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L’America chicana di Kali Fajardo-Anstine

Una conversazione con l'autrice di Sabrina & Corina, una raccolta di racconti con protagoniste delle ragazze latine e indigene che fanno i conti col loro retaggio e con la loro femminilità.

di Francesca Pellas

Kali Fajardo-Anstine, courtesy of Graham Morrison.

Nel 2001 la canzone “Another Chance” del dj Robert Sanchez arrivò al primo posto in classifica nel Regno Unito ed entrò nella Top Ten di molti paesi europei. Il video era un cortometraggio di Philippe André girato a New York, in cui una ragazza camminava per strada con il cuore fuori dal petto: un cuore gigante, che spaventava la gente, e che a forza di delusioni e dispiaceri rimpiccioliva sempre di più. Anche sulla copertina di Sabrina & Corina di Kali Fajardo-Anstine, uscito da poco per Racconti edizioni, c’è una donna con il cuore di fuori, tra le mani; e così sono le protagoniste di questa bellissima raccolta: esposte alla vita e ai suoi pericoli, a volte disperate, eppure – a differenza della ragazza del video – mai davvero sconfitte.

Ambientato in Colorado, tra Denver e la cittadina immaginaria di Saguarita, Sabrina & Corina si compone di undici racconti che illuminano un momento nell’esistenza di una gamma di sorelle, cugine, nonne, madri e figlie di origine indigena e chicana. “Chicano” è una parola importante, che per semplificare può essere inclusa nel termine “latino”, ma che al contempo lo espande, poiché molte e sfaccettate sono le possibili identità al suo interno, e “chicano” rappresenta una scelta ideologica precisa a livello politico e culturale (per approfondire qui). Come molti chicani, Kali Fajardo-Anstine non è un’immigrata di prima generazione, e nemmeno di seconda o di terza. Non furono i suoi antenati a spostarsi oltre il confine, fu il confine a spostarsi sopra i suoi antenati: loro hanno sempre vissuto lì, tra quelli che oggi sono il New Mexico e il Colorado.

Una delle cose preziose di questo libro (esordio dell’autrice), è proprio il suo andare ad ampliare il canone tradizionale della letteratura del West, facendo luce sulle vite delle persone indigene e latine dell’ovest americano. L’altra è la sua bellezza e qualità a livello di opera letteraria: è la voce potente e poetica di una nuova, grande scrittrice. Ce n’è poi una terza, forse la più importante. Ed è il fatto che, al di là di ogni discorso sul genere di chi l’ha scritto (e la sua bravura nel raccontare le donne), e di ogni sfumatura che identifichi la sua origine (chicana, latina, indigena, e con infiltrazioni di altri luoghi del mondo), questo sia soprattutto un grande libro americano. L’America è fatta di persone tutte diverse e in questo sta il suo cuore vivo là fuori. Ho raggiunto Kali Fajardo-Anstine per discutere di tutto questo, e siamo anche finite a parlare della luna.

Com’è stato crescere nell’Ovest americano da aspirante scrittrice senza riconoscersi in quella letteratura, sentendo che raccontare i tuoi luoghi non era considerato compito tuo?
Sono cresciuta ascoltando storie sui miei antenati. La mia prozia Lucy raccontava a me e ai miei fratelli delle sue sorelle e fratelli, arrivati a Denver negli anni 30. Venivano dal Colorado meridionale, e prima di allora dal New Mexico settentrionale; non avevano mai vissuto altrove, erano abitanti dell’Ovest americano da sempre. Alcuni di loro nel 19esimo e 20esimo secolo sposarono immigrati di ogni parte del mondo, e fu lì che la mia famiglia divenne un gran miscuglio di culture. Il nostro luogo d’origine però è un posto ben preciso: il Sudovest di quelli che oggi sono gli Stati Uniti. Adesso prova a immaginare di essere una bambina, e che la maestra, un’americana bianca, vi faccia leggere tutto La casa nella prateria. Nella serie i nativi, persone come i miei antenati, sono considerate cattive, e la voce narrante ha paura di loro. Tutto ciò che si impara a scuola sul cosiddetto West si concentra su immigrati bianchi che arrivano da Est e si spingono a Ovest.

