Cultura | Dal numero

Magliano e la bellezza di essere visti

Conversazione con Luca Magliano su cosa significa oggi costruire un marchio e sostenerlo, superare i vecchi confini del sistema moda e trovarne di nuovi, più adatti a raccontare il nostro tempo.

di Silvia Schirinzi

Intervisto Luca Magliano su Zoom mentre lui è in macchina, a pochi giorni dalla prima devastante alluvione che ha colpito l’Emilia Romagna lo scorso maggio. Sta guidando, ma mi assicura che può parlare, e sta tornando a Bologna, città dove vive e lavora al marchio che porta il suo cognome, un progetto che è iniziato nel 2016 e che quest’anno è arrivato in finale di LVMH Prize («È bellissimo essere visti», ha detto, salendo sul palco per ritirare il Karl Lagerfeld Prize). Come tutte le volte che abbiamo avuto occasione di parlarci (Luchino è stato anche ospite dell’edizione di Studio in Triennale nel novembre 2022), ci tiene a farmi sapere che le interviste le soffre sempre un po’, perché è una persona riservata e perché, come spiega lui stesso più avanti, il lavoro che c’è dietro a Magliano non è solo il suo. Se si ha avuto l’occasione di assistere a una sfilata di Magliano è facile ritrovare, nelle parole del suo fondatore, quel racconto umano che oggi rende questo brand uno dei più interessanti del panorama della nostra moda, innanzitutto per la chiarezza di pensiero che lo caratterizza. La sua storia italiana, la storia italiana di Magliano, è il frutto di una ricerca che lavora sui fondamenti del guardaroba e li mescola a una specifica attitudine che è legata alla scena artistica e culturale bolognese, a un certo modo di vivere la comunità queer e alle feste in una discoteca di provincia irrimediabilmente italiana, provincia che nelle mani di Magliano si evolve dall’essere un non-luogo per incarnarsi in persone vere. Abbiamo parlato di quel senso di identità e di come lo si esprime oggi, ma anche dei suoi colleghi e del ruolo del designer «in un sistema vecchio per un mondo nuovo», una di quelle definizioni lucide che ti ricorda come parlare con Luchino è sempre un’occasione, e una fortuna.

Ciao Luca, come stai? Come vanno le cose a Bologna dopo le alluvioni di questi giorni?
Io sto bene, grazie, ma qui la situazione è stranissima. Ho un magone da tre giorni che non te lo riesco a spiegare. A Bologna ho visto delle scene molto brutte, le cantine si sono tutte allagate, ma nel territorio intorno la situazione è pessima. Noi lavoriamo a Faenza e stamattina sono riuscito a incontrare le mie colleghe per la prima volta e vedere le loro facce… mi ha scosso. Sono rimasto in azienda per neanche un’ora perché poi è stata diramata un’altra allerta meteo e siamo di nuovo tutti scappati a casa. Sai, se parli con gli anziani del posto ti raccontano che una cosa del genere non è mai successa, almeno non con questa intensità, e questo secondo me è un segnale preoccupante, eventi di questa portata sono una novità assoluta.

So che questo per te è stato e continua a essere un periodo intenso, tra la preparazione della nuova collezione, il consolidamento del tuo marchio e la finale di LVMH Prize. Come hai vissuto questi ultimi mesi? Hai avuto occasione di fare un bilancio di tutto quello che è successo?
Guarda, di fatto mi sento ancora nel mezzo di tante cose. Ti faccio questa confidenza, in realtà ho questo grandissimo desiderio di fermarmi e iniziare a capire esattamente che cosa è successo e sta succedendo. Questi cinque anni sono stati anni di accelerazione e nell’ultimo anno l’accelerazione è aumentata in maniera esponenziale. È una cosa che ovviamente mi riempie di gioia ma ci sono ancora tante cose che devo capire. Io ho i miei, personalissimi, meccanismi che metto in atto per sopravvivere, cerco di preservare il mio spazio centrale il più possibile, poi capita di sbagliare eh, come quando finisco per chiudermi, però quello che posso dire è che sto imparando a gestire questo ruolo.

«Sono tante le cose che ho dovuto accettare, e comprendere, in questo percorso: che sono un designer ma anche un imprenditore e che Magliano era un’idea di business ma anche, e soprattutto, un’idea»

Come ti anticipavo, questo numero è dedicato al confine, inteso in senso molto largo, come confine fisico, geopolitico, di classe, naturale. Ti è mai capitato di pensare a quali sono i confini che attraversi con il tuo lavoro?
Di sicuro la prima cosa che mi viene in mente se penso al concetto di confine è quella del limite, ovvero quel momento, quel punto, in cui una cosa che era possibile diventa impossibile. Nella mia esperienza con Magliano, ho imparato a spostare quel limite sempre un po’ più in là. Tutto questo è iniziato con un atto di volontà, perché volevo fare delle cose per dimostrane altre, e poi quando ho visto quell’accelerazione di cui ti parlavo prima, fatta di tanti piccoli e grandi segnali positivi, ho capito che non dovevo smettere. Anche perché non ho iniziato con un business plan, ho capito man mano che questa cosa poteva diventare il mio mestiere, anche se ho sempre saputo di essere un designer. Sono tante le cose che ho dovuto accettare, e comprendere, in questo percorso: che sono un designer ma anche un imprenditore e che Magliano era un’idea di business ma anche, e soprattutto, un’idea. Un’idea di stile, anzi, all’interno della quale si mescolano tante cose diverse fra loro ed è lì che si fa fatica a tenere in ordine i confini. Al centro di tutto c’è quell’idea ed è lì che bisogna rinforzare gli argini per evitare che una cosa “sbrodoli” nell’altra.

