Cultura | Dal numero
Cecilia Alemani e la Biennale dei suoi sogni
Ci siamo fatti raccontare dalla prima donna italiana a curare la Biennale d’Arte di Venezia come sarà la sua mostra Il latte dei sogni e come si fa a leggere il presente attraverso gli artisti.
Ritratti di Alessandro Furchino Capria dal numero 48 di Rivista Studio
Lo scenario perfetto davanti al quale fotografare Cecilia Alemani sarebbe senz’altro urbano, magari proprio un frammento di High Line, la passeggiata a 10 metri d’altezza sopra le strade del West Side di Manhattan di cui Alemani cura il programma d’arte pubblica da quando ha 34 anni. Nata a Milano nel 1977, trascorre a Inzago gli anni dell’infanzia – i genitori vivono ancora lì – per poi tornare a Milano per fare il liceo. Vive dai nonni, al terzo piano di un palazzo fatto costruire dal nonno stesso, in una traversa di corso Buenos Aires. Ragazza di città, il suo primo lavoro è commessa da Fiorucci. Si laurea in Filosofia alla Statale di Milano senza aver mai pensato alla professione della curatrice. Decide di specializzarsi in Estetica e inizia a studiare Arte contemporanea. Poi, seguendo un corso alla Tate Modern, si accende la lampadina, quella che la fa iscrivere al master in studi curatoriali che le cambierà la vita. Per seguirlo si trasferisce a New York, la città in cui vive ormai da 20 anni. Vetro, cemento, traffico, grattacieli. È molto strano, allora, incontrarla con le Birkenstock ai piedi in una casa di vacanza immersa nella Maremma, la registrazione dell’intervista disturbata dal frastuono delle cicale. È qui con la famiglia: il marito Massimiliano Gioni, celebre curatore del New Museum e a sua volta direttore della Biennale del 2013, il figlio di 5 anni (nato proprio mentre Gioni seguiva la mostra La Grande Madre a Palazzo Reale), il nonno di 79 anni che si preoccupa personalmente di portarci il caffè mentre parliamo del Giardino dei Tarocchi, il parco con le sculture monumentali di Niki de Saint Phalle che ieri hanno visitato tutti insieme. Un mondo immaginario e surreale che risuona perfettamente col tema della Biennale (dal 23 aprile al 27 novembre 2022). Il titolo, Il latte dei sogni, viene da un libro di Leonora Carrington, pittrice e scrittrice surrealista sconosciuta ai più che funzionerà un po’ come santa protettrice dell’intera mostra, che sarà «un percorso basato sulla rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi, la relazione tra individui e tecnologie, i legami tra i corpi e la terra». Corpi in trasformazione, corpi che ospitano altri corpi, come le donnone di Niki de Saint Phalle.
È incredibile pensare che in Italia ci sia un luogo del genere», dice ripensando al giardino. «È una visione, anche mistica se vuoi, di un’artista che ha immaginato un progetto utopico e lo ha realizzato nel corso di più di vent’anni, con un’indipendenza creativa e finanziaria impensabile, difficile da immaginare oggi. Niki de Saint Phalle ha esplorato le metamorfosi del corpo umano letteralmente, uomini e donne che sono case in cui si può entrare. L’effetto è molto forte: ti trovi davanti questi mostri giganti che appaiono improvvisamente nella vegetazione. Botte di colore, ma anche specchi, acqua, giochi di riflessi e di abbagli. A prescindere dalla loro età i visitatori riescono ad avere una relazione con le opere, mio figlio che ha 5 anni come suo nonno che ne ha 82. E questo penso che sia uno dei punti cruciali del successo di un’opera d’arte: quando può creare un legame con un pubblico vastissimo e di tutte le età, indipendentemente da quello che uno sa dell’artista che l’ha creata».
ⓢ A proposito della relazione con le opere, com’è stato organizzare a distanza, almeno all’inizio, una mostra così abnorme?
