Attualità

Le vite che leggiamo

Da Carrère a Clara Usón, passando per Wolfe e Capote. Un saggio sul come e sul perché, di recente, le biografie sono diventate la nuova letteratura di qualità.

di Clara Miranda Scherffig

A causa di un brutto pregiudizio, ritenevo che la biografia fosse un genere per appassionati di musica o di libri fantasy –  quel tipo di persona che spende volentieri molti soldi per un cimelio appartenuto a una celebrità X di cui esistono circa una decina di biografie, tra quelle autorizzate, quelle non ufficiali e la preziosissima ultima edizione rivelante nuovi scabrosi dettagli. Quest’idea mi veniva confermata ogni volta che incontravo qualche musicista in erba che si precipitava a raccontarmi l’incredibile storia di Miles Davis (Miles: The autobiography, 1990) e io tacevo, vergognandomi assai, il fatto di aver letto tre diverse biografie di Kurt Cobain – e anche Un amore dell’altro mondo di Tommaso Pincio, che si ispirava all’infanzia di Cobain e ambientava una storia bizzarra e commovente nella nebbia di Aberdeen, WA. In più, è vero, il liceo classico non ha certo aiutato a formarmi un’opinione neutra di questo genere, dove le opere storico-biografiche di Tacito o Plutarco venivano trasformate in un elenco di aride informazioni noiosissime.

Questo era lo stato in cui versava la biografia nella mia libreria prima che prendessi in mano Limonov e L’avversario (e, in misura minore, La mia vita come un romanzo russo) di Carrère, Open “di” Andre Agassi e La figlia, di Clara Usón. Tutti usciti circa negli ultimi due anni, sono libri tra loro molto diversi eppure meritevoli di aver rilanciato il genere presso lettori che da tempo avevano smesso (o mai cominciato) di apprezzarlo. Ma perché leggiamo biografie oggi e perché hanno successo?

 

Innanzitutto, la definizione.

Limonov racconta la vita (non ancora finita) di un uomo che ha svolto innumerevoli professioni e vissuto in innumerevoli città prima di essere “raccolto” e raccontato con la voce unica (eppure non univoca) di Carrère. Lo scrittore francese è un mago della biografia ed è sicuramente grazie al suo lavoro se in tanti ci siamo appassionati al genere. Suo è anche L’avversario che esamina la vita di un pluriomicida francese, protagonista di un caso di cronaca avvenuto nel 1993. Ma se quest’ultimo libro potrebbe in effetti ricevere una fascetta pubblicitaria che inneggia a “la vera storia del caso che ha sconvolto la Francia”, Limonov narra l’esistenza di un personaggio che sì, ha condotto una vita eccezionale, ma che forse consideriamo tanto interessante più perché ce l’hanno raccontato in modo interessante che perché quest’uomo lo sia per davvero. Eduard Limonov è infatti una figura abbastanza “marginale” in tutte le situazioni in cui si ritrova (poeta d’avanguardia in Russia, “maggiordomo illuminato” di un riccone americano a NY, scrittore di nicchia a Parigi, soldato pro-Serbia durante le guerre dell’ex Yugoslavia e politico anti Putin nella Mosca dei giorni nostri – e non è tutto), ma certo colpisce che ne abbia combinate di così tante. E se in Italia i libri di Limonov-scrittore sono stati quasi invisibili, è forse prima di tutto il fatto che sia stata compilata una biografia in suo nome a giustificare l’esistenza di una biografia su Limonov. Sembra insomma che, più che altro, sia stata la scelta del genere a legittimare il contenuto – almeno agli occhi del grande pubblico. Ma di nuovo: tra chi ha letto Limonov, ma anche L’avversario e La mia vita come un romanzo russo, quanti si sentono completamente tranquilli a dire che sono biografie?

Il libro è a stento una biografia: romanzo storico, cronaca di guerra, affresco intellettuale, storia d’amore – non sappiamo deciderci e torniamo al più generico quanto affidabile termine “romanzo”.

