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L’ultimo giorno a Bruxelles dei parlamentari britannici

Tanto le reazioni dei leavers quanto quelle dei remainers al voto su Brexit ci hanno ricordato come la politica sia inseparabile dalla sua dimensione identitaria.

di Simone Torricini

Richard Corbett, leader del Labour al Parlamento Europeo e membro dei Socialdemocratici Europei, tende una sciarpa unionista dopo la ratificazione della Brexit a Bruxelles, 29 Gennaio 2020. (Photo by Yves Herman)

Il sogno, il cuore, la festa. Sciarpe e bandiere, amore e odio, perfino un coro intonato dagli sconfitti quando non era rimasto altro da fare. Raccontato così, più che la fase conclusiva di un percorso politico dalla portata storica, l’ultimo giorno dei deputati britannici a Bruxelles potrebbe essere ragionevolmente scambiato per il finale di una partita di calcio. E invece quelle parole sono il perfetto riassunto dello scorso mercoledì, quando l’accordo di recesso tra Unione Europea e Regno Unito è stato approvato dal Parlamento Europeo in seduta plenaria. In alcuni casi le hanno pronunciate loro stessi, i parlamentari, in altri invece si limitano a descrivere cose che sono successe durante la giornata, ma in entrambi si tratta di termini che hanno portato in primo piano la dimensione identitaria dello scontro tra leavers e remainers, che stanotte si concluderà ufficialmente a favore dei primi.

Anche se alcuni dettagli nel rapporto tra il Regno Unito e l’Unione dovranno essere chiariti nei prossimi mesi durante il periodo di transizione, per i settantatré deputati britannici eletti appena sette mesi fa quella di mercoledì è stata l’ultima sessione a Bruxelles. Per alcuni di loro fare i bagagli non ha significato solo la chiusura di una pagina di vita, ma di un intero capitolo. Tra i conservatori che hanno salutato il continente c’è ad esempio Daniel Hannan, che è stato eletto per la prima volta a Bruxelles nel 1999 e da quel momento non ha mai perso il suo posto. Lo stesso percorso (ma con una carriera da attivista euroscettico persino più lunga) lo ha seguito Nigel Farage, che mercoledì dalle 17 in poi è stato la vera e propria star della giornata. «È in corso una battaglia storica in Occidente: globalismo contro populismo», ha detto durante il suo ultimo discorso prima del voto, uno dei più lunghi della seduta. «E il populismo porta con sé molti benefici: non più le istituzioni europee, non più i loro comportamenti prepotenti», eccetera. «Non più i Guy Verhofstadt», ha incalzato, con una telecamera terribile a fargli eco inquadrando il deputato belga, a metà tra il disorientato e l’imbarazzato.

E Farage non è certo stato l’unico tra i suoi a festeggiare. Il brexiteer Richard Tice ad esempio ha salutato sia in inglese che in francese pubblicando una foto del suo ultimo check-out con tanto di tesserino magnetico, e aggiungendo l’invito ai festeggiamenti organizzati dal Brexit Party che si terranno stasera in tutto il Regno Unito. Ma ci sono anche quelli che i festeggiamenti li hanno anticipati con una visita last-minute al punto ristoro. È il caso di Martin Daubney, che dopo il voto ha scritto sul suo profilo di aver ordinato quattordici birre e «qualche» bicchiere di vino da smaltire assieme ai colleghi. Daubney era stato tra quelli che poche ore prima avevano dato seguito ad una colorata iniziativa di Farage: al termine del suo discorso il leader dei brexiteers ha sventolato una Union Jack in formato ridotto, beccandosi l’ultima ramanzina dalla Vice Presidente Mairead McGuinness. «That’s it, it’s all over, finished», ha risposto con tono di sfida Farage. E su questo, gli va dato atto, resta veramente poco o nulla da obiettare.

