Attualità
Filmare una vita
Tra le molte (mezze) delusioni del Festival del Cinema di Berlino si salva e spicca Boyhood, il film girato nell'arco di 12 anni da Richard Linklater, e che ricorda l'esempio di Rohmer.
Vincitore della 64esima Berlinale è stato un giallo sentimentale ambientato nel nord della Cina, Black Coal, Thin Ice. Diao Yinan ha esultato molto, alla consegna dei premi, e senz’altro l’Orso d’oro è un bel traguardo. Però forse quest’anno chi ha vinto qualche premio dovrebbe relativizzare e spendere un momento per guardare gli altri film in concorso, nella competizione ufficiale e nelle altre sezioni. Come raccontavo settimana scorsa, sono stati rari i momenti in cui lo spettatore non si è sentito tediato dallo schermo; e anche quando il film era godibile, non lo è mai stato “con i fuochi d’artificio”. La maggior parte dei lavori che ho visto sembravano essere sospesi a metà, come indecisi se diventare film forti, di genere o rimanere allo stato di bozza. Penso a Macondo di Sudabeh Mortezai –dramma sociale di un bambino ceceno, a Vienna in attesa di accettazione dell’asilo politico – o a ‘71 di Yann Demange, film d’azione che racconta l’inizio dei troubles a Belfast dalla prospettiva di un soldato inglese: entrambi in concorso e con dei buoni soggetti di partenza, si perdono velocemente in quello che forse sono i calcoli sbagliati delle aspettative di un pubblico che si immagina pigro. Il dramma sociale si assopisce, ripetitivo e schematizzato, nella periferia austriaca dove è ambientato, con l’“atmosfera asfissiante” che non è metafora della condizione del protagonista dodicenne ma di quella dello spettatore che chiede per lo meno un po’ di lacrime o sentimento vero; il film d’azione s’ingarbuglia senza sosta dopo i primi cinque minuti e anche se tiene abbastanza incollati, ciò che incalza sono i fatti, messi lì davvero uno dopo l’altro ma senza che siano poi esemplari della vicenda storica e umana che aspirano a rappresentare.
Nella 64esima Berlinale è stata notevole la mancanza di quegli elementi che, presenti almeno uno alla volta, fanno fare a un film il proprio, onesto lavoro: no musiche importanti, no sceneggiature brillanti, no immagini belle(manco questo!), no commozione, no paura, no emozioni, no neanche ribrezzo comico.
Altri ancora potrebbero essere citati come film “a metà”, come film che davvero – perdonate l’orrenda espressione, ma qui proprio ci vuole – hanno paura di osare o osano nei modi sbagliati: scene di sesso esplicito ci sono state perlomeno nell’80% dei film visti, tanto che a un certo punto ho pensato fosse il tema nascosto ma ricorrente del festival. Eppure il più delle volte era un sesso prolisso o senza ripercussioni rilevanti sulla trama, ma solo per il gusto di mostrare qualche fazzoletto di pelle qua e là – oltretutto nel nome dell’amore vero e non dell’esibizione erotica (tra gli altri: Aloft, Thou wast mild and lovely, Blind massage, She’s lost control).
Nella 64esima Berlinale, così, è stata proprio notevole la mancanza di quegli elementi che, presenti almeno uno alla volta, fanno fare a un film il proprio, onesto lavoro: no musiche importanti, no sceneggiature brillanti, no immagini belle(manco questo!), no commozione, no paura, no emozioni, no neanche ribrezzo comico. In poche parole: pochissimi i momenti in cui ci si è potuti perdere per davvero in quello che succedeva sullo schermo.
Così un sospiro di sollievo l’hanno tirato più o meno tutti quando, a un giorno dalla fine del festival, è stato presentato Boyhood di Richard Linklater. Frequentatore abituatale della Berlinale, Linklater aveva già vinto l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura di Before Sunset, nel lontano 1995. Before Midnight aveva chiuso la trilogia l’anno scorso proprio al festival di Berlino, che quest’anno ha nuovamente deciso di premiare il regista texano con l’Orso d’argento per la migliore regia.
Il chiodo fisso di Linklater è quello di permettere allo spettatore di osservare l’evoluzione di una storia, di un personaggio, nel corso reale degli anni.
