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Cosa non va nella classifica dei World’s 50 Best Restaurants

Ogni anno il mensile britannico Restaurant pubblica una classifica dalla denominazione inequivocabile: World’s 50 Best Restaurants. La lista si basa sul voto di chef, ristoratori e critici gastronomici di ogni latitudine ed è considerata il più importante riconoscimento del settore “fine dining” internazionale. L’anno scorso, com’è noto, ha vinto l’Osteria Francescana di Massimo Bottura (a cui abbiamo dedicato la storia di copertina del numero 28 di Studio), che quest’anno è giunta seconda, lasciando la prima posizione all’Eleven Madison Park di Manhattan. Da anni, tuttavia, la classifica è oggetto di critiche e controversie: in molti vedono nella sua iper-rappresentazione di chef uomini e bianchi un problema, e la mancanza generale di differenziazione geografica, ovvero la mancata inclusione di tradizioni culinarie extra-occidentali, ha attirato commenti negativi sull’iniziativa.

Come Lauren Collins notava in un pezzo uscito sul New Yorker nel 2015, la lista ha debuttato nel 2002 come una sorta di capriccio promozionale, e i suoi stessi autori si aspettavano che fosse «un espediente irreplicabile». Da allora, tuttavia, World’s 50 Best Restaurants non ha saputo rinnovarsi granché: ai suoi critici ha risposto inaugurando un premio Best Female Chef, di cui però di norma la vincitrice non rientra, paradossalmente, nella top 50 della classifica principale; quest’anno la lista include soltanto tre chef di sesso femminile, e tutte alle dipendenze di un uomo. E, nota Gq, manca di inserire un ristorante basato in India, o nell’intero continente africano.

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Lo stesso Gq, peraltro, offre una motivazione per screditare World’s 50 Best Restaurants: «Ciò che vogliamo oggi, da persone che mangiano esplorando e avventurandosi in luoghi nuovi, è molto diverso da ciò che volevamo quindici anni fa». Oggi abbiamo TripAdvisor, abbiamo Instagram, abbiamo Yelp, abbiamo scoperto lo street food: il ristorante di lusso di tipo europeo non è più l’inizio e la fine del mangiar bene. Ha senso commentare una classifica che non tiene conto di molti – forse la maggior parte – dei ristoranti in cui mangiamo durante l’anno, dei cinesi, dei vietnamiti, degli israeliani, degli iraniani?

Eater, dal canto suo, si è trovato così a disagio a dover parlare, ancora, di World’s 50 Best Restaurants, da aver pubblicato una specie di excusatio: “Why We Continue to Cover the World’s 50 Best Restaurants List”. La risposta, in breve, è: perché, pur nella sua prospettiva ipersnob ed eurocentrica, la rivista Restaurant continua a pubblicare la classifica che interessa tanto ai lettori e agli appassionati quanto agli addetti ai lavori del settore, che ne traggono indicazioni sugli ultimi trend dell’haute cuisine (ad esempio, se a conquistare sono le verdure a chilometro zero di Noma o il grandeur e l’ospitalità di Eleven Madison Park).

Nelle immagini: in testata interni di Eleven Madison Park, nel testo un piatto del ristorante di Manhattan