Attualità

Je ne regrette rien

I primi diciannove anni del Foglio, quotidiano anomalo, odiatissimo o amatissimo, con peculiarità però uniche nel panorama italiano: li racconta Giuliano Ferrara, fondatore e da pochi giorni ex direttore. Dal nuovo numero di Studio.

di Federico Sarica

Pubblichiamo il primo contenuto estratto dal numero 22 di Studio, che trovate da oggi in edicola e sulla nostra applicazione per iPad. Per avere tutti i nostri numeri abbonatevi, è conveniente.

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Quando, a seguito di una richiesta d’intervista, Giuliano Ferrara mi propone gentilmente di accompagnarlo a colazione da Checco er carrettiere, tradizionale sede di rifocillamento trasteverina e fogliante, non so ancora che da lì a poco avrebbe annunciato in diretta televisiva la sua decisione di lasciare la direzione del Foglio al trentaduenne redattore capo nonché riconosciuto cronista politico Claudio Cerasa (avvertimento: Cerasa è firma di Studio da circa tre anni e chi scrive collabora sporadicamente ma con passione al Foglio da almeno cinque). Non lo so e non lo immagino, almeno non nell’immediato, anche se successivamente, leggendo la parte finale de Il Royal Baby, il pamphlet pubblicato a gennaio da Rizzoli che Ferrara ha dedicato a Renzi e dove il fondatore del Foglio alla fine scrive cose come: «Io sono uno dei soliti noti. Bisogna togliergli l’Italia, dice Renzi. Ha ragione, mi dico», qualche dubbio a proposito è poi venuto.

L’idea originale è semplicemente quella di conversare con lui in occasione dell’entrata nel ventesimo anno di età di un giornale, Il Foglio appunto, davvero peculiare nella storia della nostra editoria, qualsiasi sia l’opinione di ciascuno a riguardo; un foglio diverso già nell’estetica, un secondo giornale, una pubblicazione quotidiana la quale, partendo da una propria nicchia autorevole e rilevante, lavora sul gusto di iniettare sangue altro nelle vene del dibattito pubblico, abbia esso specifici contenuti politici e culturali o genericamente pop. Un divertissement, certo fortemente connotato dai grandi amori del suo direttore – il cavaliere di Arcore e il papa tedesco, per citarne due vistosi e non eludibili – ma fondamentalmente libero, qualunque cosa questo voglia poi dire. Vent’anni di un piccolo grande giornale, molto amato e altrettanto odiato, diversamente berlusconiano ma sempre politicamente largo, legato in modo cinico ma giocoso alla propria elastica comunità di lettori, foriero di opportunità e soddisfazione professionale per talenti giornalistici e letterari, vecchi e nuovi.

L’intenzione della colazione con Ferrara era appunto il racconto parziale e a sprazzi di tutto questo, per bocca del suo ideatore. Racconto che a questo punto, vista la decisione dell’elefantino (il nom de plume di Ferrara), val la pena di leggere in controluce anche come una sorta di bilancio di quanto fatto in questa prima lunga fase del giornale, dalla fondazione a oggi, oltre che per cercare di intuirne il futuro. Partiamo dalle origini, ovviamente. «Io e le altre persone che con me hanno fondato il Foglio, nel gennaio del 1996, avevamo tratti comuni: tutti imparentati con questioni di giornalismo e politica, prevalentemente con una storia di sinistra o comunque in qualche modo radicata in un rapporto col vecchio Partito comunista. E già questo fa capire come avessimo in mente un giornale non organico, che esprimesse una tendenza più che una linea. Il criterio era fare l’opposto di quello che c’era sul mercato editoriale: i giornali allora tendevano al gigantismo e noi volevamo farne uno di non più di quattro pagine; i giornali tendevano alla semplificazione – all’epoca la corsa era sulla Tv – e rincorrevano le notizie mentre a noi le notizie interessavano solo quando entravano in una griglia di interpretabilità e solo nella misura in cui ci permettessero di fare il surf, cioè di scrivere analisi informate sui fatti e di approfondire. Anche graficamente il criterio era lo stesso, e quindi per esempio titoli lunghi mentre tutti li accorciavano. Copiammo praticamente il layout del Wall Street Journal di allora, soprattutto per la prima e la terza pagina, quella degli editoriali. Ah, e poi le firme: gli altri giornali erano il trionfo del nome e dell’individualità, Il Foglio quindi sarebbe uscito senza firme, salvo che per gli interventi esterni».