Il leader del Brexit Party Nigel Farage sventola una piccola Union Jack a seguito della ratificazione della Brexit da parte del Parlamento Europeo a Bruxelles, 29 Gennaio 2020. (foto di John Thys)

Se quello dell’eleganza non è certo il campo in cui Farage eccelle, una medaglia al merito per lo stile va invece senza dubbio al sopra citato Hannan e alle sue ultime, distinte parole da parlamentare europeo: «Lasciatemi augurare a tutti gli amici che ho incontrato qui – anche a quelli più fedeli al progetto di una Europa federale – i migliori successi per il loro futuro: buona fortuna, bon courage», ha detto congedandosi. Dopodiché, direttamente dal parcheggio del Parlamento, ha scritto un messaggio pubblico di ringraziamento ai suoi tre assistenti, aggiungendo un «goodbye» dal sapore di missione compiuta eppure (sarà l’eleganza?) velatamente nostalgico.

La reazione dei remainers, dai laburisti ai verdi passando per i liberaldemocratici, è stata ovviamente speculare. C’è stato persino chi, come Molly Scott Cato, si è commosso al momento del discorso di saluto: «Ho nel mio cuore la consapevolezza che un giorno tornerò in questa aula, celebrando il nostro ritorno nel cuore dell’Europa», ha detto al termine di un breve e appassionato discorso in cui fin dall’inizio non è riuscita a trattenere le lacrime.

Il deputato del Labour Rory Palmer si è spinto oltre, portandosi dietro in regalo ai colleghi delle sciarpe appositamente commissionate a doppio tema: da un lato quello della Union Jack e dall’altro quello della bandiera dell’Unione, in una accesa fusione di rosso e blu dal significato inequivocabile. Il tweet della sua collega Terry Reintke («Torneremo insieme, non domani, ma arriverà un bellissimo giorno in cui torneremo») è invece uno dei tanti che promettono un tentativo futuro per riportare le cose come stavano fino a due giorni fa. Una speranza che è oggi così lontana dalla cronaca quotidiana da apparire persino patetica, ma che in futuro chissà.

Rory Palmer (britannico) e Katarina Barley (tedesca), entrambi parte del gruppo dei Socialdemocratici Europei, si abbracciano dopo la ratificazione della Brexit da parte del Parlamento Europeo a Bruxelles, 29 Gennaio 2020. (Photo by Yves Herman)

Ma il momento clou che ha accomunato tutti quelli che hanno fatto campagna per il remain è arrivato negli istanti immediatamente successivi alla votazione. La maggioranza dei sì all’approvazione dell’accordo è stata schiacciante (621 i favorevoli e 49 i contrari, con 13 astenuti), e una volta acclarato l’esito, largamente previsto, l’ala europeista dei deputati britannici ha intonato un coro collettivo di tradizione scozzese che in Italia è conosciuto come Valzer delle Candele, nome in codice per Auld Lang Syne. La traduzione letterale è “old long since” ed ha il significato di una sorta di inno ai tempi che furono: viene spesso accostato ai momenti di addio, o più generalmente utilizzato in situazioni in cui c’è bisogno di una colonna sonora a metà tra il solenne e il drammatico. I parlamentari lo hanno cantato formando catene umane con i loro vicini, quasi come se stessero recitando una preghiera: un momento toccante che ha espresso il forte spirito di comunità che lega la maggior parte di loro, ma che al contempo era inevitabilmente permeato dal senso di sconfitta; e quindi alla fine anche un po’ penoso e desolante.

Volendo fare una trama comune di questa serie di reazioni tanto differenti l’una dall’altra, la parola chiave che le lega più o meno tutte è identità. Può darsi che non sia sufficiente da sé per spiegare l’intero percorso che ha portato a Brexit, ma è sicuramente in grado di dirci cosa c’è alle vere e proprie radici del leave, e contestualmente a quelle del remain. Da una parte la volontà legittima di riportare il timone in casa propria, una richiesta di «autogoverno e di indipendenza» contro «l’anti-democrazia» dell’Unione, per dirla con le parole di Farage, e dall’altra la concorrente, una visione comunitaria ed internazionalista della quale il canto di Bruxelles o le lacrime di deputati come Scott Cato sono un eloquente manifesto. L’ultimo giorno dei deputati britannici è stato lo step definitivo di uno scontro che, a prescindere dal vincitore, ci ha ricapitolato una lezione magistrale su questa dicotomia. E allo stesso tempo, trasversalmente, sullo stretto e inevitabile legame tra la politica e il concetto di identità.