Boyhood è uno di quei lavori in progress da così tanto tempo che tutti già lo conoscevano con il nome di “The twelve year project” e che coinvolge nuovamente Ethan Hawke come attore-collaboratore favorito dal regista. Boyhood è stato infatti girato in 12 anni ad Austin e segue l’evoluzione di una famiglia dall’estate del 2002 ad oggi. Fortunatamente il regista è riuscito a coinvolgere lo stesso cast per tutta la durata delle riprese, e sono proprio la coerenza e l’impegno costante degli attori che riescono a rendere il film speciale e cioè diverso dai documentari “one day in a lifetime” nonché dalle grandi narrazioni che vogliono coprire intere fasi della vita. Il chiodo fisso di Linklater è quello di permettere allo spettatore di osservare l’evoluzione di una storia, di un personaggio, nel corsoreale del tempo. La trilogia Delpy-Hawke è infatti proprio questo: una vicenda sentimentale che si trasforma in studio del carattere umano nell’arco di dieci anni. Ma la definizione di “studio umano” non deve spaventare perché è proprio qui il segreto di Linklater, che riesce anche questa volta a superare uno schema narrativo che potrebbe facilmente cadere nella ripetizione e che si riscatta invece come realistico, divertente e accuratamente umano. Su queste tre linee – realismo, umore e umanità – si dispiega infatti Boyhood, il cui primo merito è senz’altro quello di essere riuscito a coinvolgere quattro attori, due dei quali ragazzini, per oltre dodici anni. In conferenza stampa il regista ha infatti sottolineato come l’esperienza degli attori, soprattutto per il protagonista Mason, Ellar Coltrane (classe 1995) e la “sorella” Lorelai Linklater (classe 1994 e figlia del regista), sia stata davvero unica nel suo genere. Avendo impedito che il cast rivedesse il materiale girato negli anni se non poco prima la presentazione ufficiale del film, ha in realtà fatto un gran favore ai partecipanti, soprattutto ai due giovani. «Rivedersi attraversare tutti quegli stadi scomodi e bizzarri dell’adolescenza è stata un’esperienza dolorosa e molto strana» hanno infatti detto i due, riconoscendo però che con un po’ di consapevolezza retroattiva in più sarebbe stato ben più difficile continuare le riprese.
Intenzione di Linklater era rappresentare gli anni della formazione di un ragazzo e, in misura minore, della sua famiglia. “Boyhood” significa infatti qualcosa un po’ di più dell’adolescenza: “fanciullezza” fa più che altro pensare a uno stato di innocenza perduta qui però non rilevante, mentre “giovinezza”, ormai lo sappiamo, è un periodo che può essere esteso ben oltre i trent’anni. Più che lostato, Boyhood descrive l’azione di un ragazzino di 8 anni nel diventare maggiorenne. Il film è infatti incredibilmente attivo e non solo per il personaggio di Mason: anzi interessa proprio notare come la vicenda del protagonista si schiuda gradualmente sullo schermo, prima “oppressa” dai problemi e dalle storie del mondo adulto (in questo caso, il rapporto conflittuale dei genitori separati), poi sempre più importante e conscia, ricca di avvenimenti minori ma significativi per la costruzione dell’identità. Questo processo diventa chiaro sia al protagonista che a coloro i quali gli stanno intorno, che, insieme allo spettatore, si spostano un po’ ai lati dell’inquadratura e permettono al bambino di diventare una persona. In un certo senso Boyhood è anche un film sull’arte del narrare, su come si compone un personaggio di finzione che sia però convincente e realistico.
Boyhood è ben distante dalla sfilza di Juno, Little Miss Sunshine, Adventureland o, a voler fare un salto indietro, a Stand by me – Ricordo di un’estate. Linklater ha rinunciato all’aneddotica drammatica che permette solitamente al personaggio in fieri di metabolizzare il proprio divenire.
