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Parasite è un film populista?

Il nuovo film di Bong Joon-ho è un ibrido tra generi diversi basato sul concetto di lotta di classe.

di Jacopo Simonetti

Che a B Joon-ho premesse molto il concetto di lotta di classe si era già capito in Snowpiercer: l’umanità residua di un pianeta moribondo viaggiava su un treno diviso in compartimenti stagni, con gli abbienti spocchiosi impegnati in partite di bridge e i poveracci a fare da bassa manovalanza o da carburante. In Parasite cambia l’ambientazione, ma il contrasto è ugualmente netto: due famiglie, una occupa un seminterrato maleodorante negli slums, l’altra è orgogliosamente proprietaria di una villa grande come una città-stato, si incontrano quando il figlio della prima diventa tutor di inglese della figlia della seconda. Il trailer rivela quello che succede dopo, ma per una resa migliore sarebbe meglio presentarsi in sala digiuni di altre informazioni. È opportuno precisare che Parasite non è per tutti i palati. C’è chi soffre di un divario emotivo col cinema asiatico contemporaneo, che spesso tende a eccedere in direzioni opposte: i film di Koreeda e Hong Sang-soo possono risultare troppo garbati, quelli di Tsukamoto e Park Chan-woo troppo perversi. Bong Joon-ho eccede a sua volta volentieri: humour non finissimo, attori tendenti all’overacting, uso generoso di aorte perforate potrebbero costituire un problema. Superata questa soglia psicologica, armandoci di una buona dose di sospensione dell’incredulità, ci aspettano un paio d’ore di massimo godimento.

Bong Joon-ho è innanzitutto un campione di ibridazione tra generi. Dal teatro elisabettiano a Get Out di Jordan Peele abbiamo numerosi esempi di commedie che si evolvono in tragedia o in horror, ma si è sempre trattato di uno spostamento da un punto A a un punto B in un viaggio di sola andata. Le baruffe tra la famiglia Kim e la famiglia Park trascendono qualsiasi categoria: popolino e alta borghesia si scontrano prima sul terreno della commedia degli equivoci, che con il twist del seminterrato si fa dramma sociale, poi thriller e infine splatter. La prima parte è in sostanza una lunga seduta di stretching in cui, in un’atmosfera apparentemente serena, vengono disseminati tutti gli indizi della futura deflagrazione. Eppure il sostrato comico non ci abbandona mai, e anzi fa da collante durante tutto il crescendo: ridiamo a intervalli regolari prima, durante e dopo la carneficina, tant’è che probabilmente ricorderemo Parasite come black comedy, ma con un sovraccarico emozionale che ci farà uscire dal cinema con la labirintite, in lacrime e vogliosi di fare a botte, possibilmente con una persona molto benestante.

È davvero ora di parlare dell’elefante nella stanza: siamo davanti a un film populista? Sarebbe facilissimo rispondere che puntare alla pancia del pubblico ha garantito un successo universale a una vicenda dalla fortissima connotazione locale: lo spettatore occidentale faticherà a comprendere la dedizione dell’inquilino del seminterrato per il signor Park, l’impegno profuso dal signor Kim nella lettera in alfabeto morse e altri esempi di sensibilità asiatica, ma tutto sommato la rabbia verso il ricco funziona sempre, indipendentemente dal volksgeist. È la stessa famiglia Kim a lanciarci un amo mentre è impegnata a svuotare la dispensa del padrone: «anche io sarei gentile se avessi i soldi», dice mamma fagocitando chili di pregiatissimo controfiletto (boati di approvazione nelle sale dall’Alaska a Timbuktu), ma presto abbiamo una controprova di come si comporta il popolo in una posizione di vantaggio. Quando il proletariato incontra il sottoproletariato, la sua prima reazione è cercare di sfondargli la calotta cranica con una pietra ornamentale. Il pericolo di populismo sembra a questo punto scongiurato.

Ridendo e scherzando, Parasite non ha solo vinto l’ultimo Festival di Cannes, ma è anche la Palma d’oro di maggior successo al botteghino francese da anni, sta andando bene negli Usa dove è quotatissimo per l’Oscar al miglior film in lingua straniera e forse altri ancora, è saldamente nelle nostre sale grazie a un buon lavoro di word of mouth. Un successo meritatissimo per questa meravigliosa anomalia, che sfida i confini del Cinema mettendo d’accordo l’Academy, la Croisette e il grande pubblico, diverte e commuove, attrae e respinge, e ci ricorda di tornare a guardare verso Oriente.