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I disturbi del linguaggio della campagna elettorale

La comunicazione di leader e partiti è stata caratterizzata dal ritorno di slogan piuttosto triti e da tentativi di innovazione che hanno prodotto meme a profusione.

di Andrea Beltrama

Foto di Andreas Solaro/AFP via Getty Images

Il silenzio elettorale, finalmente. Il segnale che invita a smettere definitivamente di pensare ai contenuti, e a concentrarsi sui dettagli. È tempo di vivisezionare sorrisi, battute, sguardi delle ultime settimane. E di lanciarsi in analisi di psicologia sociale – a volte fondate, a volte meno – per capire quanto una frase abbia spostato il destino delle elezioni. In attesa di una risposta, e preparandoci a sentire tutto e il contrario di tutto in merito, resta però una sensazione generale: a questo giro, il registro linguistico che ha accompagnato la campagna elettorale è stato sorprendentemente omogeneo. Non solo per l’eterno ritorno degli stanchi proclami, tra cui le minacce di lasciare il Paese che dai primi anni del berlusconismo accompagnano l’avvicinamento a qualsiasi elezione. Ma soprattutto perché, da destra a sinistra, si è assistito all’acutizzarsi di un fenomeno: il parlare, e ragionare, per mezzo di alternative categoriche, vicendevolmente esclusive. Con conseguenze importanti sul modo in cui ci relazioniamo con chi ci circonda, anche quando non parliamo di politica.

Il discorso politico delle ultime settimane porta in dote un’infinita sfilza di dicotomie. Sicurezza contro immigrazione; guerra contro pace; coscienza ecologica contro negazionismo; la triade mascherina-green pass-vaccino contro la triade no-mask-no-pass-no-vax; Europa contro Putin. Fino all’ultimo tormentone, un vecchio adagio tornato brevemente di attualità: il voto utile contro quello sprecato. Da un lato, non c’è nulla di strano: segmentare la realtà sotto forma di alternative binarie è, per definizione, lo schema cognitivo di ogni campagna elettorale. Un evento il cui termine naturale consiste del resto nell’esprimere una scelta tra un un numero limitato di opzioni. Dall’altro, questo modo di descrivere le cose, e di relazionarsi con gli elettori, ha toccato vette mai viste prima. Un fenomeno esemplificato alla perfezione dalla campagna #Scegli del Pd, in cui ogni tema chiave del programma elettorale è stato riproposto sotto la veste di due opzioni mutuamente esclusive – una delle quali chiaramente messa in evidenza rispetto all’altra. A risaltare non è stata certo la natura dei suggerimenti, piuttosto prevedibili, quanto la scelta di presentarli così: sotto forma di scelte talmente vaste nella loro portata da coprire, graficamente ma pure concettualmente, tutto lo spazio disponibile. Proprio come facciamo come quando qualcuno tentenna, e noi gli chiediamo “ma allora ci sei o no?”, producendo quello che i linguisti chiamano cornering effect – la mossa di farti una domanda che ti mette all’angolo, e ti costringe a rispondere.

