Cultura | Arte

Alla Biennale di Venezia il sogno di una nuova umanità

Apre il 23 aprile, dopo un'eccezionale pausa di tre anni, l'Esposizione Internazionale d'Arte, per la prima volta nella storia curata da una donna italiana, Cecilia Alemani. Guida alle cose più belle da vedere.

di Clara Mazzoleni

Un personaggio dal video di The Severed Tail dal profilo Instagram di Marianna Simnett

Visitando la Biennale d’arte di Venezia mi è tornato in mente che durante l’incontro con Cecilia Alemani in Toscana (qui), avevamo commentato la ridicola manifestazione di mascolinità di Jeff Bezos, che si era appena sparato nello spazio (e purtroppo tornato indietro) col suo missile a forma di pene. Era l’estate del 2021 e l’atmosfera sembrava meno pesante di quella di oggi. L’epidemia di Coronavirus – che aveva costretto la curatrice, anzi “la prima curatrice donna italiana della Biennale di Venezia”, a organizzare tutto da dietro uno schermo, dagli studio visit alla selezione delle opere – sembrava esalare gli ultimi respiri, sconfitta dall’intelligenza umana. Per molti era l’estate della seconda dose, eravamo pieni di speranza e voglia di leggerezza e, forse, anche una timida ma rinnovata fiducia in noi stessi, poveri piccoli esseri umani. La mostra intitolata Il latte dei sogni, mi aveva spiegato Alemani, avrebbe in qualche modo celebrato questa nostra capacità di adattamento, metamorfosi e trasformazione, sarebbe stata «un percorso basato sulla rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi, la relazione tra individui e tecnologie, i legami tra i corpi e la Terra».

Il titolo viene da un libro di Leonora Carrington, pittrice e scrittrice surrealista sconosciuta ai più, che funziona un po’ come santa protettrice e testimonial della mostra (insieme all’invito personalizzato alcuni hanno ricevuto in regalo un delizioso Adelphi). Il latte dei sogni è un libro per l’infanzia, nato dalle storie che l’artista scriveva e disegnava sui muri della cameretta dei suoi figli: storie formative, in certo senso, perché insegnavano ai bambini la libertà della fantasia e le possibilità potenzialmente infinite di reinventare la nostra identità. Come scrive Cecilia Alemani: «All’idea illuminista dell’Uomo moderno – in particolare del soggetto maschile, bianco ed europeo – come fulcro immobile dell’universo e misura di tutte le cose, [gli artisti e le artiste] contrappongono mondi fatti di nuove alleanze tra specie diverse e abitati da esseri permeabili, ibridi e molteplici, come le creature fantastiche inventate da Carrington». Rispettando questi presupposti, Il latte dei sogni è la prima Biennale d’Arte della Storia che vanta una maggioranza di artiste e persone non binarie.

Chi avrebbe mai pensato, però, che l’edizione precedente avrebbe portato così sfiga (o sarebbe stata così profetica, a seconda dei punti di vista). May you live in interesting times, ci augurava il curatore Ralph Rugoff, direttore della Hayward Gallery di Londra, scegliendo un titolo che oggi sembra un oscuro presagio. A lungo attribuita a un’antica maledizione cinese, l’espressione “Possa tu vivere in tempi interessanti” è oggi da interpretare come un augurio ironico che auspica periodi di incertezza, crisi e disordine. E il titolo rispecchiava una Biennale dominata da un’atmosfera oscura, apocalittica (ne avevo scritto qui, intitolando ingenuamente l’articolo “L’arte del nostro presente horror”: nel 2019!). Poi è arrivato il Covid, che per la terza volta dalla Prima e dalla Seconda guerra mondiale ha provocato l’interruzione della Biennale d’Arte di Venezia. E poi è arrivata la guerra in Ucraina, dalla quale, inevitabilmente e per ragioni certamente criticabili, ci sentiamo più coinvolti rispetto ad altri conflitti in altre parti del mondo. Durante l’inaugurazione, davanti al sontuoso padiglione russo, chiuso e vuoto, sostava una guardia armata. Davanti a quello ucraino – che non è nemmeno un padiglione, ma un muro – era inevitabile mostrare un rispettoso silenzio, come in chiesa, e trattare “The Fountain of Exhaustion” (1995) di Pavlo Makov come fosse un crocifisso davanti al quale invocare qualche disperata preghiera.

