Attualità

Le elezioni tedesche e l’ideologia che non c’è più

Domenica 24 settembre si vota, mentre il centrismo è diventata la religione civile della Germania. Un reportage da Berlino.

di Mauro Mondello

Berlino. Intorno ad Hermannplatz c’è il solito caos di automobili che aspettano in coda ai semafori, di gente che entra ed esce dal sotterraneo della U-Bahn, di venditori ambulanti che si sbracciano dai banchi di frutta, di verdura, di pane simit con il sesamo. Siamo nel cuore di Neukölln, nella Berlino turca ed araba che parte a pochi metri da Kreuzberg per poi correre verso la periferia profonda di quello che, nemmeno troppo tempo fa, era una sorta di confine abbandonato di Berlino Ovest. Arrampicati sui pali della luce, campeggiano i manifesti elettorali per le elezioni di domenica 24 settembre.  Un Martin Schulz sorridente, in completo scuro e cravatta grigia, fa da sfondo ad uno degli slogan più creativi della Spd, in una campagna elettorale piatta, immobile, priva di risentimenti. Die Zukunft braucht neue Ideen, «il futuro ha bisogno di nuove idee». Un concetto rivoluzionario, in una Germania che si avvicina al voto federale in punta di piedi, addormentata dagli almeno 15 punti di vantaggio che anche le rilevazioni più caute attribuiscono ad Angela Merkel. Mutti, “mammina”, come la chiamano i tedeschi, verrà eletta per la quarta volta consecutiva Bundeskanzlerin. Con buona pace della città di Berlino, che non l’ha mai amata sino in fondo e che continua a destinare percentuali di voto consistenti, in controtendenza rispetto al resto del Paese, ai partiti più ideologizzati dell’arco parlamentare.

«Io voto Spd, ma ormai è una consuetudine per me, nemmeno ci penso: è dagli anni Ottanta che voto così. Quello era un periodo molto diverso. Allora si parlava di politica, ma non in televisione o sui giornali, proprio qui, per strada, nel mio negozio, la gente si fermava e discuteva», mi racconta Johannes Weber, che ha una vecchia bottega di rigattiere a pochi isolati dal Maybachufer, la via che costeggia il Landwehrkanal, uno dei tanti striminziti canali che attraversano Berlino, nel suo passaggio più orientale, mentre scarica dentro il negozio vecchie cianfrusaglie, dal suo furgone parcheggiato in doppia fila. «Oggi invece non succede niente. Potrei votare anche per la Merkel, tanto alla fine governano sempre insieme, lei e la Spd. Non c’è nessun dibattito, nessuno scontro», aggiunge.

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Johannes è uno di quei milioni di tedeschi per i quali il “centrismo” è diventato una nuova religione civile. Non è sempre stato così, in questa città. «Certo era anche un’altra Berlino, quella degli anni Ottanta, una città in cui ogni cosa, anche la più piccola, diventava politica. C’era una tensione che non ti puoi davvero immaginare. Questo quartiere qui, che oggi è pieno di ragazzini stranieri e di turisti, di ristoranti strani, di bar che stanno aperti tutta la notte, era un posto che, per venirci, ci voleva coraggio. Le case erano vuote, un appartamento costava 100, 120 marchi al mese, quando lo pagavi. Tutto era politico», ricorda Johannes. Poi, evidentemente, qualcosa è cambiato: «Ci siamo arricchiti, così la politica non c’interessa più».

Questa, del resto, è diventata una nazione in cui sono la burocrazia, l’amministrazione, il governo quotidiano, a farla da padrone, lasciando pochissimo spazio al confronto ideologico. Una noia straordinaria, a livello politico, che è risvegliata solo in parte dai discorsi di Alternative für Deutschland, il partito di destra, nazionalista ed euroscettico, che cerca di cavalcare l’onda populista, ma i cui discorsi in chiave anti-immigrazione non attecchiscono come nel resto del continente. Il rancore contro il diverso può funzionare in Francia, in Gran Bretagna, in Olanda, in Italia, ma non qui, almeno non ancora e non con la stessa forza: Afd è accreditato di percentuali importanti, ma che rimangono intorno al 12 per cento e che dovrebbero ridursi addirittura della metà nella capitale tedesca.

