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A che servono i Golden Globes?

Dominati da Netflix e dalle polemiche, storicamente anticipano gli Oscar. E dopo un anno di pandemia cercano di trovare un nuovo senso.

di Studio

Michaela Coel in "I may destroy you", ignorato dai Golden Globes

Mentre le sale in moltissimi Paesi del mondo sono ancora chiuse, e seppur in ritardo sulla tradizionale tabella di marcia della cosiddetta “awards season”, ovvero la stagione dei premi cinematografici, si ritorna a parlare di Golden Globes e, in prospettiva, di Oscar. Ripensandoci, gli Oscar sono stati l’ultimo momento di normalità nella cultura pop prima che la pandemia si abbattesse su di noi, privandoci di concerti, festival e dell’esperienza di andare al cinema. Non abbiamo fatto in tempo a litigare sui sottotitoli di Parasite che, all’improvviso, le case di produzione si sono trovate nella condizione di far uscire tutti i loro film, blockbuster compresi, sulle piattaforme di streaming o a rimandarli a data da destinarsi. Non è un caso, perciò, che a dominare le nomination dei Golden Globes del 2021, che si terranno il 28 febbraio in diretta da Los Angeles con Amy Poehler e da New York con Tina Fey, sia stata proprio Netflix, che ancora una volta conferma lo strapotere di cui gode in un’industria che sta cercando di riconfigurarsi, tanto più dopo l’ultimo, difficile, anno.

Il colosso dello streaming ha infatti collezionato qualcosa come 42 nomination nelle categorie cinematografiche e televisive, grazie a Mank e The Trial of the Chicago 7 che sono entrambi in lizza come Miglior film drammatico, ma anche a The Queen’s Gambit e The Crown, rispettivamente nominati come Miglior miniserie e Miglior serie drammatica. È andata bene anche ad Amazon, che ha ottenuto 10 nomination tra cui Miglior commedia per il sequel di Borat; 10 anche le nomination di Hulu, che ha piazzato i suoi Palm Springs e Ramy. L’altra notizia degna di nota è che per la prima volta, e dopo le innumerevoli polemiche degli ultimi anni (come quella inscenata da Natalie Portman nel 2018, quando disse, al momento della premiazione, “Ecco i candidati, che sono tutti maschi”) la Hollywood Foreign Press Association ha nominato ben tre donne nella categoria Miglior regista. Si tratta di Chloe Zhao per Nomadland (Zhao è anche la prima regista di origine asiatica a ottenere il riconoscimento), Emerald Fennell per Promising Young Woman e Regina King per One Night in Miami. Se la vedranno con David Fincher e il suo già citato Mank, favoritissimo, e The Trial of the Chicago 7 di Aaron Sorkin. È la prima volta nella storia della manifestazione che più di una donna viene nominata nella categoria e, prima di quest’anno, solo in cinque avevano ottenuto la nomination: Barbra Streisand (nel 1984 per Yentl e nel 1991 per The Prince of Tides), Jane Campion (nel 1994 per The Piano), Sofia Coppola (nel 2004 per Lost in Translation), Kathryn Bigelow (nel 2010 per The Hurt Locker e nel 2013 per Zero Dark Thirty) e Ava DuVernay (nel 2015 per Selma). Nel 1977 Lina Wertmüller era stata nominata nella categoria Miglior film straniero per Pasqualino Settebellezze.

Nonostante lo sforzo di puntare i riflettori sulle registe lungamente ignorate dall’istituzione, però, non sono mancate le polemiche neanche questa volta. A dirla tutta, erano già iniziate prima ancora della pubblicazione della lista completa delle nomination: aveva fatto molto discutere, infatti, l’esclusione di Minari, il film diretto da Lee Isaac Chung e prodotto dalla A24 che racconta la storia di una famiglia di immigrati sudcoreani in America. Minari è stato infatti candidato nella categoria Miglior film straniero, nonostante il regista sia americano di origine coreana e il film sia stato interamente prodotto in America. Il motivo? Si parla più coreano che inglese: secondo le regole, infatti, per essere nominato nella categoria di Miglior film, almeno la metà dei dialoghi dev’essere in inglese. Poco male, comunque, dicono gli analisti: Minari è uno dei candidati probabili ai prossimi Oscar, che l’anno scorso hanno rotto gli indugi facendo vincere proprio un film sudcoreano come Parasite, inaugurando di fatto un nuovo modo di guardare (e incasellare) il cinema internazionale e quello hollywoodiano.

Un’altra snobbata è stata Michaela Coel e la sua bellissima I May Destroy You, per i critici una delle migliori serie del 2020: in molti sui social hanno ironizzato sulla sua assenza, e sulla contemporanea nomination di Emily in Paris che, beh, non è proprio un capolavoro, e di Ratched, che ha ottenuto recensioni mediocri. Travolti dallo streaming, privati dei red carpet e della solita fanfara che accompagna l’evento, ancora considerati un traguardo da raggiungere ma allo stesso tempo indicati come vestigia di un’epoca che non c’è più, i Golden Globes si avviano così alla loro prima volta senza pubblico e provano a ridisegnare quello che significano per il settore: operazione difficile, ancor di più in un anno in cui il film che ha incassato di più al botteghino è stato un colossal cinese.