Pavlo Makov, The Fountain of Exhaustion (1995)
Il padiglione della Russia, chiuso

Il latte dei sogni apre al pubblico il 23 aprile in un momento in cui la nostra fiducia nelle gloriose metamorfosi dell’essere umano è più o meno pari a zero. Siamo vittime della demenza di un «soggetto maschile, bianco ed europeo» che sta facendo il cazzo che vuole e nessuno riesce a fermarlo. Ma eccoci qui, a Venezia, a visitare la mostra, aperta fino al 27 novembre. Cerchiamo di ricacciare in gola lo sconforto e assorbire un po’ della potenza e dell’assertività delle imponenti sculture di donne nere di Simone Leigh (è una delle prime opere che si incontrano all’ingresso della mostra all’Arsenale, ma è rappresentata anche dal padiglione degli Stati Uniti). La disposizione delle opere (sempre nell’Arsenale, dove è più facile creare un percorso lineare, cosa che il Padiglione Centrale dei giardini impedisce per via della sua struttura disordinata) segue lo sviluppo di questa trasformazione ideale: il potente bianco e nero dell’artista cubana Belkis Ayón fa da preludio a una serie di manufatti coloratissimi, arazzi, sculture, disegni, maschere che, spesso attingendo da saperi indigeni, tentano di ristabilire il nostro rapporto con la natura, gli altri e i nostri corpi, in una nuova comunione con il non-umano, l’animale e la Terra. Attraverso una metamorfosi graduale che coinvolge anche il percorso della mostra, si raggiungono le opere in cui l’inorganico e l’organico, l’animato e l’inanimato continuano a fondersi coinvolgendo però un nuovo elemento, quello tecnologico, come nelle viscere artificiali un po’ disgustose e un po’ erotiche create dall’artista coreana Mire Lee, le sculture che sembrano uscite da un film di fantascienza della francese Marguerite Humeau o i video simil-videogame dell’artista cinese Luyang. Semplificando molto, potremmo riassumere così: un viaggio nelle possibili metamorfosi del corpo, dal naturale (con tutte le sue magie e mitologie e il fondamentale rapporto con la natura e gli animali) all’artificiale, inframezzato da quelle che Alemani chiama “capsule storiche”: delle bellissime mini-mostre nella mostra che arricchiscono la Biennale con un approccio traversale attraverso una selezione di opere storiche che approfondiscono le esperienze a noi contemporanee negli spazi vicini. I titoli dicono tutto: si va da La culla della strega a La seduzione del cyborg, passando per Corpo orbita. Nel complesso, un trionfo di artiste donne: del passato e del presente, morte e vive, giovanissime e anziane, sconosciute o famose come Niki de Saint Phalle, Paula Rego o Miriam Cahn. A un certo punto ho sentito un “collega” maschio esclamare: «Non non ho mai visto tanti ricami, tante tette e tante vagine!».

Niki de Saint Phalle, Gwendolin (1966-1990)
Tua Lewis, Vena Cava (2021)
Marguerite Humeau, El Nino (2022)
Andra Ursuta, IImpersonal Growth, 2020, (Padiglione centrale, Giardini)

