il comico del video con le scimmie pubblicato da Gabriele Bianchi, che si è trovato senza sapere come dentro una scena del crimine attiva. «Non pensavo di dover mai scrivere un post del genere, ma a quanto pare la situazione l’ha reso necessario», esordisce, «Trovo assurdo il fatto che venga più volte menzionato un particolare così irrilevante in una vicenda in cui purtroppo è successo qualcosa di molto, molto grave». Quando pubblichiamo sui social non ci poniamo mai il problema della rilevanza, la domanda è: chi si troverà mai a raccontarli, i nostri profili, dovrebbe?