Attualità

La Brexit, che non ci sarà, e il nostro futuro

Incontro con Matthew Taylor, capo del RSA e già stratega di Blair: perché la Brexit non sarà quello che si pensa, il futuro della politica e quello del lavoro.

di Federico Sarica

Matthew Taylor è quella che si può definire una vecchia conoscenza della politica inglese. Uno di quelli che l’ha vissuta a lungo in prima persona, in posizione insieme defilata e centrale, come spesso accade a chi si occupa di idee, contenuti e strategie per questo o quel progetto politico. Taylor è stato una dei maggiori strateghi del blairismo: direttore del think tank blairiano Institute for Public Policy dal ’98 al 2003, anno in cui fu chiamato dallo stesso Blair a dirigere la Policy Unit di Downing Street, ha in seguito scritto il nuovo manifesto del partito laburista per le elezioni del 2005, per poi diventare Chief Adviser del leader laburista una volta rieletto. Dal 2006 dirige la RSA, un’organizzazione che lui stesso definisce “metà think tank e metà movimento sociale”, la quale si occupa di lavorare sulla ricerca di soluzioni pratiche per i mutamenti sociali. Non a caso è stato da pochi mesi incaricato dal primo ministro Theresa May di redigere un importante report sul futuro del lavoro per il governo inglese. Studio l’ha incontrato in questi giorni a Milano, in un momento cruciale per lo scenario politico globale, per il futuro della Gran Bretagna e del suo rapporto con l’Europa (mercoledì scorso è ufficialmente iniziata la cosiddetta Brexit, con la richiesta dell’Articolo 50), per l’evoluzione delle forze politiche in campo.

 

ⓢ Mr. Taylor, a che punto siamo con la Brexit?

Sono uno dei pochi che pensa che non sia ancora detto che accada. Credo che molti britannici non siano ancora veramente coscienti dei costi reali della Brexit sulle proprie vite e, soprattutto, come ha sottolineato Tony Blair, che i benefici che sono stati loro prospettati non saranno così grandi e reali. Il pericolo più grande cui siamo di fronte ora è il seguente: per far sì che questa trattativa abbia successo – che vuol dire che la Gran Bretagna esce dall’Unione Europea senza danni per entrambe le parti – abbiamo bisogno di un atteggiamento maturo, e se la trattativa sarà realmente matura, è impossibile che la Gran Bretagna ottenga quello che dichiara di voler ottenere. Non sono sicuro che l’opinione pubblica inglese, fomentata da alcuni media molto ostili all’Europa, accetterà facilmente che si vada incontro a un negoziato particolarmente complesso; ho paura che l’atteggiamento generale sarà “niente compromessi”, “perché dobbiamo pagare per uscire”, eccetera. Se la politica subirà la pressione dell’opinione pubblica e deciderà di non accettare compromessi, di non trattare, rischieremo la rottura della trattativa. E se la trattativa crolla, sarà una catastrofe: non credo infatti che esista un piano per la Gran Bretagna in caso di fallimento del negoziato.

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Matthew Taylor

 

ⓢ Quindi lei pensa che adesso sia necessario focalizzarsi sulla qualità dell’accordo.

Penso che quello che serve ora sia pragmatismo, sia da parte dei leavers che dei remainers, nel dire “lasciamoci alle spalle le differenze e concentriamoci sull’ottenere il miglior accordo possibile”; nello spiegare alle persone la verità sul fatto che se vogliamo lasciare l’Unione in maniera sensata, questo significa per forza arrivare a un compromesso. Non sarà possibile ottenere tutto ciò che si vuole e che è stato promesso. Quindi il punto ora è: vogliamo trattare in modo serio, onesto e pragmatico o vogliamo tenere un atteggiamento irrealistico e rischiare di rompere tutto?

 

ⓢ Siamo stati abituati a guardare alla politica inglese fondamentalmente come a un duello fra conservatori e laburisti, schema che sembra essere definitivamente saltato con la Brexit. Pensa che il referendum abbia cambiato la politica inglese per sempre?

Credo che il referendum abbia esplicitato una spaccatura che già esisteva, sia a destra che a sinistra. Da una parte dello schieramento ha confermato che un certo tipo di destra nazionalista stava diventando dominante sulla parte più moderata e liberale dei conservatori, e a sinistra ha confermato la frammentarietà dell’elettorato, non più granitico come in passato. Ciò implicherebbe un progetto nuovo, con idee nuove, cosa che oggi il Labour non sembra purtroppo in grado di fare. Quindi credo che sì, sia avvenuto qualcosa di epocale e che adesso è importante capire cosa esce fuori da questo nuovo scenario. Io credo che sia ormai nelle cose che si venga a creare una nuova forza al centro della politica britannica. Pensavo che sarebbe stato il partito conservatore di David Cameron a occupare quell’area, e per un periodo è sembrato riuscire a farcela, così come prima aveva fatto il Labour di Blair, ma ora sono sempre più convinto che debba essere una forza nuova. Il Partito laburista non ha più la capacità di farlo, è ormai stato incorporato da attivisti con un’agenda di sinistra molto tradizionale. Una cosa analoga avviene fra i conservatori, in maniera speculare: nessuno sembra aver la forza di battersi per idee liberali e modernizzatrici. La stessa Theresa May, non a caso, propone una visione tutta concentrata sulla Gran Bretagna del passato. Che poi è il motivo per cui ha chiesto a me di lavorare a un rapporto sul futuro del lavoro.