Un’altra annotazione dalla preview: il 19 aprile, primo giorno di apertura per gli addetti ai lavori, Raf Simons si aggirava tra i padiglioni. La presenza fisica del designer alla Biennale era la manifestazione vivente del rapporto sempre più stretto tra arte e moda (così come tra letteratura e moda: qualche giorno fa il New York Times ha parlato della nuova figura del “book stylist”), con Burberry a sponsorizzare il Padiglione del Regno Unito (in cui risuonano le voci delle vocalist nere britanniche orchestrate dall’artista Sonia Boyce) e Valentino quello italiano di Gian Maria Tosatti, a cura di Eugenio Viola, un suggestivo insieme di scenografie dark e depressive, un padiglione Italia finalmente coerente in cui autocommiserarsi in silenzio (una mediatrice all’ingresso ricorda che è vietato parlare). Storia della Notte e Destino delle Comete ripercorre l’ascesa e il declino del miracolo industriale italiano, regalando un momento di epifania poco instagrammabile e forse anche per questo emotivamente forte. Appagante come solo le lucine che scintillano nel buio sanno essere: un po’ come il fuoco che piove dal soffitto nel padiglione Malta (“Diplomazija Astuta” di Arcangelo Sassolino). Opere “immersive”, un termine che piace molto a chi scrive i comunicati stampa, che però rivela forse un’esigenza che abbiamo sviluppato per colpa della pandemia e degli schermi, o forse semplicemente la manifestazione di un attention span compromesso per sempre: mai come quest’anno ho trovato bizzarro e innaturale soffermarmi davanti a dipinti, disegni, sculture e manufatti. Un’inedita sensazione di frustrazione che ho provato persino davanti alle opere di Marlene Dumas a Palazzo Grassi (mostra imperdibile della migliore pittrice vivente). Il mio cervello danneggiato ha trovato decisamente più facile guardare dei video o “entrare” nelle opere. Non tutti i video e non in tutte le opere, ovviamente: l’operazione di scavo archeologico e sottrazione messa in atto nel padiglione della Germania da Maria Eichhor (simile alla rotazione di 10 gradi del Padiglione Spagnolo) ad esempio, è un deja-vu che fa rimpiangere la potente performance di Anne Imhof del 2017 (a proposito di arte e moda).

Gian Maria Tosatti, Storia della Notte e Destino delle Comete
Gian Maria Tosatti, Storia della Notte e Destino delle Comete
Gian Maria Tosatti, Storia della Notte e Destino delle Comete
Diego Marcon, The Parents’ Room
Loukia Alavanou. Oedipus in Search of Colonus

Ma il bello della Biennale è anche questo: a prescindere dal percorso determinato dal curatore, è possibile scegliere di vagare a caso alla ricerca delle opere che più si adattano alle proprie esigenze. Il mio sguardo intorpidito davanti ai quadri e alle sculture si è rianimato grazie al perturbante, tragico video di Diego Marcon “The Parents’ Room” e la realtà aumentata del padiglione greco (c’è coda ma ne vale la pena), dove con cuffie e visore si entra nel film dell’artista e regista Loukia Alavanou, “Oedipus in Search of Colonus”, che mette in relazione il passato della Grecia col presente, trasportandoci in un campo rom a Nea Zoi, a ovest di Atene. Strane emozioni si provano anche davanti al video – lo riconoscete da un’enorme coda pelosa che sbuca dalle tende (e continua all’interno: ci si può sdraiare sopra per guardare il film) – di Marianna Simnett, “The Severed Tail”, promosso molto bene anche via Instagram. E poi altre opere che mi sono segnata nella versione per poveri (18 euro) del catalogo, un libretto che gli addetti ai lavori snobbano ma in realtà è organizzato e scritto benissimo e aiuta a orientarsi mentre si visita la mostra e ad approfondire le varie sezioni o ricordare le opere preferite dopo averla vista o scoprirne altre che si era troppo stanchi per guardare.

Uzbekistan Pavilion installation view ©gerdastudio

Anche il padiglione Uzbeko, per la prima volta alla Biennale, ha soddisfatto il mio stupido fastidio per gli oggetti immobili. È un ambiente riformulato attraverso un pavimento specchiante che ricorda l’acqua, pervaso da un forte odore di alga (provocato dalla vegetazione che pende dal soffitto) che reinterpreta la tradizione islamica del giardino come luogo di incontro e scambio intellettuale. Si chiama Dixit Algorizmi – Il giardino della conoscenza, curato e progettato dallo studio di architettura e ricerca Space Caviar e Sheida Ghomashchi ed è un ambiente che per tutta la durata della Biennale ospiterà un ricco programma di conversazioni, simposi e performance musicali che coinvolgeranno artisti e pensatori internazionali. Un funzionamento che potremmo estendere all’intera Biennale: un grande “giardino della conoscenza” tutto da esplorare, per capire davvero, anche grazie alle opere del passato, anche grazie ai dubbi, ai contrasti e alle incomprensioni, cosa proviamo per questo presente disperato, e cosa sogniamo per il futuro.