Cultura | Arte
Alla Biennale di Venezia l’arte del nostro presente “horror”
Un giro in anteprima alla 58esima edizione della mostra che apre al pubblico l'11 maggio e quest'anno è curata da Ralph Rugoff.
Lara Favaretto, Thinking Head, 2018, mixed media (foto di Andrea Avezzù)
È il 2019 e, come ci ricorda il titolo scelto da Ralph Rugoff (direttore della Hayward Gallery di Londra) per la 58esima edizione della Biennale di Venezia, viviamo in tempi “interessanti”. “May You Live in Interesting Times” è una frase che è stata a lungo ed erroneamente attribuita a un’antica maledizione cinese, ma in ogni caso va interpretata come un augurio ironico che auspica periodi di incertezza, crisi e disordini.Quella che stiamo vivendo è un’era difficile da rinchiudere in una storia lineare, un delirio collettivo che forse è impossibile costringere nella rete del linguaggio: l’arte offre una forma più adatta, universale, senza inizio né fine, senza morale o esigenze di traduzione, che si adatta alla frammentazione dei social e parla di quell’atmosfera di follia condivisa che ci sembra di percepire fuori di noi ma di cui in realtà facciamo parte.
Il curatore Milovan Farronato (l’avevamo intervistato qui) ha parlato di smarrimento e follia nel suo splendido Padiglione Italia, Neither Nor, una mostra a tutti gli effetti, che forse per per la prima volta mette in relazione in modo efficace le opere degli artisti scelti per rappresentare il nostro Paese. Se già con la curatela di Cecilia Alemani il sempre deludente padiglione italiano aveva dato un primo segnale di rinascita, Milovan Farronato ha proposto un labirinto nel quale lo spettatore si perde in continuazione: finti tendaggi non portano da nessuna parte, gli specchi traggono in inganno, dove sembrava esserci un muro si apre una porta, la stessa sala viene percorsa più volte, spesso per errore. Invece di proporre un progetto artistico ideato ad hoc dagli artisti in occasione dell’evento “Biennale”, la mostra invita lo spettatore di abbracciare la sensibilità di Enrico David, Liliana Moro e Chiara Fumai (morta suicida a 39 anni, nell’agosto 2017), nel corso di tutta la loro carriera e la loro vita, fornendo anche l’occasione di una visione omogenea, d’insieme: una storia collettiva che ognuno è invitato a comporre. Un Padiglione di cui colpisce la freschezza formale, dentro a una biennale caratterizzata da opere esteticamente molto “pesanti” (nel senso di gravi e imponenti ma anche oscure, catastrofiste). «Non esiste il perdersi», si legge nel testo che accompagna il padiglione, «ma solo il tornare sui propri passi: ed è legittimo: regredire non significa peggiorare».
May You Live in In Interesting Times è importante anche perché segna i 20 anni dalla riforma della Biennale: Paolo Baratta, il presidente, li ha voluti festeggiare sottolineando come negli ultimi anni i visitatori siano diventati i partner principali dell’esposizione: più della metà hanno meno di 26 anni. Sarebbe da visitare soltanto per questo, e per godersi un Padiglione Italia finalmente sensato, ma i motivi per cui non perderla, sono tanti altri. Se due anni fa si parlava soprattutto di “Faust”, nel Padiglione Germania (Vincitore del Leone d’oro per la miglior Partecipazione Nazionale), la performance violenta e sensuale di Anne Imhof – qui un bel ritratto del Guardian in occasione della recente “Sex” alla Tate Modern – quest’anno la tappa obbligata sarà il Padiglione della Lituania. Le artiste Rugile Barzdžiukaite, Vaiva Grainyte e Lina Lapelyte (tra i 79 artisti invitati è impossibile non notare la sorprendente prevalenza di nomi femminili) hanno trasformato gli interni della Marina Militare, per la prima volta usati come area espositiva (si trovano nei pressi dell’Arsenale) in una spiaggia illuminata artificialmente, piena di persone “normali” in costume. Lo spettatore è chiamato a monitorare il tableau vivant dall’alto di un ballatoio al piano superiore della sala. Ma anche ad ascoltare, visto che si tratta di un’opera-performance (e per opera qui si intende il genere teatrale e musicale): ogni personaggio della scena, cantando, rivela inquietudini e preoccupazioni che hanno a che fare con il surriscaldamento climatico come con le piccole fragilità quotidiane.
Tra le opere più potenti c’è “Can’t Help Myself”, dei cinesi Sun Yuan e Peng Yu: un grande robot industriale che si muove senza sosta in una gabbia trasparente come un animale in cattività, impegnato nella disperata missione di mantenere dentro una determinata area un liquido denso e rosso che sembra sangue. Mentre esegue con grande precisione il suo lavoro, il robot trova anche il modo di intrattenere il suo pubblico, come un’orca giocherellona rinchiusa in una vasca: sculetta, si scuote, saltella, si avvicina di scatto. Ottuso e stupidamente devoto al suo assurdo compito? Furbo e cattivo? Tenerissimo? Come allo zoo i suoi movimenti sorprendono gli adulti e fanno sorridere (o spaventare) i bambini.
Nel complesso l’atmosfera è molto dark. Tragica, spesso tendente all’horror: l’Arsenale è pieno di immagini, video e installazioni perturbanti – panini di scheletri e toast di facce, feti zombie e bambini che piangono in eterno (sto pensando ai video di Ed Atkins, ma a giocare con gli incubi e i sogni ci sono anche Jon Rafman e Korakrit Arunanondchai), giocattoli sovradimensionati e donne impazzite (la casa delle bambole di Kaari Upson), cadaveri finti e cadaveri veri, come quelli rappresentati dal peschereccio libico installato fuori dall’Arsenale dall’artista svizzero Christoph Büchel, che il 18 aprile 2015 si inabissò nel Canale di Sicilia, provocando la morte di 700 persone.
«Apocalittica ma con speranza»: così il Corriere riassume la Biennale ai tempi di Rugoff. Una definizione giusta, perché quando l’arte si dimostra capace di penetrare a fondo negli incubi e nelle perversioni del presente, quanto riesce a raccontare, pur senza descriverli, i terrori e i presagi, regala al cervello umano un momento di immenso sollievo. È quello che provo mentre, stremata, riposo su una panchina dei Giardini, fissando la nebbia densa e farinosa che avvolge il Padiglione Centrale, facendolo a tratti scomparire del tutto. Non è una nuvola a bassa quota, ma un’opera di Lara Favaretto. Anche qui lo smarrimento e l’inganno, il parziale occultamento della realtà. Resto per un bel po’ a guardare la nebbia che si alza e si riabbassa, consapevole che sto perdendo tempo e che questo momento di contemplazione costerà caro in termini di completezza del percorso espositivo. «Godete il senso di un tempo dilatato», rileggo sul foglio del Padiglione Italia, che a un certo punto molla il tono da comunicato stampa e si rivolge con calore a tutti noi, «e non abbiate ansia di dover vedere tutto».