Quando ti sei resa conto che ciò che dovevi fare era proprio quello, ovvero rivendicare la tua eredità ancestrale e il tuo diritto a scriverne?
Ricordo quel momento con precisione. Era il 2011, e stavo seguendo un workshop di scrittura. Eravamo a casa dell’insegnante, e fuori dalla finestra c’era la fredda oscurità della sera di Laramie, in Wyoming (dove KFA ha frequentato la magistrale in scrittura creativa, ndr), un luogo i cui elementi cardine sono il vento e i binari della ferrovia, e dove in inverno si arriva a meno venti. Laramie è a poco più di 200 chilometri a nord di Denver. Ecco, l’epifania arrivò proprio quella sera: due miei compagni avevano scritto una storia ambientata nell’Ovest americano, ma nessuno dei due veniva da lì. Io sì, mi sono detta; ho il diritto di raccontare le mie storie e di ambientarle in questi luoghi.

Tu hai radici indigene e latine. Puntualmente, durante le elezioni Usa, si fa un gran parlare del “voto dei latinos”, come se “i latinos” fossero un blocco unico, quando invece si tratta di una vasta e complessa varietà di popoli. Ho ripensato a questo discorso della giornalista Esmeralda Bermudez all’indomani dell’elezione di Biden, e mi piacerebbe sapere la tua.
Quest’idea, diffusissima, che le culture latinx siano un blocco unico è un falso mito molto pericoloso, per molteplici motivi. Una delle conseguenze più tremende è il rifiuto di molti americani di vedere le persone latinx a livello individuale: vengono raggruppate tutte dentro uno stereotipo e private della loro umanità, del loro valore come singoli individui.

Durante le ricerche per il libro sei andata negli archivi storici di Denver a verificare la storia di una tua zia, a cui negarono l’accesso in ospedale per il parto in quanto messicana: lì si limitarono a dirti che non era possibile. Poi andasti al Black American West Museum, dove ti risposero: «Certo, non tengono traccia del razzismo nei regolamenti. Devi fidarti dei tuoi antenati. E del tuo intuito». Anche nel libro, l’intuito, sentire le cose, è fondamentale. Nella tua vita che ruolo ha?
Vengo da una famiglia con molta esperienza in merito. Alcuni potrebbero definirci sensitivi; io mi limito a vedere questi momenti come parte integrante della vita quotidiana. Una volta ho sognato una delle mie sorelle che gridava: mi sono svegliata di soprassalto e le ho telefonato, scoprendo che aveva appena avuto un incidente d’auto. Non si era fatta niente, ma la mia mente aveva sentito che era successo qualcosa. Penso che accada a molte persone, solo che spesso si tende a negare che l’intuito femminile e le stesse esperienze delle donne, siano qualcosa di valido e reale, soprattutto se si tratta di donne indigene e di colore. Ci viene detto di lasciare le nostre emozioni al di fuori del contesto professionale, ci chiamano isteriche se osiamo fare altrimenti. Una volta stavo camminando con mia nonna, e lei mi ha indicato un pioppo, facendomi notare che aveva le foglie rivolte verso l’alto. Mi spiegò che lo fanno poco prima della pioggia: sentono l’umidità nell’aria e si preparano a ricevere l’acqua. Gli alberi riescono a sentire che qualcosa sta per arrivare, e anche noi umani, specie noi donne, abbiamo accesso a quel tipo di conoscenza.