La strategia del Pd ha scatenato meme a profusione: inizialmente divertenti, in un secondo tempo decisamente meno. Soprattutto, però, ha fatto capire come anche la sinistra progressista – almeno sulla carta, la parte politica che si è sempre presentata come nemica delle semplificazioni – abbia deciso di abbracciare uno stile più categorico. Un approccio che da un lato ha dato l’impressione che Letta abbia voluto inseguire la destra e i 5 Stelle su uno dei loro terreni di caccia preferiti: quello di presentare contenuti digeribili, sintetici, quasi sempre riassumibili in parole chiave, più che in frasi complete. Dall’altro ha invocato una vaga somiglianza con lo stile tipico delle campagne elettorali americane. Dove storicamente lo scontro tra le parti politiche in gioco si snoda attorno a una concatenazione di argomenti fissi, che riassumono i temi su cui i due schieramenti hanno vedute opposte: sanità, aborto, tasse, immigrazione, e ora la crisi climatica. Facendo sì che anche i democratici spesso finiscano con il proporre messaggi elettorali che sembrano elenchi della spesa, più che prospettive articolate – un approccio peraltro criticato dai progressisti stessi, come fatto dal linguista George Lakoff nel celebre libro Don’t think of an elephant. Per vari motivi, la realtà politica italiana rimane troppo complessa per poter essere presentata in questo modo, con buona pace delle vignette di Letta. Al tempo stesso, però, la campagna del Pd ha mostrato un’inedita predisposizione a tagliare la realtà con l’accetta: una scelta sicuramente strategica, ma pure figlia di un’epoca storica particolare, in cui una serie di eventi traumatici ci ha costretto a prendere posizioni nette, e con forti implicazioni ideologiche, su temi che mai avremmo potuto immaginare. E da ben prima della caduta del governo Draghi.

A partire dalle sbarco del Covid, da cui sembra ormai passato un secolo, rimane infatti l’impressione di essere costantemente messi di fronte a scelte binarie. Che hanno trasformato, nostro malgrado, ogni comportamento in un indiretto segno di appartenenza, prontamente interpretabile a livello pubblico. Il fenomeno è emerso con grande chiarezza negli Stati Uniti, in concomitanza con l’avvento delle mascherine: una precauzione sanitaria sulla carta al di sopra di ogni sospetto. E che però, in un contesto politico in cui il Presidente della nazione ha essenzialmente messo in discussione l’esistenza stessa della pandemia, si è vista attribuire una connotazione fortemente politica. Facendo sì che, tra le altre cose, i conservatori rispolverassero termini come virtue signaling. Un’espressione che identifica chi si premura di mostrare la propria rettitudine in maniera indiretta, sottile: con gesti apparentemente routinari, e che invece, agli occhi degli avversari politici, tradiscono prese di posizione più profonde. Come appunto la mossa di indossare una mascherina in pubblico, vista da molti conservatori come uno sbandieramento di coscienza progressista, e capace di spingere qualcuno ad appioppare alle mascherine stesse l’etichetta di “virtue signaling device”, con surreale merchandising annesso.

Se in Italia la pandemia è stata affrontata con spirito decisamente più maturo, le conseguenze degli eventi traumatici degli ultimi mesi si sono fatte prontamente sentire. Sbattendoci in faccia categorie di scelta vecchie e nuove – il gas, la guerra, la siccità – e senza nemmeno darci il tempo di pensare. La conseguenza, oltre a un senso di spossatezza generale, è stata anche un pronto adattamento del nostro modo di comunicare. Ad esempio, si è visto il ritorno su larga scala del termine atlantismo, diventato una sorta di condizione necessaria per la presentabilità di un programma elettorale. E si è assistito alla bizzarra evoluzione di aggettivi come complesso o pacifista, ora spesso re-interpretati come un indice di sospetta ambivalenza: come succede a chi, appellandosi appunto a questi concetti, si rifiuta di offrire sostegno incondizionato alla causa ucraina, e finisce per essere additato come sostenitore della parte opposta. Persino i ghiacciai, una delle cose più distanti dalla civiltà, hanno fatto irruzione nel nostro universo simbolico, assieme al fango che hanno riversato nei fiumi. Trasformando argomenti tipicamente ristretti a una cerchia di specialisti – alpinisti, escursionisti, pescatori – in questioni di dominio pubblico, che richiedono una reazione da parte nostra: anche solo un veh ma che tristezza tipico delle valli alpine, proferito dopo una rapida occhiata alle cime una volta bianche, e ormai completamente prosciugate. Poche, stanche parole per dire che sì, anche su questo una posizione l’abbiamo presa, e ci mancherebbe altro. Ma, come forse anche per le elezioni, ne avremmo fatto volentieri a meno.