Cultura | Dal numero

Anne Imhof, bellezza e violenza

Al Castello di Rivoli riapre l'ultimo capitolo di Sex, la mostra-performance dell'artista vincitrice del Leone d'oro alla Biennale di Venezia del 2017.

di Clara Mazzoleni

Fotografie di Piotr Niepsuj dal numero 44 di Rivista Studio

A seconda dei momenti, a chi partecipa alle performance di Anne Imhof sembra di trovarsi in mezzo a una sfilata di moda del futuro, un after composto soltanto dagli ultimi reduci di un rave a base di droghe ancora sconosciute, un inquietante, misterioso e forse pericoloso gioco erotico di gruppo, una tragedia greca al termine della quale si raggiunge una catarsi imperfetta, e ci si ritrova liberi ma frastornati, dominati da sensazioni di riconoscimento, turbamento e desiderio non si sa bene di cosa. Nata a Giessen, in Germania, nel 1978, Imhof è l’artista che ha dato forma a una delle opere d’arte più potenti degli ultimi anni, Faust, vincitrice del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 2017, una performance di più di quattro ore quasi insopportabile per il livello di tensione che riusciva a emanare, in cui la violenza incipiente (“faust” vuol dire pugno, ma è anche il dramma di Goethe sul patto col diavolo) si mescolava a un’acuta tensione erotica.

Chi ancora non conosceva il lavoro di Imhof restava stupito dalla bellezza dei giovani performer, dai look tra il normcore e lo sportswear, dalla freddezza dei corpi ammaestrati, robotici, minacciosi, così fotogenici nel momento in cui venivano catturati dalle fotocamere degli smartphone del pubblico. Oltre a essere vestiti come buona parte dei loro spettatori, i performer tengono sempre a portata di mano i cellulari: si scambiano messaggi e ricevono indicazioni dall’artista che cammina attraverso gli spazi e tra la folla in modo poco appariscente, scrivendo sull’iPhone per modulare il ritmo e i modi della performance, come un direttore d’orchestra.

Per entrare nel padiglione Germania, bisognava oltrepassare dei dobermann in gabbia. Una volta dentro, arrivava la musica: la colonna sonora composta da Imhof in collaborazione con Franziska Aigner, Billy Bultheel ed Eliza Douglas che poi è diventata un album, Faust, prodotto dall’etichetta berlinese Pan (è su Spotify). I performer sembravano allo stesso tempo prigionieri e padroni dello spazio: intrappolati sotto il pavimento rialzato in vetro o appollaiati sulle ringhiere, in equilibrio sui piedistalli fissati alle pareti oppure in alto, all’esterno, sul tetto, posizione dalla quale fissavano sinistramente la folla. Si muovevano nello spazio freddo, tech e minimale, strisciando, gattonando, masturbandosi, bruciando oggetti o cantando al microfono fissando il vuoto, scuotendo la testa su e giù come a un concerto metal, stando fermi, lottando, raggruppandosi e allontanandosi, fischiettando “Bella ciao”, suonando una chitarra elettrica trasparente. Ogni tentativo di unione si trasformava in lotta. Bellezza e violenza, tortura e piacere, tenerezza e rabbia: trascorrere nel padiglione Germania le quasi cinque ore della durata della performance era un supplizio irresistibile. La mente mescolava Salò di Pasolini e il nichilismo espresso dai gesti dei performer, la loro bellezza e la poesia della musica, passato (orrore, trauma) e futuro (speranza, energia), oppressione e resistenza.

Anne Imhof al Castello di Rivoli durante l’allestimento della mostra, foto di Piotr Niepsuj