Ho letto una tua dichiarazione molto bella. «Per me questo territorio è vivo, ed è femmina», hai detto della terra da cui provieni.
Sono stata cresciuta con la consapevolezza che la terra da cui veniamo è una madre che nutre. La mia bisnonna era nata nel 1912, e ne ha sempre avuto un grande rispetto; ha insegnato alla sua famiglia a tenere in grande considerazione la generosità dell’ambiente in cui erano immersi: le piogge e la neve, il sole, gli animali e le piante. Amava lavorare l’orto, e trovava sempre il modo di riutilizzare avanzi di cibo e contenitori. Le era stata instillata fin da piccola una venerazione per la terra, e ben prima dei movimenti per la salvaguardia del pianeta. Mi ha insegnato che noi e la terra siamo collegati, e che gli esseri umani sono in grado di sopravvivere solo perché lei si prende cura di noi. Per me quindi è necessariamente femmina.

In Sabrina & Corina c’è un costante equilibrio tra due poli: nelle protagoniste (due sorelle, due cugine, madre e figlia, nonna e nipote), ma anche tra i due luoghi in cui quasi tutte le storie si svolgono, ovvero Denver e la cittadina immaginaria di Saguarita. E c’è una tristezza sotterranea che fa da collante a tutti i racconti.
La mia infanzia e gioventù sono state per certi versi molto felici, ma ho vissuto anche cose molto tristi: da piccola ho assistito a episodi di violenza, e più tardi ho avuto un rapporto complicato con il bere, ho fatto festa in maniera esagerata, e ho incontrato uomini che avevano poco rispetto per me. Lavorare sulla dualità mi ha fornito una struttura per comprendere il mio posto nel mondo, e per capire ciò che potevo fare riguardo alla mia tristezza. Vivere non è facile, eppure la vita è il dono più grande che abbiamo. Penso che la malinconia presente nel mio lavoro derivi da questa consapevolezza: sono felice di essere viva, ma conosco anche il dolore profondo, e forse fa tutto parte dell’essere qui.

C’è anche violenza, in questa raccolta. E nel racconto “Sorelle” questo dato si fa più specifico: la protagonista dice che gli uomini bianchi non la vedono come una donna vera e propria, bensì come un oggetto esotico. Ti va di dirmi qualcosa di più su questo punto?
Nelle mie storie sono tante le donne che sentono gravare su di loro in maniera palese, spudorata, il peso della misoginia e della supremazia bianca. In una società classista si dice “sposarsi bene” (in inglese “marrying up”, ovvero “sposarsi su”, espressione che rende chiaro il concetto di salire nella scala sociale, ndr). Un’espressione che però non spiega del tutto l’esperienza di una donna di colore, che spesso per “sposarsi bene” deve abbandonare la sua cultura. E non è raro che le donne non bianche subiscano un’oggettificazione da parte di uomini bianchi, che non le vedono come persone fatte e finite, bensì in virtù della loro etnia, degli stereotipi su ciò che una donna di colore ha da offrire sul piano sessuale.

Hai detto che Denver rappresenta lo spazio dove la creazione di una persona come te si rende possibile. Che rapporto hai con la tua città?
Dolceamaro, e sempre più complesso. Denver è a più di 1.600 metri di altitudine, su un altopiano di fronte alle Montagne Rocciose. È bella, l’aria è frizzante, il cielo gigante. Come dicevo, i miei antenati sono arrivati dal Colorado rurale negli anni 30, mentre il mio bisnonno era originario delle Filippine. Fu qui che misero radici, lavorando sodo, comprando casa. Ma questa città è anche il luogo in cui hanno dovuto fare i conti con la ferocia del razzismo e del classismo. La mia famiglia apparteneva a una specifica “casta” di lavoratori di Denver. Per molto tempo i quartieri dove abitavano i miei nonni sono stati considerati pericolosi e degradati, mentre adesso sono diventati di moda e i prezzi sono saliti alle stelle. Le case della mia bisnonna e della mia prozia non appartengono più alla famiglia. La gentrificazione e il conseguente abbandono di certe zone da parte di chi c’era prima sono causa di profonda tristezza. Ma questo territorio, e le persone che da generazioni chiamano Denver casa loro, sono il cuore e il carburante del mio lavoro. La Denver che amo è quella lì, e mi ha donato infinite storie.