Quando parlo di queste “biografie”, spesso mi scappa la parola “romanzo”, e La figlia, di Clara Usón, pubblicato quest’anno da Sellerio, arriva in soccorso a motivare meglio perché ciò accada. Affascinata dalla storia recente dei Balcani quando ho visto che era uscito un libro sulla figlia di Ratko Mladić sono corsa a leggerlo. Ricorderete Mladić in qualità di capo dell’esercito serbo durante il conflitto contro la Bosnia e come responsabile dell’assedio di Sarajevo e del massacro di Srebrenica. Una recente scintilla di notorietà l’aveva avuta nel 2011, quando, ultimo latitante responsabile delle guerre iugoslave, viene arrestato e portato davanti al tribunale dell’Aia con l’orrenda accusa di genocidio. Anni prima, Clara Usón, scrittrice catalana abbastanza apprezzata in patria, legge una notizia sul Times: Ana Mladić, la figlia del criminale militare all’epoca più temuto d’Europa, si è suicidata. E non si è semplicemente tolta la vita: l’ha fatto con la pistola preferita dal padre, poche settimane dopo una vacanza a Mosca con un gruppo di amici. Tra padre e figlia c’è un legame strettissimo, Ana si sta per laureare in medicina e a Belgrado è una ragazza molto popolare. Che cosa si è rotto, forse durante quel viaggio a Mosca? Ecco il punto di partenza de La figlia, libro densissimo, frutto da un lato di tre anni di ricerca approfondita, dall’altro dall’incredibile abilità della Usón di mettersi nei panni altrui.

Due sono le versioni che si intrecciano nel romanzo. La prima è quella dei pensieri di Ana, ventitreenne che immagina un futuro radioso per sé e il proprio paese e che confida senza esitazioni nel piano politico portato avanti da Belgrado contro gli “infedeli musulmani”, traditori antisociali da sempre ostacolo alla formazione di una grande Serbia. La seconda è quella di un personaggio fittizio, Danilo Papo, coetaneo di Anna ma ideologicamente agli antipodi rispetto a lei. Danilo è la discreta (e fittizia) voce narrante, che ironicamente “canta” le vite degli atroci protagonisti dei conflitti iugoslavi. La figlia è infatti costruito con una struttura a capitoli che inframmezza la vicenda umana di Ana e dei suoi amici – di cui Danilo faceva parte – con le “Gallerie degli eroi”: Milošević, Karadžić, Mladić sono solo alcune delle figure simboliche e politiche che hanno reso quel tragico periodo un’epopea dell’Europa moderna. Il libro è infatti a stento una biografia: romanzo storico, cronaca di guerra, affresco intellettuale, storia d’amore – non sappiamo deciderci e torniamo al più generico quanto affidabile termine “romanzo”. Però, come in Limonov, L’avversario, La mia vita come un romanzo russo, e in parte Open, la materia prima è vera, che sia accaduta nei meandri della storia dei poveri o registrata dai media mondiali, c’è stata per davvero. L’etichetta “ispirato a fatti realmente accaduti” uccide la poesia di queste vite ma sottolinea un termine che fa forse a caso nostro. L’ispirazione. Di nuovo, se chi legge una storia tratta da fatti realmente accaduti vuole di solito lasciarsi stupire dall’eccezionalità del mondo reale, è in romanzi come questi che avviene un gioco inverso. Sono le parole dello scrittore a ispirare dei fatti che altrimenti, forse, sarebbero sì mondani, ma anche tristi, insignificanti, privi di rilevanza artistica per chi guarda la realtà con occhio democratico (e cioè, ama le storie dei grandi come dei piccoli uomini). Sembrano, questi, libri che nascono come biografie ma che vengono cresciuti come romanzi. Hanno personaggi “formati”,  alimentati dalla soggettività dei loro autori ed educati alla complessità del mondo, per chi vuole vederla.

