Attualità
Cos’è il Post, spiegato bene
Abbiamo trascorso una mattinata di gennaio nella redazione del quotidiano online e fatto due chiacchiere col direttore Luca Sofri. Una storia che parla di orsetti gommosi e fact-checking, di spiegoni e "ditini alzati". Da Studio n.22.
Luca Sofri e due redattori del Post
All’interno dell’ultimo numero di Studio, il n. 22, che trovate in edicola e su iPad, c’è uno speciale dedicato ai quotidiani italiani. Oltre alle interviste a Ferruccio de Bortoli, Ezio Mauro e Giuliano Ferrara, trovate anche un reportage fotografico dalla redazione della Stampa e un’infografica su come nasce una prima pagina del Sole24Ore. Infine, c’è questo reportage dalla redazione del Post. Buona lettura.
Milano, 9 gennaio –
Fa un po’ troppo caldo e la stanza è immersa nella penombra. Dalla parete a vetro che dà sul Parco Sempione filtra una luce insistente, ma la serranda è abbassata – «per evitare il riflesso sui monitor», mi spiegano. Il silenzio è un po’ inusuale per la sede di un giornale – i redattori si scambiano le informazioni su Skype, scoprirò più tardi – e sull’unico tavolo, piuttosto spazioso, in condivisione, noto un sacchetto di orsetti gommosi e una confezione di cioccolatini al caffè. Sembra tutto molto ovattato e gradevole.
Sono dentro la sede de Il Post, in via Bertani, a Milano. È una tranquilla mattina di gennaio, che nel giro di poche ore diventerà una delle giornate più concitate, e spaventose, della storia recente.
Attorno al tavolo degli orsetti gommosi ci saranno sei, sette redattori. Tutti hanno lo smartphone vicino al portatile, nessuno guarda lo smartphone. Appeso con lo scotch alla parete, un foglio in formato A4 ricorda a tutti che «larghezza foto in evidenza è 640 pixel». Dal mio telefono do un’occhiata alla pagina del Post, mentre i browser dei redattori sono aperti sulla sezione admin: tutti stanno facendo tutto, senza apparenti divisioni di compiti o gerarchie. Chi cerca foto, chi aggiorna un post, chi prova a capire a che ora è la tale conferenza stampa, chi si offre di fare il caffè, «ditemi se lo volete sbrodolato». Il direttore non fa eccezione: «Hai messo tu la vignetta di Guy Delisle?», chiede a una ragazza, «ok, allora la metto io».
Gli “spiegoni del Post” sono diventati un genere giornalistico a sé stante. Una formula Google-friendly, che ha il pregio di saper tenere informato anche chi non si informa regolarmente
La homepage del Post è ancora quasi interamente dedicata ai fatti di due giorni prima, roba grossa, la sparatoria al Charlie Hebdo, ma la discussione tra i redattori è incentrata sulle voci, che si stanno spargendo proprio in quel momento sul web, sulla presunta morte di Fidel Castro. «A me ‘sta storia non torna», dice qualcuno, «la notizia è cominciata a girare quando da loro erano le sei del mattino, pare strano», aggiunge un altro senza alzare gli occhi dallo schermo, «un paio di giorni fa è morto il capo dell’opposizione in Kenya, che si chiama Fidel Castro pure lui [“Fidel Castro Odinga”, dove Fidel Castro è il nome di battesimo, in realtà è il figlio del leader dell’opposizione ed ex premier Raila Odinga, NdA]», ipotizza un terzo. «Chi dà la notizia?», «Il Corriere che riprende un giornale cubano». «Quale giornale cubano?, verificare». «In realtà un giornale di Miami vicino all’opposizione cubana». «Ok, vediamo». Da quello scambio di battute sarebbe nato un post, “La non morte di Fidel Castro”, che spiega il cortocircuito mediatico sul come una notizia falsa sia rimbalzata su molti siti d’informazione italiani, complice «l’accuratezza attribuita al Corriere della Sera», e che, per come la vedo io, è molto rappresentativo di che cosa sia Il Post. E, come effetto secondario, di come sia percepito nel mondo giornalistico.
Il Post – primo punto – spiega. Ogni suo pezzo articola, o se non altro si sforza di farlo, fatti e interpretazioni in modo fruibile e puntuale. Tutto è molto chiaro, le opinioni sono separate dagli eventi, c’è sempre un riassunto delle puntate precedenti. Gli “spiegoni del Post” sono diventati un genere giornalistico a sé stante, al punto che si trova in giro pure qualche parodia. Una formula Google-friendly, che sembra fatta apposta per intercettare le domande sui motori di ricerca da parte di chi vuole capirci qualcosa, e che ha il pregio di saper tenere informato su quello che succede in Italia e nel mondo anche chi non si informa regolarmente («dai giornali non si capisce mai di cosa si parla, se non hai già seguito la vicenda» è una delle lamentele che sento più spesso da alcuni conoscenti disinnamorati della stampa, persone istruite e non necessariamente under-40. Ecco, a questo problema Il Post offre una soluzione).