Nel racconto “Galapago”, ambientato in quei quartieri (il titolo viene dal nome di una via, Galapago Street), c’è una frase incredibile, seppur brevissima, in cui dici che la luna era «una fessura di luce». A volte le frasi folgoranti generano associazioni mentali magiche: ho letto e ho pensato a Lucio Fontana, alla sua arte spaziale, al fatto che i detrattori vedessero le sue opere come semplici buchi e tagli, mentre nella sua mente là dietro c’era il cosmo. La tua frase, altrettanto semplicemente, ribalta la prospettiva; la luna diventa altro, una piccola fessura su qualcosa di più grande, che lascia filtrare la luce proveniente da quel posto. Una domanda arzigogolata per chiederti: quali sono le cose che la scrittura ti consente di vedere da una prospettiva totalmente diversa?
Ho cercato Lucio Fontana, che non conoscevo, e questo accostamento mi onora moltissimo. Che meraviglia, spero prima o poi di vedere una delle sue opere di persona. Quando scrivo cerco di esplorare in maniera radicale la coscienza di personaggi che spesso sono simili a me per temperamento e ambiente di provenienza. A volte però non ci somigliamo affatto. Scrivere narrativa mi ha costretta a pensare con maggiore spirito critico alle possibilità e ai limiti dell’empatia, a quanto e come possiamo avere effettivo accesso al dolore e alla gioia di qualcun altro. Quando scrivo di un personaggio, vedo con i suoi occhi, e capita che loro notino cose che da sola non sarei mai riuscita a immaginare.

Mi incuriosisce la tua fascinazione per le schiene. In “Cheesman Park” la protagonista vede la schiena della vicina attraverso una maglietta, e pensa: «quasi una formazione di ossa in volo». E in Ancora più a ovest, la schiena della madre ha un ruolo centrale in almeno una scena cardine, ed è un punto sul quale la figlia si concentra spesso.
Molto interessante, sai perché? Mi è già stata detta questa cosa della schiena: me lo fece notare la mia editor (Nicole Counts di One World, ndr), e fino ad allora non me n’ero accorta. Ci sono poi lettori che mi hanno detto che nomino molto i capelli e il collo. Non so bene perché nella scrittura certe parti del corpo saltino fuori più spesso e altre meno. Penso siano scelte del tutto inconsce. Da scrittrice vivo molto nella mia testa, ma a volte penso che la mia spinta narrativa funzioni nello stesso modo in cui io esisto all’interno del mio corpo.

Dici che la tua voce ti è stata donata dai tuoi antenati, e che tu sei solo «un veicolo che la trasporta». Quali sono gli aspetti della scrittura più naturali per il tuo veicolo, e quelli di contro su cui dovete lavorare di più?
Faccio lunghe camminate, e durante queste camminate mi piace pensare. Penso a immagini, persone, voci, e a battute divertenti che i miei personaggi potrebbero fare. Quell’aspetto della scrittura, quello che si svolge tutto nella mente, è molto piacevole per me. Invece fatico ad avere rigore e disciplina. Ci metto un bel po’ a sedermi alla scrivania e a cominciare a scrivere, anche se quando inizio vengo rapidamente catturata. Ho dovuto esercitarmi a lungo per padroneggiare il ritmo, la creazione di un arco narrativo, di una trama. Alla fine ho imparato ad amare anche questi aspetti, ma all’inizio è stata dura.

In “Tomi”, alla zia Nicole piace immaginarsi, un giorno, in un piccolo villaggio nel deserto del Colorado. Ci pensa spesso e questo pensiero le dà gioia. Quando ti immagini completamente felice, che cosa vedi?
Mi vedo scrittrice, in una casa che avrò comprato, da qualche parte nel deserto di roccia del Colorado, vicina alla famiglia e ai miei amici. Intorno a me ho tanti bei libri, quadri e cose belle. Le persone a cui voglio bene sono in salute, e la terra e le nostre comunità sono in via di guarigione.