 

Dopo Capote

A sangue freddo costituisce un precedente importante ed è infatti stato apertamente chiamato in causa da Carrére per L’avversario. Ma il libro di Truman Capote è rilevante per tutti. La novità fondamentale di A sangue freddo non è solo dovuta al fatto che Capote fosse riuscito a entrare (lungamente!) in contatto con i due assassini e con la comunità coinvolta nell’omicidio. La grande sorpresa per il successo di A sangue freddo nacque anche dal fatto che i lettori conoscevano la “fine”. Era un libro giallo il cui whodunit era stato svelato anni prima da tutti i giornali del paese. In Mauve Gloves & Madmen, Clutter & Vine (1976) Tom Wolfe aveva infatti parlato della “New Pornography”, quella per cui non importa il perché ma il come. Come e più che in un becero tabloid, vogliamo sapere esattamente cosa ha fatto Jean-Claud Romand prima di appiccare il fuoco alla casa dove aveva appena sterminato l’intera famiglia. Com’è che Andre Agassi ha vinto otto Slam con un parrucchino appiccicato sulla testa (o anche: com’è possibile che gli piaccia Céline Dion!?)? E cosa ha pensato Ana Mladić, quando si è allontanata dalla censurata realtà serba e ha annusato che forse suo padre uccideva persone innocenti, come ha scelto la pistola che pochi giorni prima aveva pulito insieme al padre, dopo aver portato fuori i cani di famiglia? Come sopravvive uno scrittore, quando confonde l’amore per una donna con la passione per il proprio mestiere e si umilia scrivendo Facciamo un gioco? Leggiamo queste storie perché raccontano ciò che altri media non hanno avuto il tempo o il permesso di approfondire. Ci interessano anche i “gory details”, i particolari pruriginosi del misfatto come della psicologia dei personaggi. Wolfe mette in luce due aspetti cruciali in questo senso: il punto di vista e la condizione dell’uomo nell’epoca contemporanea. Scrive: «La violenza è chiaramente inglobata nei problemi di status. (…) La nuova pornografia è la fantasia di facili trionfi in un mondo dove la competizione sociale è diventata complicata e frustrante». E dove la propria e unica vita spesso non è abbastanza.

 

Tante voci

Capisco bene il dispiacere di essere “una sola vita” e credo che in molti avrebbero voluto vivere una seconda infanzia in qualche paese esotico o aver avuto la possibilità di svolgere professioni differenti o di sposare donne o uomini  diversi da quelli che hanno scelto. Ed è qui che la “multivocalità” offre sollievo.

Tom Wolfe sottolinea infatti che “Ciò che rende la ‘violenza pornografica’ tale, è che, quasi sempre, l’angolo di ripresa—e dunque lo spettatore—è la pistola, il pugno, la pietra. Il punto di vista della pornografia della violenza non è più quello dei romanzi. L’azione non si vive più attraverso gli occhi dell’eroe. Si vive con l’aggressore, chiunque esso sia. Un attimo prima sei l’eroe, un attimo dopo sei il cattivo”. Non posso che apprezzare la metafora cinematografica, poiché in effetti la direzione e la varietà dei punti di vista è qui una questione cruciale. Di Carrère basta leggere un libro solo per capire che una visione unica gli sta stretta, e che anzi, spesso proprio non ce la fa a tenersi la sua autobiografia per sé. Eppure piuttosto che considerarlo uno scrittore egocentrico o invadente, si stima l’onestà e lo sforzo umano, perché accorcia la distanza tra noi e quello che leggiamo. Questa credo sia la differenza fondamentale tra la concezione “classica” della biografia (quella delle biografie autorizzate, quella delle celebrità stellari, quelle che vendono perché smentiscono biografie scritte precedentemente, quelle che impolverano le librerie dei nonni, ecc.) e questi nuovi “bio-romanzi”.