 Quando pensi alla tua professione, quali sono le grandi differenze che noti da quando hai iniziato – diciamo quindi dall’idea che ti ha spinto a voler fare questo lavoro – a oggi che sei a capo di un marchio?
Più ci penso, più vedo solo cose positive, davvero. La vita degli ultimi cinque anni è stata l’esperienza più formativa ed esplorativa che abbia mai vissuto. Non so se continuerà a essere così, io ci spero e sto facendo del mio meglio perché continui a essere così perché alla fine è diventata quasi una missione: salvaguardare questa esperienza al di là di tutto, non solo per me stesso ma anche per tutte le persone che lavorano con me. È una cosa che ho capito sin dal primissimo momento, in realtà: Magliano nasce così, da me e da tutte quelle persone che nel tempo, pian piano, si sono avvicinate a me (o alle quali io mi sono avvicinato) per lavorare insieme, persone che erano allergiche a un altro tipo di sistema e che per quanto fossero talentuose non riuscivano a trovare il loro spazio. Questa è l’energia che si è creata intorno al brand sin dall’inizio. E ti dirò di più, il fatto che io sia il solo “portavoce” è una cosa che in qualche modo mi preoccupa, perché sì, sicuramente, io sono quello che detta la linea rispetto ai valori di Magliano, ma Magliano è il frutto di un lavoro collettivo: io ne sono una parte ma nel brand c’è anche molto di più, per cui quando mi viene chiesto di partecipare o di rappresentare Magliano solo come “Luca” un po’ mi scoccia, perché io non sono il brand. Sì, ho il mio posto al suo interno e ci sono cose che nascono direttamente dal mio sentire, ma quello che mi piacerebbe imparare a fare meglio è far sì che Magliano possa parlare per sé stesso, anche perché molta della fatica che abbiamo fatto in questi anni è stata costruire i contenuti, dare una voce a questa identità che è Magliano.

«Magliano è il frutto di un lavoro collettivo: io ne sono una parte ma nel brand c’è anche molto di più, per cui quando mi viene chiesto di partecipare o di rappresentare Magliano solo come “Luca” un po’ mi scoccia, perché io non sono il brand»

Credo che questo approccio al mestiere definisca molto il momento che stiamo vivendo e la “nuova” generazione di designer, perché per lunghissimo tempo nella moda si è parlato di genio solitario, il designer a capo di un marchio, quando in realtà è sempre stato, e sempre sarà, un lavoro collettivo.
Sì, a maggior ragione poi se pensi al fatto che la moda è qualcosa che non può prescindere dall’idea dei corpi che la indossano, cioè proprio in maniera pratica, tutto inizia da lì. Ha una pluralità immensa, non può esistere da sola in una stanza, assolutamente no. 

Mi pare che in questo periodo si continui a discutere, qua e là nell’industria, di made in Italy, sistema, identità italiana. Cos’è oggi il punto di vista italiano nella moda, che è chiarissimo nel tuo lavoro, e come si riscrive per un pubblico globale secondo te?
Guarda non saprei dirtelo, ma ti spiego com’è nata l’idea di Magliano perché in realtà io l’ho copiata, diciamo così, perché c’erano alcuni designer che sono nati come noi non troppi anni fa e che parlavano della loro identità in un modo così chiaro, così potente, un modo che aveva tantissimo senso per me che ne ero spettatore. Per farti un esempio, Martin Rose, anche se ovviamente ci sono designer che hanno fatto quel tipo di lavoro molto prima. Allora io mi sono chiesto quale fosse la mia, di identità, e ho scoperto di averne una molto specifica ma che avevo sempre trascurato perché, in qualche modo, mi sono ritrovato all’interno di sistemi che volevano negarla. Quindi quell’identità, bellissima, l’ho voluta rivendicare e solo così ho potuto raccontarla: la mia non era un’esperienza che nasceva in una scuola blasonata, non sono uscito dalla Central Saint Martins di Londra ma da una scuola qualunque, e neanche quella dell’ufficio stile più figo di Milano ma quella di un ufficio stile-fabbrica, e quindi alla fine la mia esperienza era di stare in mezzo alle persone che lavorano. La mia esperienza, come essere umano, è quella di essere figlio di due persone che non sono e che non appartengono a nessun tipo di élite, che non sono istruite. O meglio: che sono istruite quanto hanno potuto istruirsi. Per me tutte queste cose, improvvisamente, hanno assunto nel complesso quello che poi alla fine abbiamo chiamato “quintessenza italiana”. Che poi non si tratta di una quintessenza italiana che è valida a 360 gradi, naturalmente, ma di certo è valida per molti nel nostro Paese: questa cosa della provincia, che per lungo tempo è stata dipinta come un luogo quasi immaginario, io l’ho presa molto alla lontana, recuperando tutti coloro che ne avevano parlato prima di me, come ad esempio Pier Vittorio Tondelli, e l’ho ricostruita pian piano. Il mio lavoro di questi anni è stato questo, ricercare la mia identità, e quello che ho trovato è stata la mia storia italiana. E la mia storia italiana, guarda caso, coincide con quella delle persone che mi circondano e che nel tempo hanno iniziato a lavorare al brand. Non è tanto la ricerca della realtà, ma di una qualche forma di verità.

