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Rimbaud a Milano

Nel suo ultimo libro per Skira, Rimbaud e la vedova, Edgardo Franzosini indaga il soggiorno del poeta francese nella Milano del 1875.

di Gabriele Di Fronzo

Nel 1875 Arthur Rimbaud ha vent’anni, gli occhi azzurri, le mani grandi e ai piedi porta un paio di scarpe numero quarantuno. Ha appena smesso di scrivere: d’ora in avanti sarà soldato mercenario nelle file dell’Esercito Coloniale delle Indie Olandesi, poi inserviente in un circo, guardiano di una cava, commerciante di avorio, e così via fino a diventare mercante d’armi in Abissinia. Chi l’ha conosciuto quando vendeva caffè sostiene che uccidesse con la stricnina i cani che orinavano sui suoi sacchi. E c’è anche chi l’avrebbe stanato in un monastero sul Mar Rosso e stregone tra i selvaggi. Viaggiò fino all’isola di Giava, a Copenaghen, a Cipro, ad Aden, ad Harar. A Stoccarda si fece stampare i biglietti da visita sui quali, di volta in volta, aggiungeva a mano il suo nuovo domicilio. Quello che appunta nel maggio del 1875 è «39, Piazza del Duomo, terzo piano»: nell’anno in cui rinunciò alla letteratura, dopo aver attraversato la Svizzera a piedi, Arthur Rimbaud è arrivato a Milano.

Il 39 è un isolato malridotto, tra via Santa Radegonda e via San Raffaele. Rimbaud, che per pagare uno dei viaggi in treno ha dovuto vendere il suo baule, trova lì alloggio presso «una vedova molto civile», nella sua casa a ballatoio. Il marito defunto era un mercante di liquori. A cavallo tra aprile e maggio lo ospitò per tre o forse quattro settimane; appena l’anno prima aveva perso un figlio della stessa età del poeta. «Una signora caritatevole», secondo il compagno di scuola ai tempi di Charleville Ernest Delahaye. È anziana e per niente attraente, eppure stando a Jean-Luc Steinmetz, e al suo libro Les Femmes de Rimbaud, fu una delle quattro donne che incisero nella sua vita. Al pari di Miriam, l’abissina, cui insegnò a vestire all’europea e a fumare; Mia, la fiamminga, «dagli occhi vispi e dalle grosse tette»; e la ragazzina di Charleville che al loro primo appuntamento si presentò in compagnia dalla domestica e subito dopo se ne andò, lasciandolo «allibito come trentasei milioni di barboncini neonati».

Edgardo Franzosini ha appena pubblicato per l’editore Skira Rimbaud e la vedova (in copertina, un bozzetto del volto del poeta a opera di Alberto Giacometti), un libro di un’eleganza prudente, colta, garbata in cui ingemma con fascinose illazioni la sua indagine in merito al breve soggiorno milanese del poeta. André Gide ne La sequestrata di Poitiers scrive che una volta che sono state scelte, raccolte e ispezionate, saranno solo le carte a parlare. Nel libro di Franzosini le carte – di ogni fattura: dalla Guida di Milano per l’anno 1875 stampata dalla Tipografia Bernardoni all’insegna di un negozio, dalla cartolina imbucata alle pettegolissime biografie di coloro che hanno conosciuto Rimbaud – confabulando tra loro, siedono a dialogo con l’autore che le vaglia e le accosta per saggiarne la verosimiglianza.

Dai dati dell’Ufficio Municipale del 1875 risulta che allora a Milano abitassero 273.075 cittadini. Il soggiorno primaverile del «passant considerable», come lo definì Mallarmé, però non ha lasciato testimonianze tra i milanesi. Avrà passeggiato solo o a braccetto con la vedova? Via Monforte e Via degli Orefici le avrà magari percorse a piedi, ma per raggiungere i bastioni di Porta Venezia è plausibile abbia preso posto su un omnibus. Franzosini ha coniato un’arte dolce di braccare i suoi eroi, pedinando con rigore una storia magra di tracce. Le biblioteche pubbliche a Milano erano tre, la Nazionale di Brera, l’Ambrosiana e la Biblioteca Popolare in via Circo. E da Rimbaud, «topo di biblioteca dal comportamento irreprensibile» secondo una delle definizioni di Verlaine, potremmo aspettarci che le abbia consultate anche tutt’e tre.

Scopriamo con Franzosini che Rimbaud, per la sua abitudine a non indossare cappelli, buscava spesso delle insolazioni; che secondo alcuni avesse le fattezze di una micia bruna, qualcuno al contrario lo trovasse più simile a una gattina bionda, e un altro ancora ha sempre pensato somigliasse a un grosso cane; e che un giorno decise di raparsi a zero perché convinto che i capelli lunghi gli provocassero l’emicrania.

Non si conoscono le ragioni della sua permanenza a Milano. Era di passaggio diretto a Brindisi per poi navigare fino alle Cicladi; o forse puntava Civitavecchia per raggiungere la Spagna, visto che pare avesse maturato la decisione di arruolarsi nel movimento carlista; o come sostiene Isabelle, la sorella che lo assisterà delirante sul letto di morte, con la gamba amputata in un ospedale di Marsiglia nel tentativo di asportargli il sarcoma al ginocchio, il fratello era a Milano semplicemente per imparare una lingua nuova? Da una lettera spedita alla stessa sorella si ritiene che in quei giorni abbia improvvisato una gita a Monza e in Brianza: ma poi che altro? L’unico luogo quasi certamente visitato da Rimbaud è la sede della Regia Posta Centrale, la sola da cui partissero le lettere per l’estero, in Via Rastrelli 20 all’angolo con Via Larga. E Arthur ne spedì una in Francia a Mademoiselle Delahaye, la figlia di Ernest, con la richiesta di inviargli una delle cinquecento copie di Une saison en enfer, stampate nel 1873 a sue spese dall’Alliance Typographique di M-J Poot et C.ie di Bruxelles. Chissà a chi volesse consegnarla. A Milano c’era Giovanni Verga, c’erano gli scapigliati, c’era Carlo Dossi, ma Rimbaud non incontrò nessuno di loro. In Via Bigli c’era il salotto di Clara Maffei e quello di Vittoria Cima in Via Borgospesso, ma Rimbaud non passò per un saluto né dall’una né dall’altra. Per bere, nei paraggi di piazza Duomo, allora si andava all’Hagy, detto “el racanat di sciouri”, in Corso Vittorio Emanuele 10. E qui invece forse un salto Rimbaud lo fece.

Franzosini ha colto questa tranche de vie di Rimbaud come un fiore selvatico, catturandone tra le dita gentilmente lo stelo, con delicatezza, senza intromettersi. Oggi l’edificio in cui pernottò Rimbaud è scomparso. L’intero isolato fu abbattuto per costruire un palazzo imponente e sontuoso. Al suo posto svetta da tempo un grande magazzino. Finora su quei muri, lì dove al ballatoio del terzo piano stava la casa della vedova, non è stata apposta nessuna targa. Ma forse, adesso, una placca a forma di libro per celebrare l’accoglienza che «una buona milanese» offrì al poeta, una placca con le sembianze sfocate di quella Milano, è stata finalmente foggiata.

 

Foto di Icilio Calzolari