Quello che si dirige a destra (così come, almeno in parte, succede anche per l’estrema sinistra) è un voto di protesta, legato a doppio filo a quella fascia di Paese che è rimasta indietro e che rappresenta oggi la Germania più povera. Una realtà che a Berlino si cristallizza nelle aree suburbane di Marzhan, di Hellersdorf, di Falkenberg, quartieri dormitorio, eredità della lontana Ddr, oggi popolati, in grandissima parte, da lavoratori stranieri provenienti dall’Europa orientale e da famiglie tedesche il cui sostentamento è garantito dal sistema di welfare tedesco.

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«Noi viviamo grazie all’Hartz IV (ndr il sussidio di disoccupazione di base che in Germania percepiscono oltre 6 milioni di persone), ma non è un bel vivere, tutt’altro. Lo sai anche tu come funziona, no? Gli uffici del Job Center, per darci il contributo, ci umiliano», racconta Jana, una ragazza che a 26 anni, con un figlio, non ha praticamente mai lavorato. «Ci controllano gli scontrini della spesa, per essere sicuri che fra gli acquisti non ci sia niente di “superfluo”, come dicono loro. E se c’è qualcosa che non torna, vogliono i soldi indietro e non scherzano: ti bloccano il conto corrente e non puoi fare più nulla, sino a quando non paghi», prosegue. Jana voterà Alternative für Deutschland: «Io di politica non mi interesso, però sono gli unici che vengono qua, nel quartiere, a parlare con noi. Almeno provano a difenderci dagli stranieri, hai visto quanti ce ne sono in giro qui? Non se ne può più».

Nella tornata per il voto comunale del settembre 2016, nel quartiere di Marzahn, al limite orientale del cono urbano di Berlino, dove il 30 per cento dei nuclei familiari vive grazie al sussidio di disoccupazione, l’Afd ha raccolto, in alcuni seggi, oltre il 35 per cento delle preferenze, a fronte di un dato complessivo del 14,2. Una percentuale pesante, ma che non cambia il concetto complessivo rispetto al sonno politico dentro il quale si sono pian piano accasciati i tedeschi.

Lo scetticismo dei tedeschi nei confronti delle ideologie ha ragioni sociali, ma anche storiche, spiega Peter Müller, professore di Storia Contemporanea, oggi in pensione, alla Freie Universität Berlin, il più grande ateneo della capitale tedesca. Tanto per cominciare, la Germania in una condizione socioeconomica molto più serena, rispetto agli altri Paesi dell’area euro. «La disoccupazione esiste anche in Germania, ma è più contenuta che nel resto d’Europa ed ancora, anche se non so per quanto tempo ancora, possiamo sostenerla attraverso il nostro meccanismo di Stato sociale. Le diseguaglianze economiche fra ricchi e poveri ci sono, ma siamo lontani anni luce dagli squilibri di Italia, Francia e Regno Unito. Le periferie difficili le abbiamo anche noi qui a Berlino, ma non sono banlieue, come a Parigi, non ci sono zone nelle quali non si può entrare: tutto è più contenuto, più controllato, ed è questo il segreto di una burocrazia che porta avanti la Germania in silenzio», mi ha detto Müller.

Poi, prosegue, c’è un passato dove le grandi ideologie del Novecento si sono fatte sentire parecchio:  «Siamo un Paese che ha già sperimentato, purtroppo e con tutte le conseguenze storiche che ben conosciamo, la sua dose di ideologia e che tende quindi, in maniera quasi naturale, a cercare un punto di approdo sicuro, anche a costo di sacrificare, in parte, un pensiero politico che è presente nel tessuto sociale, ma che non si esprime compiutamente dentro i meccanismi elettorali», sintetizza Müller. La Germania non è il primo caso di nazione dove una combinazione di benessere e di ragioni storiche hanno prodotto un rifiuto delle ideologie: la Norvegia e la Danimarca, dice il professore, hanno vissuto un percorso simile. «Non siamo né il primo né l’ultimo Paese ad esteriorizzare in questa forma il suo percorso storico. Però sì, di sicuro siamo il più noioso: in fondo non c’è niente di male ad ammetterlo».

 

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