La nomina per la curatela della Biennale è arrivata a gennaio 2020, a marzo è scoppiata la pandemia. Mi è dispiaciuto non poter viaggiare nei luoghi di cui conosco meno la scena artistica come l’Asia e l’Africa. La tecnologia però ha aiutato tanto: ho parlato via zoom con centinaia di artiste e artisti, cosa che sicuramente non sarei riuscita a fare se mi fossi spostata fisicamente. Ho fatto una specie di maratona di visite di studi, o forse è meglio descriverla come uno speed dating! Ma sono contenta perché le conversazioni che sono riuscita ad avere sono state molto genuine, molto oneste perché eravamo tutti in questa strana bolla virtuale di chiamate dall’intimità della propria casa. Rispetto alla più tradizionale visita nello studio d’artista si creava una dimensione più discreta, confidenziale a volte. Certo, nel momento in cui devi vedere le opere dal vero, la tecnologia fa ancora fatica. Speriamo che il mio intuito funzioni!
ⓢ Non è la tua prima volta alla Biennale: nel 2017 hai curato il Padiglione Italia, Il mondo magico, riducendo per la prima volta il numero di artisti invitati (solitamente più di dieci, tu ne hai voluti solo tre). Invece di esporre un’opera già fatta, come succedeva di solito, Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey erano stati invitati a creare il lavoro più bello della loro carriera. Hai in mente qualche grosso cambiamento anche per la Biennale?
È una cosa diversa perché in questo caso gli artisti e artiste sono davvero tanti e non può che essere così. Il Padiglione è stato una prova importantissima però: è uno spazio mastodontico, 2 mila metri quadrati, hai voglia a riempirli. Lì mi ero detta: invece di riempirli con la quantità, come si è sempre fatto, facciamolo con grandi progetti guidati dagli artisti stessi.
ⓢ L’ultima Biennale prima della pandemia è stata quella curata da Ralph Rugoff, direttore della Hayward Gallery di Londra: aveva un titolo minaccioso, May you live in interesting times (una frase a lungo attribuita a un’antica maledizione cinese da interpretare come un augurio ironico che auspica periodi di incertezza, crisi e disordini) e un’atmosfera oscura, apocalittica, un po’ horror. Col senno di poi, una scelta a dir poco azzeccata. La tua va in direzione completamente opposta, già dal titolo – latte, bianco, sogni – e poi il libro di Leonora Carrington è un libro per bambini. C’è tutto un immaginario più morbido, come a voler generare un po’ di speranza e di leggerezza dopo questo periodo difficile per tutti.
Non mi interessa tanto quel tipo di mostra in cui i partecipanti denunciano in modo diretto e quasi documentaristico i problemi di oggi, ad esempio il cambiamento climatico o la situazione politica globale (non penso fosse il caso della Biennale di Ralph, ma in quegli anni molte mostre si muovevano in quella direzione). Ci sono tanti artisti e artiste che stanno facendo un lavoro di denuncia sociale importante, ma in modo obliquo, complesso, senza dover necessariamente essere didascalici o saccenti. Come curatrice mi piace guardare all’artista come a una persona che, grazie al potere dell’immaginazione, è capace di mostrarmi quello che mi circonda come se lo guardassi attraverso delle lenti diverse, aggiungendo quel filtro che permette di guardare lo stesso mondo, però in un modo un po’ più complicato e stratificato. È quella complicazione che mi interessa e che credo possa aiutare a pensare in modo nuovo.
ⓢ E Leonora Carrington è una di queste artiste. Ho letto che se le chiedevano quando era nata, lei rispondeva che era stata costruita dall’incontro tra sua madre e una macchina. Una fantasticheria post-umana, un mix tra naturale e meccanico che si ritrova nelle sue opere popolate di creature ibride che sembrano uscite da un’allucinazione. Eppure oggi è conosciuta soprattutto per la sua relazione con Max Ernst. Se la googli trovi subito la stupenda foto in cui lei è nuda e lui le copre il seno. Tra loro c’era qualcosa come 28 anni di differenza, si conobbero quando lei ne aveva 19 e lui 47.
