Mi sono innamorato de La pazza gioia dentro un camper parcheggiato ai bordi di un terreno, in una di quelle estremità di Roma che si chiamano CasalQualcosa e che non saprei ritrovare sulla cartina. Me ne sono innamorato mentre, dentro a quel camper, ripassavo le quattro battute che Virzì mi aveva affidato e che custodivo gelosamente nella memoria da molti mesi. Me ne sono innamorato quando d’un tratto ho visto arrivare Valeria Bruni Tedeschi, che parlava in francese al cellulare, con un vestitino meravigliosamente semplice e delle ciabatte ai piedi, che, se le portava lei, diventavano elegantissime anche quelle. Me ne sono innamorato mentre Micaela Ramazzotti usciva dal trucco, con quei due stracci nosocomiali addosso, e già faceva una tenerezza infinita solo a guardarla. Me ne ero innamorato già prima che fosse un film, a dire la verità. Quando cioè La pazza gioia era ancora un sceneggiatura che mi portavo in treno, non ricordo più verso dove, per godermi il piccolo grande privilegio di leggermela in privato.
Poi, qualche giorno fa, ho sentito Virzì al telefono. Sarebbe partito per Cannes l’indomani. Volevo sapere come stava.
«Sai», gli ho detto, «finalmente l’ho conosciuta l’Archibugi… ci siamo fatti un sacco di risate, ma ti saranno fischiate le orecchie…».
«Ah Francesca…», ha risposto lui, «una così non ce l’hanno nemmeno a New York… te lo ricordi?».
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