Tre anni dopo il successo della Biennale, Imhof torna in Italia, al Castello di Rivoli (Torino) con l’ultimo capitolo di Sex, una performance in continua evoluzione presentata per la prima volta nel 2019 alla Tate Modern di Londra e all’Art Institute di Chicago. La performance fa parte di una mostra che avrebbe dovuto aprire al pubblico il 5 novembre 2020 (e invece apre adesso) ed è la prima grande esposizione dell’artista in un’istituzione culturale italiana. A cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Beccaria, include opere inedite (installazioni, dipinti, disegni e sculture) e si sviluppa lungo un muro in vetro e acciaio che percorre la Manica Lunga del Castello (quasi 150 metri). Abbiamo incontrato l’artista durante il suo sopralluogo per rivedere e riadattare la performance, completamente riconfigurata in base alle esigenze sanitarie del nostro presente. Anche per Sex, Imhof ha composto insieme a Eliza Douglas e Billy Bultheel una partitura originale che combina musica classica, techno, punk, elettronica e grunge. Rispetto a Faust sappiamo già che Sex è ancora più ruvida e caotica, a partire dai look dei performer, che mescolano grunge, vintage e streetstyle, e i vari props disseminati per la scena: fruste, candele, carte, accendini, alcol etilico, strumenti bondage, rose rosse. Chi ha partecipato alle versioni di Londra e Chicago, entrambe della durata di quattro ore, ricorda soprattutto l’odore nauseante del vapore delle sigarette elettroniche che i performer fumavano in continuazione.

«Negli ultimi anni mi sono abituata alla performance, ma ho iniziato con il disegno e la pittura e continuo a pensare soprattutto per ritratti e still-life, anche Sex è partita da lì»

Le performance di Anne Imhof non esisterebbero senza la sua compagna Eliza Douglas: performer talentuosa, musa di Demna Gvasalia di Balenciaga, protagonista della concretizzazione del flirt con la moda in un rapporto vero e proprio. È intorno alla figura di Douglas, infatti, che ruotava il video realizzato in occasione della collaborazione dell’artista con Riccardo Tisci. Nel video, pubblicato sull’account Instagram di Burberry, Douglas suona e canta la sua musica immersa in un paesaggio naturale tipicamente inglese: un concerto privato per l’acqua e per le scogliere. La connessione tra uomo e natura è stata al centro della sfilata della collezione Burberry Primavera Estate 2021, orchestrata a quattro mani da Anne Imhof e Riccardo Tisci, che per la prima volta ha invitato un’artista a collaborare al processo creativo di uno show. Andata in onda su Twitch il 17 settembre e ambientata in una foresta, era uno strano mix tra i caratteri distintivi delle performance dell’artista e una normale sfilata.

È un cerchio che si chiude, perché chi critica il lavoro di Imhof rimprovera la sua somiglianza con il linguaggio visivo della moda, forse ignorando come nell’ultimo decennio questi due mondi si siano inevitabilmente avvicinati no a collidere, ma anche il modo in cui, in un capolavoro come Faust, l’artista ha saputo sfruttare la moda come materia prima e catalogo da cui selezionare i codici per parlare al pre- sente. «Chi guarda chi, chi consuma cosa e cosa costituisce uno spettacolo sono alcuni degli enigmi con cui l’industria della moda e le eterotopie di Imhof sono alle prese», scriveva Lorena Muñoz-Alonso su Arnet recensendo la prima parte di Sex alla Tate Modern. Parlando con la stylist Lotta Volkova su Interview, Imhof confessava di invidiare la capacità della moda di riflettere la contemporaneità: «L’arte e la moda hanno molto a che fare l’una con l’altra. Ma quando guardo le persone che lavorano a un servizio fotografico, ad esempio, vedo qualcosa nella moda che non potrei mai fare con l’arte. C’è un modo di essere nel presente, nell’adesso, a cui non posso avvicinarmi. Nel fare arte, mi sento sempre come se fossi da un’altra parte: un po’ nel futuro o un po’ nel passato».

Anne Imhof al Castello di Rivoli, foto di Piotr Niepsuj

Nonostante l’eclettismo che la contraddistingue, Imhof non ha mai avuto dubbi: ha sempre voluto fare l’artista visiva. Dopo essere stata espulsa da un collegio in Inghilterra, torna vicino a Francoforte, dove è cresciuta, e si immerge nella sua scena musicale e notturna. Per molto tempo lavora come buttafuori in uno dei club più cool della città, il Robert Johnson. Vive in una comune e inizia a fare musica, senza smettere mai di disegnare. «Molti aspetti del mio lavoro derivano da quel periodo: ero completamente sola, senza insegnanti, e sperimentavo esattamente quello che volevo. Poi sono tornata alla scuola d’arte», racconta a Volkova. La prima performance arriva dopo anni e anni di disegno e pittura: la organizza in un locale notturno, e coinvolge un gruppo punk e dei pugili. La band deve suonare finché l’incontro di boxe va avanti, e i lottatori devono picchiarsi finché la musica non si ferma: è un’opera che già contiene le dinamiche che l’artista esplorerà negli anni a venire. Rapporti di potere, rispecchiamento, musica, lotta, tortura, energia.