 

ⓢ Ironia sul suo compito a parte, in cosa consiste questo rapporto sul futuro del lavoro su cui sta lavorando per il governo inglese?

Il rapporto parte da una premessa: analizzare e, se possibile, proporre come migliorare, regolamentare e tutelare le nuove forme di lavoro che l’innovazione tecnologica ha creato. Non è un mistero che ci sia molto da fare per migliorare dal punto di vista di diritti alcune tipologie di nuovi lavori, nonché occuparsi dei diritti e dei doveri, fiscali anche, delle varie piattaforme che li hanno creati: Uber, Deliveroo e compagnia. Mi sono reso conto presto di una cosa: che questo rapporto non avrebbe avuto senso se non avessi convinto prima gli inglesi che ogni tipo di lavoro può e deve essere un buon lavoro. Sembra una banalità, ma è una cosa non così scontata. È il motivo per cui, prima di presentare la nostra review, lanceremo una campagna pubblica per sensibilizzare gli inglesi sul tema: ogni lavoro può e deve essere un buon lavoro. Siamo sempre stati bravi, come paese, a lavorare sulla quantità dei posti di lavoro, ora è tempo di occuparsi della qualità. Qualche punto su cui stiamo lavorando: primo, il problema per molti poveri inglesi era trovare un lavoro. Ora che in molti l’hanno trovato, il punto è dare loro un lavoro all’altezza dell’epoca in cui viviamo. Che ci porta al secondo punto: il fatto che nel 2017 molte persone, fra cui molti giovani, vadano a lavorare e non abbiano autonomia, controllo, voce in capitolo, è uno scenario che non rispecchia i valori e le conquiste del Ventunesimo secolo. Terzo, tutti i report fino a qualche tempo fa indicavano manager e dirigenti come i più affetti da stress sul lavoro; ora la tendenza si è invertita verso le persone pagate meno. Quarto, c’è un calo della produttività, in parte legato alle condizioni sul lavoro. Quinto, lo sappiamo tutti, stanno arrivando i robot. Vogliamo che il loro ingresso sulla scena releghi l’uomo a colui che schiaccia un bottone, o vogliamo fare in modo che la robotizzazione aiuti a migliore la qualità del lavoro di tutti? La tecnologia migliora la vita in tutti i suoi aspetti, sarebbe un controsenso se peggiorasse il lavoro. E non parlo di quantità, di posti di lavoro; parlo proprio di qualità, di come la robotizzazione può rendere più interessante quello che facciamo tutti i giorni. È un tema fondamentale.

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ⓢ Quello che lei descrive è uno scenario che implica uno sforzo da parte di tutti gli attori coinvolti, e che non può prescindere dalla complessità del mondo in cui viviamo. Eppure, politicamente, oggigiorno vince chi dà risposte facili a domande complicate, indipendentemente che possa poi, una volta al governo, mantenere le promesse fatte. Esiste un modo per rendere politicamente maggioritaria una visione complessa delle cose?

Parte della ragione per cui ci troviamo dove ci troviamo, è dovuta al fatto che buona parte dei politici hanno raccontato agli elettori che potevano risolvere tutti i loro problemi: eleggetemi e ci penso io, eleggetemi, sedetevi comodi, e tutto andrà bene per voi. E se tu racconti a tutti che esistono risposte facili, alla fine vincono i cosiddetti populisti. Perché risposte facili per risposte facili, hanno la meglio le più facili e le più interessanti. I populisti seguono due regole: sempre essere interessanti, mai essere prevedibili. Per i politici seri è molto più dura non essere prevedibili, perché hanno il dovere di essere coerenti; è molto più dura essere interessanti, perché devono confrontarsi col governo e con l’amministrazione, cose non sempre interessanti, e che costano tempo e compromessi. Le forze politiche progressiste devono cambiare campo di gioco: devono essere oneste con gli elettori e raccontare loro che le cose sono complesse e che le soluzioni implicano scelte e responsabilità da parte di tutti. E poi devono raccontare che quello che la politica può fare è creare lo spazio e le condizioni perché siano le persone a cambiare e migliore il mondo: le organizzazioni, le imprese, i sindacati, i gruppi religiosi, i cittadini possono cambiare il mondo. I politici da soli no. Se fossi uno di loro oggi, farei lo sforzo di raccontare che si può e si deve essere ottimisti, che il futuro può essere grandioso, ma arrivarci non sarà un percorso facile, dovremo tutti rinunciare a qualcosa. Dovremo fare compromessi; se teniamo al futuro del nostro paese, dovremo rinunciare tutti a un pezzetto di controllo del nostro destino, dovremo condividere un po’ di sovranità con altre nazioni, non ci sono problemi che si possono risolvere da soli. Quello che direi, se fossi un politico oggi, è “non eleggetemi se pensate che possa risolvere i vostri problemi da solo. Eleggetemi solo se siete disponibili a contribuire al processo di cambiamento: come cittadini che pagano le tasse, come imprenditori, come lavoratori, come figli, come genitori. Se non pensate di voler far parte di questo progetto, non scegliete me”. Bisogna essere ottimisti ma riconoscere la complessità.