Lei è un’artista fondamentale, ma c’è grande disparità nella sua legacy: gli addetti ai lavori la conoscono bene, il pubblico generale conosce appunto Max Ernst, Dalì e Magritte ma non lei. Ho in mente da tanto il suo lavoro pittorico ma solo recentemente ho iniziato a leggere i suoi libri, tutti pubblicati da Adelphi. La scrittura è una parte molto importante del suo lavoro.
Il risultato non sarà certo una mostra tecnologica in cui tutto è digitale – non c’è niente che mi faccia più orrore – ma un insieme di opere che in qualche modo rispondano alle contraddizioni che stiamo vivendo
ⓢ Quale consigli di leggere per primo?
A me piacciono molto i racconti, che sono usciti in italiano nel 2018 col titolo La debuttante. Il cornetto acustico è molto interessante perché è la storia surreale e ironica di due donne in età avanzata, poi c’è Giù in fondo, molto triste, in cui racconta quando è stata rinchiusa in un ospedale psichiatrico. I racconti sono in un certo senso la trasposizione letteraria delle opere figurative: nei suoi quadri lei dipinge questo mondo in cui non c’è gerarchia tra l’umano, l’animale e la macchina, ma c’è un continuo passaggio fluido da uno stato all’altro, sempre espresso con quella grande libertà e leggerezza che solo gli artisti e le artiste sanno comunicare. È interessante come nella sua opera e nel Surrealismo in generale l’idea della “macchina” fosse già una preoccupazione importante, quindi mi è piaciuto usare la figura della Carrington come compagna di viaggio anche per riflettere sulla tecnologia e su come cambia i nostri corpi. Il risultato non sarà certo una mostra tecnologica in cui tutto è digitale – non c’è niente che mi faccia più orrore – ma un insieme di opere che in qualche modo rispondano alle contraddizioni che stiamo vivendo. Da un lato le promesse della scienza e della tecnologia, Jeff Bezos che prende e va nello spazio, la fiducia nel progresso tecnologico; dall’altro la paura di una presa di controllo totale della tecnologia attraverso l’intelligenza artificiale. Ovviamente questa polarità si è acutizzata da quando ci siamo resi conto che, davanti a una forza invisibile come quella del virus, i corpi non sono immortali, sono fragili e mortali e di quanto la mediazione degli schermi sia diventata indispensabile nelle relazioni più umane. È uno scarto a cui assistiamo in modo profondo proprio adesso, ma è una preoccupazione che gli artisti e le artiste affrontano da tantissimo tempo.
ⓢ Ormai è quasi metà della tua vita che vivi a New York. Com’è osservare la differenza con cui americani e italiani affrontano il dibattito sul politically correct, soprattutto nel mondo dell’arte?
Non seguo molto i dibattiti italiani ma so che là l’attitudine è completamente diversa. La mia speranza è che le vecchie generazioni possano capire dalle nuove generazioni che si tratta di un processo di formazione fondamentale. Trovo sia bellissimo poter capire collettivamente che c’è bisogno di un cambiamento e che possiamo progredire anche grazie a gesti che possono sembrare piccoli, pedanti, normativi ma che alla fine danno risultati importantissimi. Io rimango sempre stupita dal fatto che non si possa trovare ispirazione e motivazione in tutto questo: ho 44 anni e posso ancora imparare qualcosa, posso cambiare il modo in cui parlo, smettere di usare delle espressioni che sono completamente fuori luogo e rileggere la storia alla luce di trasformazioni sociali profonde. Va benissimo. Spesso anch’io faccio fatica, certe cose sembrano esagerate, però i risultati si vedono. Ad esempio nessuno, oggi, negli Stati Uniti, si permetterebbe di fare una mostra in cui il 90 per cento è composto da uomini. Se apro le riviste d’arte italiane vedo ancora pubblicità di mostre di soli uomini.
