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Milano e il senso della Fashion Week

Da Gucci a Prada, i designer a Milano si interrogano sul significato del disegnare abiti oggi.

di Silvia Schirinzi

La modella Ayesha Tan-Jones sulla passerella di Gucci, Milano. Foto di Jacopo Raule/Getty Images for Gucci

Se avete visto The Great Hack su Netflix, è molto probabile che vi siate ritrovati a pensare ai meccanismi che oggi regolano le elezioni nelle democrazie mondiali, al funzionamento della macchina del consenso o al futuro dei nativi digitali, che ancor prima dell’adolescenza avranno consegnato a motori di ricerca e social network (principalmente grazie ai loro genitori) una mole di dati tutt’altro che indifferente. Oppure, come chi scrive, potreste esservi appassionati allo stile sui generis di Brittany Kaiser, ex direttrice dello sviluppo aziendale per l’America di Cambridge Analytica, oggi attivista per il riconoscimento dei “data rights”, i diritti di tutti quei dati che, appunto, quotidianamente immettiamo su internet. Quando, un’ora prima della sfilata, è arrivata la nota stampa di Gucci – che domenica pomeriggio ha chiuso la prima settimana della moda milanese riformata dagli accordi sul calendario – il (mio) pensiero è andato agli stivali texani, ai cappelli a tesa larga e al bizzarro abbinamento di colori e fantasie di Miss Kaiser, che si spruzza Coco di Chanel nel taxi che la porta alla sua audizione di fronte al procuratore Robert Mueller – «Almeno profumo di buono», dice – personaggio indecifrabile anche più del suo predecessore nello scandalo, quel Christopher Wiley che oggi lavora per H&M e che nell’inchiesta del Guardian sembrava un dj berlinese pronto a rilasciare il suo album tecno, come immortalato dai meme.

Lo show di Alessandro Michele faceva infatti esplicito riferimento alla microfisica del potere di Michel Foucault, ovvero (semplificando moltissimo) a quei meccanismi del potere politico, intimamente connessi alla società formatasi dopo le grandi guerre del Novecento, che non si basano più sulla sovranità accentratrice, ma piuttosto su una rete complessa di poteri diffusi eppure convergenti, in grado di dispensare la vita al posto della morte. Si tratta, semplificando ancora, di quel sistema ramificato di sorveglianza, rafforzamento, controllo e organizzazione che oggi plasma le norme sociali cui gli individui sono chiamati a conformarsi: non più, come succedeva in passato, l’unilaterale “prelievo” da parte del sovrano assoluto, che aveva totale giurisdizione sui suoi sudditi, ma un complesso dispositivo di liberazione apparente, in cui l’uomo è schiavo del modello neo liberale (per Foucault, è homo oeconomicus prima ancora che soggetto di diritto). Non è la prima volta che la biopolitica compare sulla passerella di Michele: era già successo lo scorso febbraio con le celebri teste mozzate e il riferimento al Manifesto Cyborg di Donna Haraway. L’architetto del successo di Gucci è uno di quei designer che, per formazione e attitudine personali, si pone molte domande sul lavoro che fa e così i sessanta look in bianco che precedevano lo show vero e proprio, e che hanno sfilato con i modelli immobili su un nastro trasportatore, prendevano spunto dalle uniformi manicomiali, a simboleggiare le norme livellanti che ci vogliono tutti uguali, addomesticati, conformi. Seguiva la collezione, che come tutti i critici hanno notato era insolitamente sensuale, piena di spacchi e trasparenze soprattutto femminili, e anche insolitamente leggera rispetto alla consueta stratificazione congegnata da Michele.

La contraddizione è lapalissiana, e Michele lo sa bene: le sue note si interrogano infatti su quale sia il ruolo della moda, così perfettamente inserita in quella microfisica di poteri di sorveglianza e controllo, nella strada per la liberazione individuale. Siate sexy, ci suggerisce, allontanatevi dall’utilitarismo e riscoprite l’eccentricità della carne scoperta e non filtrata dal digitale, forse anche riabbracciate la differenza sessuale, una di quelle cose che Michele si è sempre impegnato a riscrivere, confondere, travestire, e abbracciate quella contraddizione, perché questo è il mondo in cui viviamo. Se ha un compito, un’utilità sociale, la moda deve allora «fare intravedere campi di possibilità, suggerire indizi e aperture, coltivare promesse di bellezza, offrire testimonianze e profezie, rendere sacra ogni forma di diversità, alimentare un’irrinunciabile capacità di autodeterminazione». Anche se rende uguali, anche se ci spinge a contribuire a un cerchio che altrimenti vorremmo spezzare: mai come in questa stagione i designer a Milano hanno riflettuto sul loro ruolo nel mondo. Lo ha fatto Miuccia Prada, che ha aperto la sua sfilata con un look castigato e monacale che era come sempre un’auto-citazione, alla stagione che ha creato il suo mito, ma anche un monito programmatico: la gonna in garza, tessuto che compare in tutta la collezione, anche questa manicomiale nel suo essere asettica, a testimoniare la voglia di meno (meno vestiti, meno spreco, meno connessioni) e poi le borse Insta-friendly, i secchielli che daranno filo da torcere a quei marchi che hanno costruito la loro fortuna sulla ripetizione idiotica dell’algoritmo, perché è sempre di Prada che stiamo parlando. Così il minimalismo riveduto e corretto da Paul Andrew per Ferragamo, da Daniel Lee per Bottega Veneta e da Simon Holloway per Agnona (che piacevole sorpresa), ritorna a quegli abiti da giorno che hanno reso gli italiani grandi nel mondo, e ci ricorda che i vestiti che si fanno a Milano si riconoscono perché hanno una morbidezza e una capacità di farsi desiderare tutta loro.

In mezzo ci sono tanti discorsi sulla sostenibilità, parola-mantra della settimana, sforzi nel congegnare show che siano portatori di messaggi consapevoli – uno (l’unico) che con il tema ambientale e del riciclo lavora bene: Francesco Risso da Marni – colpi di teatro come Jennifer Lopez da Versace e ritorni alla teatralità come Giorgio Armani al suo secondo show nell’intimità di Palazzo Orsini. Vanessa Friedman ha scritto sul New York Times che siamo vecchi, e che il più delle volte ci nascondiamo dietro all’heritage, al Dna e tutta quella roba lì, mentre Mattew Schneier di The Cut riportava su Twitter una battuta sentita alle sfilate: «Curioso che quando gli italiani pensano ai “giovani” perlopiù si riferiscono al 1975». Ed è vero, in parte, io ho riso. Ci sono i nomi di giovani da tenere d’occhio, però, come Act N.1, Calcaterra e Marco Rambaldi per citarne alcuni, e poi ci sono i big, che a questo giro hanno fatto un po’ come Brittany Kaiser, che a un certo punto si è tirata indietro, mettendo i texani in una busta e optando per un paio di ballerine nere, forse più adatte al suo nuovo ruolo. Si è conformata? O ha cercato un escamotage, come la modella non-binary Ayesha Tan-Jones che ha sfilato per Gucci, ma si è premurata di scriversi sulle mani “Mental Health Is Not Fashion” e su Instagram ha spiegato lungamente il suo gesto di “protesta”? Forse non aveva letto le note dello show, perché era esattamente quello il punto, o forse è tutto così surreale che non possiamo fare altro che ammirarlo da lontano, con o senza vestiti.