L’idea di giornale era insomma chiarissima, c’è da chiedersi se Ferrara & co avessero in mente anche una tipologia di lettori. Sì e no, è la risposta: «Pensa che a un certo punto ci convinsero anche a fare dei focus group, da cui notoriamente non esce mai un cazzo, per capire che tipo di lettori cercare. Alla fine ci dicemmo: facciamo al meglio il giornale che piacerebbe a noi trovare in edicola e vediamo se c’è qualcun altro; ovviamente eravamo disponibili a chiudere in caso non avesse funzionato». Niente linea editoriale quindi, «siamo, credo, l’unica pubblicazione d’Europa che è partita senza nessuna dichiarazione d’intenti; se tu prendi il primo numero non c’è scritto chi siamo e cosa vogliamo, e tutte quelle balle lì», però due punti fermi iniziali: Milano come sede e il fenomeno Berlusconi come mondo di riferimento, mi sembra di capire. «Io volevo farlo a tutti i costi a Milano: era il momento magico di Berlusconi, sebbene fosse caduto da un anno circa il suo primo governo, Milano era un sole. Volevo farlo lì anche perché a Roma sarebbe stato un giornale attirato nell’orbita politica e ministeriale, non dimenticare che io ero anche stato ministro. Milano, luogo di editoria per altro, da questo punto di vista la trovavo una città più seria».

«Siamo, credo, l’unica pubblicazione d’Europa che è partita senza nessuna dichiarazione d’intenti; se tu prendi il primo numero non c’è scritto chi siamo e cosa vogliamo, e tutte quelle balle lì».

E Berlusconi in tutto questo? «Il debutto andò bene, tant’è che dopo un mese Berlusconi mi chiamò e, dopo avermi fatto avere inizialmente finanziamenti non proprio da personalità di primo piano, mi disse che aveva trovato l’editore giusto: sua moglie. Inizialmente pensai: ahia, la moglie di Berlusconi. Ma poi mi sono detto: ma sì, che mi frega, tanto noi sappiamo cosa vogliamo fare. La moglie di Berlusconi? Perché no, chi se ne importa di cosa diranno tutti. Ovviamente, per inciso, appena la moglie di Berlusconi diventò Anita Garibaldi (si riferisce alla lettera di Veronica Lario a Repubblica e alla seguente separazione fra i due, ndr) smisero di dire che era il giornale della moglie di Berlusconi».

Veronica a parte, richiedo a Ferrara quale fosse esattamente all’epoca il rapporto fra lui, la sua idea di giornale diverso e Berlusconi. «Il Cavaliere ci ha dato una grande mano, ma i conti dimostrano che, più che stare sotto la sua protezione materiale, Il Foglio ha giovato di un suo aiuto amichevole; non ci fossero state le sovvenzioni pubbliche il giornale avrebbe chiuso nel giro di poco. Per noi Berlusconi era soprattutto un fatto culturale e politico; era la grande novità della vita civile italiana e andava raccontato. Al di là delle cosiddette appartenenze, il gusto era quello di fare un giornale che stesse nell’Italia che tutti combattevano, quella invisa all’anti berlusconismo militante, e lì abbiamo trovato un grande spazio. In più è stato un giornale che si è occupato di tante altre cose importanti: Israele, lo scontro di civiltà. Noi avevamo un rubrica sull’Islam molto prima dell’undici settembre e ricordo che, a nostra gloria imperitura, proprio quel giorno del 2001, e non dal giorno dopo, sul Foglio c’era una spalla su Osama Bin Laden, l’uomo che gli americani volevano morto». In più poi c’era tutta la parte culturale, fondamentale. «Certo. Qualcuno che in Italia parlasse male di Benigni ci voleva, qualcuno che decostruisse tutta quella tendenza alla correttezza politica». E qui Ferrara ricorda le grandi campagne culturali, come quella gustosissima sullo scrittore Mordecai Richler e il suo capolavoro, La versione di Barney.

