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Il popolo bello di Magliano (e le altre cose interessanti di Pitti)

Magliano torna a Firenze dopo cinque anni con un progetto maturo, che rappresenta un modo nuovo di intendere la moda in Italia. Qualcosa che si è intravisto anche altrove.

di Silvia Schirinzi

Nella nota ufficiale, la scala dello stadio di Firenze che ha ospitato la sfilata di Magliano a Pitti è descritta come «una occasione rubata di glamour». È anche un omaggio al cinema di Andrej Tarkovskij (e in particolare a Nostalghia, del 1983) ma, soprattutto, è un modo per esemplificare con un grande effetto visivo la poetica di Magliano sin dal suo debutto, avvenuto proprio a Firenze cinque anni fa. Lo scorso giugno Magliano ha vinto il Karl Lagerfeld Prize al concorso per nuovi designer organizzato da LVMH ed è definitivamente entrato nei radar di tutti, anche di quelli che fino a quel momento non avevano prestato attenzione. Come ci aveva raccontato Luca Magliano in un’intervista la scorsa primavera, la ricerca fatta dal gruppo di lavoro che dà vita al progetto collettivo di Magliano vuole portare alla luce «una quintessenza italiana» che non pretende di esaurire l’identità italiana (se pure questa esistesse) quanto invece di raccoglierne le sue parti più trascurate, lontane, periferiche, e portarle al centro della scena. O della scala, dalla quale scendevano i volti e i corpi con cui Magliano si identifica.

Grazie a delle collaborazioni intelligenti, come quelle con Kiton e Borsalino, la collezione era particolarmente solida ed è sembrata un punto di incontro felice tra la nostra migliore tradizione sartoriale e la visione creativa di un marchio che sull’eleganza italiana ha molto da dire. Il popolo di Magliano, che da quella scala scende a passo lento, attraversa le file di sedie e sempre a passo lento risale dando le spalle al pubblico, quasi nascondendosi ma di fatto prendendosi un palcoscenico a cui normalmente non ha accesso, è una metafora di un modo di intendere quel “vestirsi bene” per cui il nostro Paese ha conquistato il suo posto nel mondo. Non è però più un vestirsi borghese, non racconta di affabili arrampicatori sociali o ambiziosi sciupafemmine, al contrario parla degli ultimi, degli onesti forse, di giacche fluide e maglioni sbagliati, di cappelli ribaltati giocosamente, stringate con le borchie e ciabatte pesanti, ma morbidose e ricamate. L’elemento femminile, si infiltra nelle uniformi, nei completi da sera, nei gilet e nella maglieria e ne confonde le silhouette, le alleggerisce o le infagotta, nasconde eppure scopre, introduce una sensualità che non è mai aggressiva, forzata, stereotipica, ma insinuata, dolce, sfuggente, aperta e attraversabile. È questa la bellezza di Magliano, un’esaltazione della fragilità che non sa mai di piagnisteo Millennial ma di rivendicazione concreta, della propria storia, identità e classe sociale, e di pezzi giganti della cultura italiana come Fabrizio De André, che da Magliano sanno dosare con la giusta dose di poesia e autoironia.

In apertura e nella foto: Magliano Fall Winter 2024-2025. Photo courtesy of Magliano

Ha scritto Samuel Hine nella sua ultima newsletter per Gq Us, che è difficile, soprattutto per uno straniero, capire cosa sia successo a un certo punto alla moda italiana e perché, dopo quelle stagioni splendide a cavallo tra i primi Ottanta e gli anni Novanta, sia stata sistematicamente incapace di permettere l’ascesa di nuovi nomi. C’è il fatto che il sistema è cambiato, e tanto, e c’è il fatto che il nostro è un Paese dove la crescita è ferma da decenni, soprattutto per chi ha meno di quarant’anni, come nel caso di Luca Magliano e del team che lo accompagna. Passeggiando per un Pitti affollato (+4 per cento di presenze di compratori, segnalano le prime stime ufficiali), viene da chiedersi allora cos’ha da offrire l’Italia oggi in fatto di moda, e di moda maschile nello specifico, visto che la differenza negli ultimi anni, dopo gli esperimenti co-ed, è tornata a essere rimarcata. Spulciando tra gli stand, i progetti interessanti non sono mancati, come quello nato dalla collaborazione tra Vitelli (avevamo intervistato Mauro Simionato qui in occasione di Studio in Triennale – Fuori orario) e Consinee Group, il gruppo cinese leader nel mercato dei filati pregiati da filiera certificata e sostenibile. “Cashmere Trail”, è una capsule di dieci capi in cashmere, in puro stile Vitelli che per la prima volta lavora con questo materiale pregiato, realizzata interamente con filo di recupero selezionato tra le rimanenze stagionali dello stock Consinee, ma è anche un percorso visivo, grazie alle immagini di Patrick Bienert, fotografo tedesco noto per i suoi lavori su identità giovanili e territori in trasformazione, e alla video-installazione che racconta il viaggio alla scoperta del cashmere che attraversa tutte le fasi della supply chain. È un modo di raccontare la filiera e disegnare nuovi internazionalismi, se così possiamo chiamarli, un approccio fresco al mercato globale che tiene conto delle specificità locali ed esalta differenze e affinità, in un momento storico in cui siamo invasi da proposte di ogni tipo, perlopiù dimenticabili. Il lavoro fatto da Vitelli sull’artigianato, l’insistenza con cui si vuole legare quella tradizione del made in Italy al lavoro dell’ufficio stile, unendo invece di separare, è uno degli esperimenti più interessanti del nuovo panorama della moda italiana. Come per Magliano, c’è il tentativo di scrivere nuovi capitoli in una storia raccontata mille volte, strappandole via l’aura da parabola intoccabile e ridandole invece vita, nuovi significati e interpretazioni.

Da segnalare anche la mostra organizzata dal Polimoda presso la Manifattura Tabacchi. An/Archive – Event One è infatti un’anteprima del futuro centro di ricerca dedicato agli studi di moda. Fino al 21 gennaio, Event One si sviluppa come un’esperienza multidisciplinare incentrata sul tema principale del corpo umano e il suo rapporto con la moda. I capi in esposizione, che abbracciano il lavoro di Margiela, Krizia, Romeo Gigli, Issey Miyake e Comme des Garçons tra gli altri, dialogano con le opere di William Forsythe, Minna Palmqvist e Sissel Tolaas. La mostra si arricchisce di un programma di incontri aperti al pubblico e va ad ampliare quell’offerta culturale che sempre dovrebbe accompagnare le sfilate: un qualcosa che in Italia fatichiamo a comprendere, a mettere in atto, perché la moda non a tutti pare cultura, invece lo è, dovremmo ricordarcene più spesso se non vogliamo rimanere quelli delle stagioni splendide, che non hanno saputo evolversi e farsi domande sul futuro.