I lunghi tempi di ripresa hanno senz’altro aiutato da questo punto di vista, ma rispetto al formato del Bildungsroman hanno forse remato un po’ contro le tendenze tradizionali. Una sorta di “coming of age” dilatato nel tempo, Boyhood non riassume infatti la crescita di Mason esclusivamente negli eventi fondamentali (che pur ci sono: primo lavoro, prima ragazza, graduation, università) né inventa avventure topiche e simboliche intorno a cui riavvolgere l’evoluzione emotiva e psicologica del personaggio. Boyhood è ben distante dalla sfilza di Juno, Little Miss Sunshine, Adventureland o, a voler fare un salto indietro, a Stand by me – Ricordo di un’estate. Non solo Linklater ha deciso di concentrarsi su una fetta di tempo più ampia di quel limbo che esiste tra l’ultimo anno delle superiori e l’università, ma ha anche rinunciato all’aneddotica drammatica che permette solitamente al personaggio in fieri di metabolizzare il proprio divenire. In conferenza stampa il regista ha infatti raccontato come fosse importante per lui restituire il senso di una vita quando viene ricordata, come sia la memoria, in realtà, a drammatizzare quel susseguirsi di esperienze diverse che alla fine si chiama esistenza.
Il film è infatti privo dell’effetto “documentazione storica” di due lungometraggi molto noti (e bellissimi) che hanno seguito la vita di alcuni ragazzi nell’arco di decine di anni, Die Kinder von Golzow e Up. Lo strato finzionale qui si vede e si tocca e non c’è alcuna intenzione di mascherarlo sotto i toni del “reality” o del polpettone del genere “un giorno nella vita di”. Linklater ha infatti dichiarato che non voleva appesantire il film con toni drammatici, per i quali ci sarebbero comunque stati tanti spunti (padre inizialmente assente e madre – Patricia Arquette – che si risposa con un professore ubriacone; continui cambi di casa e città; padre che si ricostruisce una famiglia e madre che continua a non avere buon gusto in fatto di uomini; solitudine e trasformazioni costanti controbilanciati da piccoli ma cruciali successi personali). È qui, più che altro, che si misura la qualità del film, che è fatto di un umorismo dimesso ma costante, diciamo quotidiano, come lo è del resto anche la consistente base dialogico-conversazionale che sostiene il film.
Pochi autori come Rohmer sono riusciti a rappresentare o vivacizzare la vita quotidiana al cinema, rendendola ben sopportabile anche per chi la conosce bene. Linklater si inserisce in questo contesto.
Forse azzardo un paragone un po’ strano, ma i film di Linklater mi hanno spesso ricordato quelli di Eric Rohmer, soprattutto la serie dei Commedie e proverbi e parte dei Racconti morali. Nei film del regista francese ritorna spesso una sensazione di leggerezza non superficiale, sia nei dialoghi – strutturatissimi ma inscenati quasi come improvvisati – sia nell’evolversi della trama, come a suggerire una direzione più che cinematografica, a volte esistenziale. “Il giusto mezzo” è rappresentato a mio avviso molto bene da Rohmer, che, come Linklater, ha sempre proposto un cinema pacato, umano e piuttosto realistico. E attenzione, perché il giusto mezzo qui non è sinonimo di moderazione timorosa, di noia, di piattezza emotiva o d’intreccio. È, invece, una dichiarazione d’intenti che fa tutt’uno con un approccio particolare al lavoro (alla vita) e, soprattutto, è un’attitudine personale difficilissima da inscenare al cinema (o in letteratura o in altri campi dove lo storytelling gioca un ruolo importante), proprio perché rischia il più delle volte di passare, banalmente, per noiosa, esteticamente pretenziosa, ordinaria nel senso più negativo del termine, inutile. A mio avviso, pochi autori come Rohmer (mettiamoci anche Chantal Akerman, anche se con certe riserve) sono riusciti a rappresentare o vivacizzare la vita quotidiana al cinema, rendendola ben sopportabile anche per chi la conosce bene e anzi offrendo una prospettiva ulteriore su gesti, abitudini, condizioni e azioni che sembrano i più automatici (e meno drammatici) dell’esperienza umana. Linklater si inserisce poi in questo contesto con un’aggiunta di umore e comicità pratica che fanno sempre bene – soprattutto in un festival dove questi due elementi sono mancati parecchio.
I film di questa 64. Berlinale si sono mostrati “a metà” perché o indecisi sul cosa essere, o perché non abbastanza coraggiosi per rischiare una presa di posizione. Il giusto mezzo è stato per loro non giusto e sì, quello che trasforma il film in un atto mancato. Boyhood dimostra che, per fortuna, può succedere ancora il contrario.