Fra una pietanza e l’altra, il discorso scivola in maniera abbastanza naturale sull’evoluzione del Foglio negli anni. L’elefantino tiene molto a un punto: «Il giornale è stato negli anni trasformato in meglio dai ragazzi che sono entrati e hanno avuto un grande slancio verso il digitale. Francamente, per una piccola redazione non ricca, senza inviati, è stato un gran vantaggio questa cosa del mondo che a un certo punto ti entrava dentro. Conta che Il Foglio, prima del digitale, veniva già fatto per metà sulla rielaborazione e sul rilancio a partire da ciò che di interessante leggevamo sui grandi giornali internazionali. Quindi, quando tutto questo a un certo punto è diventato pane quotidiano per tutti, è stato un fatto che in qualche maniera ha nutrito uno stile, il nostro modo di fare le cose. Gli esteri, da subito un cardine del giornale, sono diventati secondo me clamorosamente belli ed efficaci. Questo grazie alla rete e alla capacità dei nostri ragazzi di sapercisi relazionare. E agli esteri siamo in due, non ventisette».

Ed eccoci al Foglio come fucina di talenti, come scuola. Una cosa che tutti nell’ambiente editoriale, anche i detrattori, riconoscono al giornale di Ferrara è questo ruolo di formazione e di capacità di fabbricare giornalisti notevoli. Lui la vede così: «Effettivamente la gente pensa al Foglio come a una scuola: lo è nel senso che questo è un giro di persone che sanno stare insieme e prendere il meglio le une dalle altre, me per primo. Però io credo che il vero segreto di una certa libertà di tono sia la formula originale di cui parlavamo prima: Il Foglio attira persone che amano il cuore della cosa giornalistica e non si curano dell’aspetto corporativo; è una formula che peraltro attrae giovani che non hanno paure né ubbie politiche. Funziona magicamente per questo». I giovani, il digitale, il giornale che all’inizio era bello ma che poi è addirittura migliorato: la voglia di Giuliano Ferrara di proiettare Il Foglio nel presente è evidente senza risultare mai forzata. Parla della situazione oggi, racconta come i conti si siano fatti effettivamente complicati, con i fondi pubblici che sono ormai meno del trenta percento di quelli che Il Foglio percepiva e che presto tenderanno allo zero.

Racconta inoltre di chiacchiere con potenziali investitori al quale chiedere uno sforzo di comprensione di quel che il giornale sarà, più che di quello che è stato. E qui fa un cenno ad alcuni modelli di cui poi hanno parlato a caldo sia lui che Claudio Cerasa, nei giorni successivi all’annuncio del passaggio di consegne: l’idea è quella di più edizioni digitali al giorno che affianchino quella cartacea e digitale del mattino, il tutto per cercare di far crescere gli abbonamenti, che dovrebbero diventare il cuore del modello del Foglio da oggi in poi. A questo punto chiedo a Ferrara di aiutarci a inquadrare il presente e il futuro del Foglio anche da un punto di vista politico. «Mi sembra che il senso sia questo: questo giornale è nato per cavalcare, interpretare, sdrammatizzare, e anche un po’ per spiegare e rivelare la grande anomalia italiana, e cioè il fatto che, una volta fatta fuori l’Italia dei partiti, è arrivato un imprenditore, uomo privatissimo, e si è preso il centro della politica e della cosa pubblica senza rinunciare alla sua identità privata. Questo ha creato un cortocircuito bestiale, da tanti punti vista: incomprensioni, furie, vendette, odi, invidie; e in lui ha creato megalomania, spirito napoleonico e qualche robusta buona intuizione. Noi, come Foglio, siamo stati in questo ambito. Il dato evidente di questo momento politico è che, essendo quella parabola in declino – per ragioni di età, di esperienza, di errori commessi, di mutazione del paese – non c’è stata la restaurazione. Se no avrebbero vinto tutti quelli che Berlusconi ha sfidato per anni: i tecnocrati o i cosiddetti poteri forti o l’establishment politico della sinistra. Invece c’è Renzi. Ecco, Renzi è la seconda anomalia, che eredita alcuni tratti della prima; naturalmente poi per altre cose è diversissimo, è un abile professionista della politica per esempio».