ⓢ Le mostre di sole donne però, per alcuni, continuano a sembrare una forzatura.
Penso all’artista e poetessa Mirella Bentivoglio che nel 1978 cura e realizza per la Biennale di Venezia la mostra Materializzazione del linguaggio, selezionando esclusivamente opere di artiste donne. Lei diceva, parafrasando, «normalmente io sono l’unica donna invitata nel mondo degli uomini. Voglio far capire ai colleghi che in realtà non ci sono solo io». Ovviamente, dall’altra parte, c’è il problema della ghettizzazione e c’è tutta una letteratura che ne parla. Ma è proprio questo il punto, avere la possibilità di studiare e ragionare su quest’argomento, aprire un dibattito costruttivo e impegnato.
ⓢ Modestia a parte, hai raggiunto un sacco di primati: sei la prima donna italiana che cura la Biennale d’Arte di Venezia, sei la prima a curarla dopo un’interruzione (le uniche altre due volte che si è interrotta per causa maggiore è stato per la Prima e la Seconda Guerra Mondiale) e sei anche la prima a curarla dopo che l’ha curata suo marito. La sua si chiamava Il palazzo enciclopedico, in mezzo al Padiglione Centrale dei giardini aveva esposto Il libro rosso di Jung. Inconscio, sogni, immaginazione… Come coppia di curatori vi ritenete totalmente indipendenti o sentite di condividere una direzione?
È divertente perché molti pensano alla nostra relazione immaginandosela fatta di grandi discorsi e riflessioni curatoriali: se ti raccontassi com’è davvero la nostra vita… penso che come curatori noi si abbia una pratica molto diversa semplicemente perché abbiamo due lavori molto diversi: io mi occupo di arte pubblica, lui ha una carriera più museale. Nella sua Biennale c’era ovviamente l’immaginazione, ma era più una dinamica introspettiva, ruotava intorno agli artisti outsider; la mia mostra non è introspettiva, guarda moltissimo alla realtà e a quello che ci circonda. Poi certo, ovviamente ci confrontiamo e ci aiutiamo, ma in realtà, purtroppo, nella nostra giornata sono pochissimi i minuti in cui abbiamo uno scambio creativo!
ⓢ Il lavoro del curatore ha molto a che fare con la scrittura, soprattutto quando si studia per diventarlo o all’inizio della carriera. Com’è adesso? Come vivi il momento della scrittura?
Io vorrei dirti che lo vivo bene, mi piacerebbe tanto, ma so che l’atto di scrittura richiede tempo e dedizione, e nel momento in cui fai una mostra così complessa è difficile perfino trovare due ore continuative in cui qualcuno non mi disturba. Sono però felicissima di lavorare con bravissimi scrittori e scrittrici per il catalogo della Biennale, visto che ho avuto un po’ più di tempo del normale e così ho potuto commissionare dei testi nuovi. L’anno scorso nella ricorrenza dei 125 anni dalla fondazione della Biennale ho fatto parte dei curatori della mostra Le muse inquiete: La Biennale di Venezia di fronte alla storia, realizzata dall’Archivio Storico della Biennale ed è stato bellissimo guardare i cataloghi storici. Oggi il catalogo non dico sia l’unica cosa che resta, però c’è uno scarto incredibile dagli anni Ottanta in poi perché, con l’introduzione del digitale, non resta quasi niente in archivio di fisico, di tangibile. Fino agli anni Settanta e Ottanta c’erano lettere, telegrammi e fax. Adesso nessuno stampa le mie e-mail, e meno male, però è interessante notare come anche l’archivio cambi, quindi nel grande processo di digitalizzazione della nostra esistenza il catalogo resta uno strumento fondamentale per raccontare la mostra e testimoniare il processo di produzione.