Attualità

La musica classica che ascoltano i Millennial

È minimalista, la sua patria è Berlino e la sua musa la natura, ma non ha ancora un nome definito.

di Edoardo Vitale

Nel 2017 ho ascoltato più di 150mila minuti di musica, circa sette ore al giorno. Credevo fosse una cifra spropositata, ma in realtà rientra perfettamente nelle statistiche della generazione Millennial di cui faccio parte, che ascolta molta più musica della generazione precedente, con una media di 40 ore settimanali, nella stragrande maggioranza dei casi riprodotta in streaming. Quello che non mi aspettavo saltasse fuori dal consueto riepilogo di fine anno di Spotify, è che la mia top five fosse dominata da un genere musicale che non ha ancora un nome definito, tanto che sul New York Times ci si chiedeva se fosse musica classica o musica pop.

In teoria, un nome ci sarebbe: «Quasi quindici anni fa insieme a Dustin O’Halloran – che veniva dal mondo dell’indie-rock (Devics nda) – fece questo disco intitolato “Piano solos”, e che era appunto fatto tutto al pianoforte. Sofia Coppola ha inserito tre pezzi nella colonna sonora di Maria Antonietta e in qualche modo è arrivato a k.d. lang che ha portato Dustin con sé in tour per tutta l’America. Da lì si è aperto un mondo fatto di candidature agli Oscar, Golden Globe e via discorrendo. A quel punto ci siamo dovuti chiedere: come la chiamiamo ‘sta roba? Come la inquadriamo? Ed è uscito fuori il termine “neoclassica” quasi per gioco» mi dice Carlo Garrè, A&R di 7k!, sublabel specializzata in un settore mai tanto in espansione come oggi, con playlist da decine di migliaia di follower e artisti giovanissimi alla ribalta. Tanto per citare solo l’ultimo esempio: Niklas Paschburg, 23 anni, il cui album “Oceanic” viene già considerato da NPR uno dei più belli usciti quest’anno.

Si tratta a tutti gli effetti di musica anzitutto minimalista, spesso e volentieri fatta solo di pianoforte classico, in alcuni casi accompagnato da archi, ma non è raro che all’interno di un intero disco compaiano elementi di elettronica, sintetizzatori, distorsioni e rumori, o che talvolta questi si equilibrino o prevalgano. È qui che ha inizio il caos. Considerando che googlando “musica neoclassica” bisogna scorrere prima una dozzina di pagine che rimandano al neoclassicismo di inizio Novecento di Igor Stravinsky, poi una piccola galassia di siti che portano il discorso sulla musica colta e contemporanea – intesa come classica nella sua forma più pura – e poi ancora altre pagine che dibattono su serialismo e dodecafonia di Arnold Schönberg, prima che venga minimamente menzionata la Berlino di metà Anni Zero, la Funkhaus o la Boiler Room – dove sostanzialmente prolifera la musica di cui invece stiamo parlando – è abbastanza chiaro che il termine “neoclassica” (o “post-classica”, “modern classical”) sia quantomeno troppo generico e forviante.

Così come risulta leggermente fuori fuoco parlare di musica d’avanguardia o sperimentale, il succitato minimalismo della New York anni Sessanta è sicuramente un riferimento presente sullo sfondo, ma per denotare una certa differenza basta ricordare che gli stessi compositori minimalisti – La Monte Young, Harold Budd o John Cage – consideravano la loro musica “impossibile da ascoltare”, mentre invece oggi Nils Frahm, uno dei principali esponenti di questa nuova scena, suonerà al Primavera Sound, tanto per intenderci. Insomma, quello che voglio arrivare a dire è che si può provare a parlare di “Millennial classical”, per inquadrare al meglio un contesto che ha a tutti gli effetti dei confini visibili e tracciabili, in termini spazio-temporali, di contenuti, di estetica e di costruzione identitaria. Come dire: è abbastanza probabile che al concerto di Hildur Gudnadottril possiate calpestare parecchie scarpe da trekking o ritrovarvi a discutere di botanica.

Come già detto, non è certo un mistero che Berlino sia la capitale di questo movimento, luogo di residenza dei già citati O’Halloran e Frahm, o di altri pionieri come Peter Broderick e Federico Albanese, milanese di nascita, nonché uno dei più rilevanti tra i non pochi musicisti italiani che sono parte attiva in questo mondo (Luca D’Alberto, Opus 3000): «in Italia non avevo avuto nessun tipo di riscontro positivo sulla musica che faccio, perciò mi sono spostato a Berlino qualche anno fa, ma non immaginavo che sarei rimasto qui. Ho avuto la fortuna di arrivarci nel momento in cui si stava creando questa scena e si stavano aprendo tante porte, qualcosa stava per partire e io come molti altri, siamo riusciti a trovare spazio» mi ha detto lo stesso Albanese, in uscita proprio in questi giorni con l’album “By the deep sea” per la Berlin Classical, una delle tante fucine di “Millennial classical”, assieme alla stessa 7k! e a quella che è probabilmente la più famosa etichetta del settore: la Erased Tapes Records, fondata dieci anni fa da Robert Raths a Londra e ben presto decentrata anch’essa a Berlino, divenuta un marchio di fabbrica e sinonimo di qualità con la stessa forza nobilitante che hanno avuto etichette come la Warp con l’elettronica tra i Novanta e inizio millennio o la Rough Trade con il post-punk, giusto per citare le più significative. Non è certo un caso che il decennale della Erased Tapes Records coincida quindi con quello di una presa di coscienza dell’esistenza di un minimo comune denominatore che ha portato a numerose collaborazioni tra gli artisti, alla formazione spontanea di una scena e di un pubblico in totale simbiosi con essa.