«Io mi sono chiesto quale fosse la mia, di identità, e ho scoperto di averne una molto specifica ma che avevo sempre trascurato perché, in qualche modo, mi sono ritrovato all’interno di sistemi che volevano negarla»

Il modo in cui parli di designer tuoi coetanei, e di come hanno ispirato e ispirano il tuo lavoro, è secondo me un altro segnale di quel cambiamento generazionale.
Questa è una cosa in realtà molto importante, che mi piacerebbe sottolineare. Lo sai, quando mi vedi con Mauro [Simionato, a capo del collettivo Vitelli, nda] o con Jezabelle [Cormio, nda] o con altri credo che sia palese il rapporto che c’è tra noi: il nostro lavoro non può essere quello di stare da soli in una stanza perché non siamo nulla se non abbiamo dei colleghi, ognuno con il proprio percorso, e questo è fondamentale. Io non voglio essere più bravo di Martin Rose, perché la adoro, non voglio essere più bravo di Mauro, perché lo adoro, non voglio essere più bravo della Jeza perché la adoro: per me è talmente necessario che ci siano e che la conversazione continui da una parte all’altra, perché – e lo dico candidamente – è troppo figo non essere l’unico stronzo del villaggio a fare questa cosa, ma essere in tanti. Anche l’esperienza di LVMH Prize di cui parlavi prima: quello che mi porterò dietro per sempre è stata la possibilità di conoscere e potermi confrontare con altri designer da tutto il mondo che non stanno facendo altro, e questo mi ha fatto una tenerezza incredibile, che esplorare la loro identità. L’ho trovata una cosa incredibile, bellissima [ci sono altri due progetti di base in Italia in finale, cosa che non succedeva da molto tempo: Veronica Leoni con Quira e Satoshi Kuwata con Setchu, nda].

Sono davvero convinta che questo che descrivi sia un modo di guardare alle cose che fa parte delle generazioni che vanno dai Millennial in giù e che caratterizza molti dei nuovi designer più talentuosi, vuoi anche perché tutta quella “magia” che aveva circondato il sistema è stata grattata via dalla realtà dello stesso sistema.
Sì, anche perché quello è un luogo in cui ti viene richiesto di coincidere in qualche modo con il tuo brand, una cosa che appunto per molti di noi è difficile mentre per certa parte del sistema è qualcosa di scontato. Ma è una cosa d’altri tempi, se ci pensi, è un sistema vecchio in un mondo nuovo. In quell’occasione, ho potuto parlare con i miei colleghi di tipi di corpo, di Adhd, di neurodivergenza, di cose insomma che ci riguardano come generazione. Credo che stiamo, collettivamente, riscoprendo la fragilità e la stiamo, in qualche modo, rivendicando. È di questo che Magliano parla e credo che sia questo, in un senso più ampio, l’argomento principale del futuro.

Tra le tante cose successe nell’ultimo anno c’è stato anche il lancio dello shop online e delle campagne pubblicitarie. Cosa puoi raccontarci dei prossimi passi?
Mi sto preparando a uno show che parlerà di preghiera perché, come diceva Santa Teresa d’Avila, fanno più piangere le preghiere esaudite che quelle non ascoltate. Questo è un buon momento, per cui vogliamo in qualche modo approfittarne per restituire qualcosa. È una preghiera che non ha nulla a che fare con la religione ma con il bisogno di prendersi cura degli altri. Vorremmo quindi che fosse un momento gioioso, ma anche di riflessione. Poi spero che potremmo prenderci una piccola pausa, finalmente, e riprendere con un ritmo che possa andar bene al nostro studio, alla nostra Magliano S.r.l., un ritmo che rispetti il nostro passo e che ci permetta di andare avanti nel modo che più ci si addice. Nei prossimi anni vorremmo fare poche cose, ma cose che siano preziose per noi: vorrei diventassimo sempre più bravi e più organizzati, ma allo stesso tempo proseguire nella stessa identica direzione di questi anni.

Nell’immagine: un ritratto di Luchino Magliano di Jacopo Benassi.

Questa intervista è tratta da “New World Border – Il nostro posto nel mondo”, il numero di Rivista Studio in edicola. Se volete acquistare una copia oppure abbonarvi, potete farlo qui.