Quello che in sostanza piace molto a Ferrara di Renzi, e ne Il royal baby è tutto spiegato molto bene, è il fatto che ormai rappresenti il nemico numero uno di molti di quelli che negli anni sono stati avversari di Berlusconi e anche suoi, «basta prendere quello che Asor Rosa scrive sul Manifesto e rovesciarlo: dice questo Renzi è di destra, si presenta come un emulatore di Berlusconi, come un competitore, uno che vuole fare meglio sullo stesso terreno, quello delle riforme e dei principi liberali». «Credo che Il Foglio adesso debba fare questo: raccontare il passaggio di testimone, per quanto mi riguarda personalmente nell’amicizia e nella lealtà all’esperienza che Berlusconi ha rappresentato, ma con spirito di sorpresa, di attenzione, di curiosità e anche di incitamento per questa fase che ha come suo perno il cambio generazionale». Questo era quello che Ferrara pensava del futuro del Foglio prima di annunciarne il nuovo direttore, ora ovviamente starà a Cerasa decidere cosa Il Foglio sarà. Però non si può fare a meno di notare che tutto un po’ si tiene: la ricerca di un nuovo modello, l’innamoramento per la seconda anomalia, la voglia di esserci anche in questa fase nuova, il riconoscere e valorizzare quale sarà il gruppo di giornalisti che potrà dare un futuro alla sua creatura, al punto di mettere uno di loro alla direzione. Senza dimenticare ciò che Il Foglio è stato.

Non si può fare a meno di notare che tutto un po’ si tiene: la ricerca di un nuovo modello, l’innamoramento per la seconda anomalia, la voglia di esserci anche in questa fase nuova, il riconoscere e valorizzare quale sarà il gruppo di giornalisti che potrà dare un futuro alla sua creatura.

Del resto, quell’establishment italiano cui Ferrara ha cercato di mettersi di traverso è in buona parte ancora lì, ed è di fatto composto, secondo lui, da quelli che il premier chiama gufi: «Sono ancora quelli di sempre, quelli che scrivevano di Craxi che era interessante però era un farabutto, di Berlusconi che era di plastica, vade retro, e che però la sinistra era troppo vecchia per capirlo e per combatterlo con le parole giuste. Quando hai come criterio fondamentale la distanza antropologica, ti ripeti, scrivi sempre lo stesso articolo, muori citando Einaudi e la fondazione Einaudi, rifacendo il verso a te stesso nella critica ai vizi del paese. È il portato terribile della vecchia cultura liberale e azionista, che dei mezzi delinquenti quali siamo noi comunisti per fortuna non hanno. Renzi fa benissimo a ignorarli. Ha capito una cosa fondamentale: che i giornali possono essere più o meno amichevoli, più o meno pronti a prepararti la forca, ma tutto dipende da quello che fai come capo politico e dal consenso che ottieni. Che poi, se ci pensi, il suo è anche un consenso più strutturato di quello di Berlusconi, più politico, Renzi è un uomo anche di influenza. Però non vuole stare dentro quel perimetro, non vede il direttore generale della Rai, non vede nessuno. Questa la trovo una cosa stupenda».

Il giorno successivo all’annuncio della sua abdicazione, il giornalista Mattia Feltri è andato a trovare Ferrara mentre sgomberava la sua stanza da direttore, e ne ha scritto così sulla Stampa: «Tante campagne, non sempre apprezzate, ma del resto non si conducono campagne per farsi apprezzare, semmai per sollevare qualcosa oltre il rasoterra. E infatti di errori ce ne sono stati, come è naturale, ma non si rinnega niente. Nessun pentimento, è andata così ed è andata bene. “Non, je ne regrette rien”, dice Giuliano come Edith Piaf mentre riempie il suo primo scatolone». Scatolone che non andrà molto lontano, al piano di sotto presumibilmente, dove sono gli altri giornalisti: Ferrara infatti ha raccontato che continuerà a fare il tifo per Il Foglio e a scrivere per quel giornale. «Giuliano è un genio e resterà con noi» ha aggiunto Cerasa. Altra anomalia, altra corsa.

 

Fotografie di Andy Massaccesi