Nel 2012 prende forma il gruppo di collaboratori con cui l’artista lavora ancora oggi. Le loro caratteristiche fisiche (lo stile androgino e la voce incredibile di Eliza Douglas, ma anche la bellezza delicatissima di alcuni perfomer maschi), insieme alle coreografie e alle dinamiche che mettono in scena, hanno permesso ai critici di conferire una forte connotazione queer al lavoro dell’artista, per la sua capacità di sfidare i limiti dell’eteronormativà. «In realtà, ci sono due aspetti», mi spiega Imhof, che dal vivo è completamente diversa da come ci si aspetta osservando le sue foto e conoscendo le sue opere. Ha un tono di voce basso, vellutato, e uno sguardo dolce, compassionevole, lontanissimo dallo quello aggressivo che indossa, come un’armatura, in tutti i ritratti che le scattano (e che fa indossare ai suoi performer). «Uno è fare un lavoro essendo queer, cioè essere una persona queer che cresce e vuole diventare un’artista: questo ha inevitabilmente influenzato il mio lavoro. E poi c’è il concetto di instabilità che cerco di esprimere, l’idea di non lasciarsi mai afferrare completamente, e abbandonare o cambiare la propria posizione molte volte, lasciare una specie di vuoto che non permette un’identificazione stabile. L’idea della posa nel mio lavoro è cruciale, intesa come il modo di stare nell’opera in quanto performer: come essere e come muoversi prima di essere raggiunti dallo sguardo degli altri, prima di poter essere catturati e bloccati da un’identificazione».

«Cerco di esprimere il concetto di instabilità, l’idea di non lasciarsi mai afferrare completamente, e abbandonare o cambiare la propria posizione molte volte»

Non sembra voler parlare molto della performance in programma al Castello di Rivoli, sulla quale preferisce mantenere un po’ di mistero: si dilunga invece, con ardore, nella descrizione della cappella Contarelli a Roma, dove racconta di aver appena visto, per la prima volta in vita sua, il ciclo di San Matteo di Caravaggio, che l’artista concepì appositamente per quel luogo: «È emozionante vedere lavori così lontani nel tempo e poter osservare cosa l’artista ha fatto e perché in relazione allo spazio, come ha riprodotto la luce sulla tela seguendo la direzione di quella reale. Negli ultimi anni mi sono abituata alla performance, ma ho iniziato con il disegno e la pittura e continuo a pensare soprattutto per ritratti e still-life, anche Sex è partita da lì».

Il ritratto: così l’opera di Anne Imhof nasce e così si disperde nel mondo, ma l’intensità dell’esperienza è racchiusa nel tempo e nello spazio in cui l’evento viene messo in scena. L’importanza dell’esserci con il corpo, e di sperimentare tutti i dispositivi di separazione messi in atto durante l’evento (muri e corridoi di vetro, gabbie di ferro, fumo), subire l’imponente colonna sonora o il rumore dei droni (ampiamente utilizzati in Angst II, opera in tre atti, ogni atto svelato in una città diversa: Basilea, Berlino e Montreal) o assistere al passaggio di un liquido che si propaga da un corpo all’altro come un virus misterioso (Deal, 2015, al MoMA PS1 di New York), acquista un’ulteriore valenza in un momento in cui il concetti di distanza, barriera e contatto fisico ci appaiono sotto un’altra luce. «In Sex compaiono elementi di lavori precedenti, e anche un certo senso di solitudine che ho riconosciuto durante la pandemia. C’è una componente apocalittica, che in un certo modo riflette questo tempo e il bisogno di mostrare immagini che mettono in contrasto l’idea di gruppo con l’idea di separazione. E poi c’è il desiderio, che è quello che mi ha spinto a creare questo lavoro, di esistere nello stesso spazio, e il contrasto con il dovere o la scelta di stare separati». Forse Sex è l’opera d’arte perfetta per i tempi che stiamo vivendo, in cui i concetti di omologazione, compenetrazione tra esperienza fisica e digitale, percezione dell’altro come minaccia e ricerca di nuove formule di libertà stanno iniziando ad assumere nuovi significati.