Dunque dieci anni fa, a Berlino, si annida una generazione di musicisti a tutti gli effetti Millennial, provenienti da tutto il mondo, soprattutto dall’Italia e dall’Islanda – non per niente è riconosciuto unanimemente che tra i precursori ci sono Ludovico Einaudi, Max Richter o il recentemente scomparso Jóhann Jóhannsson – che riporta al centro della scena il pianoforte classico «è stata espressione della necessità di un ritorno alle radici, all’essenza della musica» aggiunge Albanese, ed è significativo soprattutto che i luoghi e le modalità di fruizione siano del tutto nuovi e al di fuori dei canoni e dell’autorevolezza che generalmente pertengono a un certo tipo di musica classica. «Alla festa del decennale della Erased Tapes Records c’erano milleduecento persone dall’età media di 25 anni, che ascoltavano una violoncellista» mi dice Garrè, a conferma del fatto che anche il pubblico è principalmente composto da Millennial.

«Un tipo di immaginazione involontaria è legato all’esposizione intensa e ripetuta a un genere o a un brano musicale particolare» è il modo in cui Oliver Sacks spiegherebbe il motivo per cui il mio Spotify e quello di tanti miei coetanei sia monopolizzato da copertine piene di natura, piante, mare, montagne e da musica strumentale composta da nomi nordici come Ólafur Arnalds o Sophie Hutchings, nonostante attualmente io risieda a Tor Pignattara e sia lontano chilometri da quell’immaginario: è musica particolarmente rilassante, perfettamente adatta a contrastare quello che è considerato appunto uno dei mali principali dei Millennial: l’ansia. La ascoltiamo mentre stiamo lavorando al computer – anche mentre scrivo questo articolo – mentre tentiamo di neutralizzare gli eventi durante le varie fasi angoscianti della giornata, mentre facciamo yoga seguendo le istruzioni di una app, mentre passeggiamo in un parco, mentre leggiamo un kindle su un treno ad alta velocità. Personalmente da qualche tempo ho iniziato a prendermi delle piccole pause durante le quali mi collego con la diretta YouTube della Stazione spaziale e osservo il pianeta Terra dal di fuori per sentirmi insignificante, e sostituisco la francamente poco oculata selezione musicale della Nasa, con le armonie registrate da un tecnico del suono moscovita sconosciuto ai più e scoperto per caso durante le lunghe sedute di riproduzione casuale e che ora viene distribuito dalla Fat Cat Records, un’etichetta storicamente roccaforte di un certo indie britannico, con un passato tra house e techno e che ora manda fuori playlist come questa.

Cosa sta succedendo e che fine hanno fatto tutti quei bpm? «È sicuramente una musica che ha a che fare con il relax, una specie di corrispettivo della musica chillout degli anni Novanta, che andava bene in quel tipo di relazioni sociali “analogiche”, magari era musica che sentivi durante gli aperitivi. Oggi ci si interfaccia con un nuovo tipo di fruizione, spesso individualistica e con un interscambio digitale pieno di informazioni e di caos. Questa musica non ti dà informazioni ma solo sensazioni, che in questo momento è quello di cui abbiamo più bisogno, credo che anche questo sia nascosto dietro al suo grande successo» sostiene Garrè. Un altro motivo per cui ha senso parlare di “Millennial classical” è la densa anatomia di sensazioni naturalistiche e urbane che in essa convivono, il che la rende scevra da qualsivoglia accostamento new age o ambient, perché non ha nessuno slancio mistico. È in tutto e per tutto musica classica – fatta di composizione, timbro, misure, ritmo – la musica classica dei Millennial, di nicchia ma non appannaggio esclusivo di una certa classe intellettuale, adatta a un contesto storico e se vogliamo persino ideologico, nel quale una grande componente di questa generazione sente la necessità di trovare un lucore silenzioso in una specie di buio incombente, che equivale un po’ al riempire di piante un appartamento in qualche capitale inquinata, sporca e intossicata.

C’è un insito messaggio di elogio alla lentezza attorno al quale si è sviluppata una vera e propria musicoterapia involontaria contro lo stress e la corsa alla performance. Un esempio evidente: registrare un disco di Millennial classical è molto poco dispendioso in termini economici e di produzione, anche i video sono spesso montati dagli stessi musicisti e rappresentano una specie di tributo al DIY o quantomeno trasmettono un senso di amatoriale, un ritorno a concetti più semplici, basta avere una reflex, un po’ di buongusto, trovare una buona luce e mettersi a riprendere un albero, senza doversi inventare chissà che. Questa è anche una specie di protesta contro la perfezione, contro l’eccessiva esposizione agli input e contro la quantità di tempo nella quale ci viene richiesto di essere attivi e performativi nell’arco di una giornata. Per questo ha successo ora e non venti o trent’anni fa: «forse in questo momento abbiamo maggiore bisogno di dimenticarci del qui e dell’ora, come esseri umani abbiamo bisogno di più spazio e più silenzio per riflettere e capire meglio il tempo in cui viviamo. È una reazione naturale a un contesto storico e politico» mi dice Robert Raths dagli uffici londinesi della Erased Tapes Records, ed è difficile dargli torto.

 

Immagini: Niklas Paschburg, Beniamino Barrese, cover Dmitry Evgrafov e Opus 3000
In evidenza: Olafur Arnalds