Nel mio immaginario le biografie erano storicamente raccontate con una voce sola, autoritaria e presumibilmente affidabile, tendenzialmente di parte, che scrive per celebrare la vita e l’ideologia di un personaggio solo. I personaggi cornice (genitori, familiari, amanti e colleghi – difficilmente altro) sono funzionali alla costituzione dell’esistenza dell’unico, indiscusso protagonista. Quello che fa pensare alle biografie come qualcosa di conservatore (fascista è senz’altro eccessivo) è perché spesso, dietro la copertina luccicante, si celavano piccoli culti della personalità, visioni unilaterali della storia e magari anche frustrati tentativi di riscriverla (penso ora biografi amanti della dietrologia e visualizzo parole chiave come “suicidio indotto” e “Jim Morrison”). Al contrario, il pregio maggior della scrittura della Usòn è quello di aver cercato di spiegare e insieme criticare una certa versione dei fatti: utilizzando spesso il discorso indiretto libero o stravolgendo sarcasticamente le parole ufficiali dei capi serbi, si insinua nella mentalità ottusa dei violenti ma poi ricostruisce la frustrazione e la debolezza a monte dei loro atteggiamenti e infine restituisce al lettore – e qui davvero bisogna inchinarsi – l’immagine di una ex Yugoslavia che sì è complessa, ma comprensibile. La vicenda di Agassi è in una posizione ambigua e Open è forse un libro troppo superficiale per concedere spazio ad altre voci. Interessante è però ricordare quali dinamiche gioca il ruolo della stampa – forse l’unico esempio di “voce secondaria”. Esiste uno scollamento totale tra i biografi ufficiali dell’epoca, i critici sportivi, e il “cuore di Andre”: il ghost writer J.R. Moehringer non permette al lettore di costruirsi un’opinione personale, ma senz’altro bisogna riconoscergli il merito di aver ben inscenato la guerra di verità che sempre scatta tra l’uomo famoso e l’opinione pubblica.

 

Televisione

La figlia si apre con un’immagine molto concreta: un programma della televisione bosnianca, 60 minuta, che mostra alcuni video dove Ratko Mladić è in compagnia della moglie e della figlia Ana, la famiglia è gioiosa, tutti sorridono. Poi c’è uno stacco, schermo nero, ed ecco Mladić al funerale della figlia, zoom sulla lapide. Il ricordo più vivido, se non l’unico, che ho della guerra in ex Yugoslavia è quello dell’inviato del Tg3 Ennio Remondino in collegamento dalle colline di Sarajevo. (Inquietante è il fatto che Limonov sia stato ripreso sulle stesse colline mentre scarica una mitragliatrice verso la città, durante il suo “periodo cetnico” – l’episodio è nominato dalla Usón e si trovano diversi video che lo testimoniano). E ancora: essendo stato il caso Romand specificamente francese, difficilmente in Italia troveremo qualcuno che ricordi l’episodio; sappiamo però perfettamente come funziona il bombardamento televisivo di certi fatti di cronaca e non si fa fatica ad immaginare l’impatto che può aver avuto nell’immaginario collettivo di quegli anni – anzi già aspetto con ansia un Carrére italiano che mi incanti con la vita di Annamaria Franzoni. E poi, di Agassi è il ritratto con il completo Nike Hot Lava e il mullet fluente quello che tutti ricordano. Sono immagini, queste, che provengono dalle storia recente, che gli adulti di oggi hanno visto e rivisto da bambini e poi dimenticato. E poi avuto voglia di riscoprire.

Non a caso gli autori di queste nuove biografie erano abbastanza giovani all’epoca degli eventi, spesso (ma non sempre) svoltisi in quei nebulosi anni Novanta, oggi di un fascino che va ben oltre i pantaloni a vita alta e alle scarpe con le zeppe. Sono scrittori che non fanno solo gli scrittori, Carrére lavora molto con il cinema (recente è Les Revenants, serie televisiva abbastanza terribile) mentre la Usón ha alle spalle una lunga carriera in campo giuridico.

Si ha come l’impressione che i nuovi “bio-romanzi” più che riferire storicamente un evento preciso, vogliano evocare un’epoca, ricostruiscono un’atmosfera. Come gli home video sgranati riportati a nuova vita dai filtri super 8 dell’iPhone, le (non lontanissime) vite degli altri restituiscono anche un certo stile, un gusto retrò che avevamo lasciato in cantina insieme con la televisione.

Insomma, difficile ora non cadere nell’umore nostalgico dei tempi che furono e anzi, molto facile scadere nei cliché della biografia tradizionale. Ma un’evoluzione c’è e il cambiamento è dolce, anche quando ci raccontano vite che fanno un po’ paura.

 

Nella foto, Truman Capote, mentre si trova a Milano per negoziare il contratto sul suo libro A sangue freddo. Keystone/ Getty