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Elon Musk, come separare un genio dal suo account Twitter

È vero, ha un pessimo comportamento pubblico, ma questo non vuol dire che sia un fesso.

di Francesco Gerardi

Elon Musk fotografato il 15 Novembre 2016, a Los Angeles, California (Photo di William Callan/Contour by Getty Images)

Nel quarto episodio della seconda stagione di Star Trek: Discovery, il capitano Gabriel Lorca chiede all’ufficiale scientifico Paul Stamets come spera di essere ricordato nel futuro: «Al fianco dei fratelli Wright, di Elon Musk e di Zefram Cochrane? O come un esperto di funghi fallito? Un uomo piccolo ed egoista che ha dato più importanza al suo ego che alla vita altrui?». Lorca usa i nomi di grandi inventori del passato per fare una storia dell’esplorazione della frontiera: dai pionieri dell’aviazione all’inventore del motore a curvatura passando per… Hyperloop? Starlink? Falcon Heavy? Roadster? Tesla e SpaceX, in ogni caso. Elon Musk, quindi.

Elon Musk ha un rapporto privilegiato con la cultura pop: quattro anni fa, SkyNews gli dedicava un servizio intitolato “The real life Tony Stark who dreams of colonising Mars” e Bloomberg raccontava la storia di come fosse diventato «il vero Iron Man». Che l’accostamento con il genio, miliardario, playboy e filantropo del Marvel Cinematic Universe tocchi a lui e non ad altri capitani d’impresa della nostra epoca spiega il posto che Musk è riuscito ad occupare nell’immaginario collettivo: quel pantheon misto di fantasia e realtà in cui passano il tempo Leonardo da Vinci, Thomas Edison, Nikola Tesla, Q di 007, Eldon Tyrell di Blade Runner e Tom Swift di Appleton.

La buona considerazione di cui Musk ha goduto in questi anni (e la lusinghiera rappresentazione che i media ne hanno fatto) non si spiega solo con il genio, con la ricchezza e con la beneficenza. Jeff Bezos è l’uomo più ricco del mondo, sono vent’anni che con la Blue Origin si occupa di voli spaziali, progetta una colonizzazione della Luna a partire dal 2025, eppure tutto questo non gli è bastato per essere citato tra i pionieri dell’esplorazione spaziale in Star Trek (tra l’altro, la serie preferita del boss di Amazon). Bezos ha dovuto insistere con la produzione per ottenere un cameo di otto secondi e due parole nella prima stagione dello show. Bill Gates è il più grande filantropo del mondo da anni, eppure la cultura pop gli ha concesso solo il ruolo di capitalista malvagio così terrorizzato dalla concorrenza da arrivare a distruggere la CompuGlobalHyperMegaNet di Homer Simpson. Per essere raccontati come è stato raccontato Musk non basta inventare cose nuove, accumulare patrimoni personali grandi quanto il Pil di Paesi in via di sviluppo o donare miliardi in beneficenza ogni anno: bisogna «andare coraggiosamente là dove nessun uomo è andato prima». È questa la ragione per la quale Stephen Hawking è stato lo scienziato più amato e amorevolmente raccontato della storia. Per questa stessa ragione Musk ha esercitato un fascino così forte.

In una scelta del genere c’è un che di incosciente e ingenuo, di avventuroso e presuntuoso, di solitario e frustrante, tutti ingredienti di quel coraggio romanzesco di cui spesso vengono infarcite le biografie dei capitani d’industria. È una forma di eccentricità accettabile, persino ammirevole, una stranezza assai diversa da quelle alle quali ci hanno abituati i miliardari: non parliamo certo di uno squalo impagliato piazzato in mezzo al salotto come piace a Steve Cohen o di un figlio, fatto con una musicista misteriosa e avant-garde come Grimes, chiamato X Æ A-12 un nome che nessuno ha idea di come si pronunci (o anche solo se sia possibile farlo) e che probabilmente non può essere accettato all’anagrafe americana perché contiene caratteri che non appartengono alla lingua inglese. Queste sì che son cose da miliardari che hanno perso il contatto con la realtà.

Ma c’è anche altro: Musk è andato all’esplorazione della frontiera ed è tornato con delle risposte che ci sembravano familiari, come se stesse cercando di trovare soluzioni “condivise” a problemi universali, come se l’unica differenza tra la sua passione per Asimov e la nostra fosse che lui ha i mezzi (economici e intellettuali) per far diventare il mondo in cui viviamo simile a quello che sogniamo. Quale amante della fantascienza non si augura di essere ancora vivo quando andremo e verremo da Marte a bordo di auto spaziali, quale collezionista di Urania non sogna di pronunciare la frase “domani prendo l’Hyperloop Roma-Milano”?