Secondo, Il Post verifica, è attento. Pare una cosa un po’ scontata, ma non lo è, almeno non del tutto, vista la faciloneria con cui talvolta – ma non sempre – si vedono rimbalzare notizie non verificate sulla stampa italiana. Sulla questione vado coi piedi di piombo, con questi «non del tutto» e «ma non sempre», perché a volte, e a dire il vero più tra i fan del Post che tra i suoi redattori, ho come l’impressione che si sia diffusa una percezione errata secondo cui quella di verificare le cose, il famoso «fact-cheking che fanno nei giornali anglosassoni», sia una cosa mai vista prima in Italia, che fanno solo Il Post e pochi altri (dal canto mio, mi è capitato di lavorare per giornali italiani dove il fact-checking era scrupolosissimo e per testate anglosassoni dove si faceva solo quando faceva comodo, nonché viceversa).
Sono quelli “col ditino alzato”, quelli che fanno le pulci agli altri – cosa che, specie in un ambiente permaloso come lo è quello del giornalismo italiano, suscita qualche antipatia.
Il che ci porta al terzo punto: Il Post pizzica spesso le altre testate, anche i grandi quotidiani generalisti, se non soprattutto loro. Sono quelli “col ditino alzato”, quelli che fanno le pulci agli altri – cosa che, specie in un ambiente permaloso come lo è quello del giornalismo italiano, suscita qualche antipatia.
Sta di fatto che quando si tratta di verificare le fonti e drizzare le antenne davanti a notizie che “non tornano” la squadra del Post è molto ferrata – e il risultato, lo dico da lettrice, si vede. In fondo, realizzo, è solo una questione di buon senso e di onestà intellettuale.
Non avendo reporter sul campo, né, di conseguenza, notizie di prima mano, è evidente che il vostro rapporto con la realtà dipende dagli altri, che di qualcuno dovrete pur fidarvi, che riportate la notizia X perché l’ha detto Y, faccio notare al direttore Luca Sofri. E se invece di un piccolo giornale di Miami il Corriere avesse citato il Wall Street Journal?, gli chiedo. Avrei verificato l’articolo del Wall Street Journal e controllato in quanti altri l’hanno ripreso, risponde.
Sarà anche per questo che Il Post, fondato nel 2010 dallo stesso Sofri, nel giro di qualche anno si è imposto come il sito di informazione per una certa categoria di italiani che s’informano parecchio e s’informano prevalentemente su Internet. Stando all’ultima rilevazione AudiWeb, che risale al novembre del 2014, in un giorno medio circa 283 mila visitatori unici passano dal Post – per farci un’idea, Linkiesta ha circa 23 mila visitatori unici al giorno, l’Huffington italiano circa 195 mila.
Ispirato, Slate, Salon e The Daily Beast, «ma più che altro Slate» si è imposto come il sito di informazione per una certa categoria di italiani che s’informano parecchio e s’informano prevalentemente su Internet
Nonostante il successo di pubblico, Il Post, che vive solo di pubblicità e, soprattutto, del denaro degli investitori (Banzai è il socio principale), è ancora leggermente in perdita: «Ma nel 2015 dovremmo raggiungere il break-even», mi dice Sofri.
Arriva l’ora di pranzo, l’una spaccata, ché qui si fanno orari milanesi. Si decide per il take away giapponese e il direttore si offre di andare lui a prendere il cibo. Un po’ per fare due chiacchiere, un po’ per sentirmi utile dopo una mattinata passata guardando gli altri che lavorano, lo accompagno. Lungo il tragitto mi racconta un po’ com’è nata l’idea, «volevamo fare un sito d’informazione generalista fatto bene, tutto qui», quali erano i modelli a cui si era ispirato, Slate, Salon, The Daily Beast, «ma più che altro Slate», l’Huffington Post americano, «anche se non ci consideriamo un aggregatore, e comunque la distinzione tra produzione e aggregazione è sempre più sottile», eccetera.
Quando torniamo, con tre borse piene di uramaki e salse di soia, l’atmosfera è completamente cambiata. La Tv è sintonizzata su France24, le facce tese: c’è un nuovo attentato a Parigi, in corso adesso, forse ci sono ostaggi, ancora non si capisce bene. Capiamo tutti però che è una cosa grossa. Decido di lasciarli lavorare, anzi, devo lavorare anche io. Mentre li saluto, penso tra me e me che nessuno si filerà più la finta morte di Fidel Castro.
Sbagliavo.