Eppure l’idillio si è spezzato. Quando Musk ha cominciato a mostrare i tratti dell’uomo qualunque, quell’aura mitica che circonda tutti i pionieri, gli esploratori, gli inventori ha cominciato a sbiadire. La kalokagathìa è un rimasuglio di mondo antico dal quale facciamo fatica a liberarci: i nostri eroi devono essere perfetti moralmente e fisicamente, giovani e belli, non possono concedersi nessuno dei difetti e delle mancanze, delle brutture e delle preoccupazioni in cui noialtri sguazziamo dall’alba al tramonto. Nessuno immagina che Iron Man, uno che ha salvato la Terra da alieni conquistatori e robot impazziti, abbia problemi a garantire la sicurezza sul lavoro ai dipendenti delle Stark Industries: che razza di supereroe sarebbe? Così, quando nel 2018 i media iniziano a raccontare degli infortuni nello stabilimento Tesla di Fremont e dei tentativi dell’azienda di nascondere il problema, un pezzo del mito di Elon Musk cade: a salvare il pianeta e l’umanità non sarà certo uno che non riesce a tenere in ordine una fabbrica, un problema così drammaticamente normale.

Non che il mito a questo punto fosse distrutto, solo un po’ scalfito, danneggiato appena. Ma mai come in quest’epoca abbiamo avuto tempo e mezzi in abbondanza per renderci ridicoli: prima o poi tocca a tutti un quarto d’ora da scemo del villaggio e spesso e volentieri si ha la sensazione di abitare in un villaggio di scemi nel quale hanno residenza persino quelli che in tempi antichi saremmo stati contenti di considerare migliori. Se c’è una verità che i social network ci hanno mostrato è quanto si assomiglino le persone che mitizziamo con quelle che disprezziamo: spesso tutta la differenza sta nel fatto che le prime ci siamo limitati a immaginarcele in una certa maniera e le seconde ci siamo invece presi il disturbo di conoscerle meglio. Uno dei problemi recenti di Elon Musk è stato proprio questo: per sua stessa dichiarazione è innamorato di Twitter e tramite Twitter si è fatto conoscere. Musk non è abituato a delegare, delle sue aziende è amministratore delegato, capo ingegnere, capo designer, megadirettore galattico. Non è abituato a considerarsi non all’altezza di una sfida: è un programmatore autodidatta che a 12 anni guadagnò i suoi primi 500 dollari vendendo un codice da lui scritto. Ma imparare un linguaggio di programmazione a 12 anni senza l’aiuto di nessuno è più facile che evitare di sembrare cretini sui social. Gestire un’industria aerospaziale tutta da solo è meno impegnativo che mantenere una buona reputazione su Twitter.

Se oggi sono in tanti a considerare Musk “an asshole” è perché grazie ai social abbiamo realizzato il sogno di avvicinarci ai nostri eroi, ci è stato concesso il privilegio di osservarli da vicino, tutto il tempo, tutti i giorni. E abbiamo assistito all’uomo che nel titolo della sua biografia ci ricorda che la sua missione è condurci verso un «fantastico futuro» cascare nei tranelli radiofonici di Joe Rogan come un ospite qualsiasi de La Zanzara. Abbiamo visto l’uomo che più di tutti aveva incarnato quell’idea messianica del visionario della Silicon Valley battibeccare con Azaelia Banks, manco fosse il Kanye West (un altro che ormai sembra impantanato nella fase “solito stronzo” dell’esistenza) inviperito con Taylor Swift. Abbiamo scoperto che l’uomo considerato il tratto d’unione tra i fratelli Wright e Zefram Cochrane ha finito per diventare un meme. Colpo di grazia, abbiamo visto “the smartest man on Earth” condividere l’hashtag trumpiano #FreeAmerica per protestare contro il lockdown imposto per limitare la diffusione del coronavirus, lo abbiamo visto violare le disposizioni della contea di Alameda e riaprire lo stabilimento Tesla di Fremont al melodrammatico grido di «se dovete arrestare qualcuno, arrestate me», lo abbiamo visto commentare il video di un intervento parlamentare in cui Vittorio Sgarbi sosteneva che il numero dei morti a causa della Covid-19 è gonfiato con un laconico «ha ragione».

Tutto questo ci ha costretto a pensare a Snakes in Suits, libro in cui si tenta di stabilire una percentuale di ceo affetti da psicopatia, perché un disturbo della personalità era l’unica spiegazione possibile per tenere assieme l’Elon Musk di prima e quello di adesso. Non siamo riusciti ad accettare il fatto che Elon Musk sia un uomo del suo tempo, del nostro tempo, molto più di quanto le sue imprese futuristiche ci avessero fatto pensare: un prototipo di imprenditore nuovo, un esperimento solo parzialmente riuscito e ancora in corso, un miscuglio di genio inventivo che viene dal passato, quindi idealizzato, quindi eterno, e di metodi di comunicazione/rappresentazione moderni, perciò imperfetti, perciò, spesso, incomprensibili, talvolta insopportabili. Forse ha ragione chi dice semplicemente che Musk è entrambe le cose: un inventore geniale e un pessimo twittatore.