Attualità
L’affaire umami
Nel 1908 un chimico giapponese cambiò per sempre la cucina scoprendo l'umami, il misterioso quinto sapore. Storia di una specie di Bilderberg del cibo.
Nel 1908, in quella che mi piace immaginare come una fresca serata primaverile, Kikunae Ikeda impugnò con una mano un cucchiaio di legno e con l’altra avvicinò a sé una piccola ciotola di zuppa dashi, profumata e fumante. Kikunae Ikeda era professore di chimica all’Università Imperiale di Tokyo e, quella sera, assaggiando la sua zuppa, ebbe un sussulto. La zuppa era più saporita del solito: da un certo punto di vista, addirittura più deliziosa.
Ikeda era certo di aver scoperto qualcosa di straordinario: cercava un aggettivo per descrivere quella pienezza di sapore, e non trovò niente di meglio che umai, delizioso. Quel gusto, a suo avviso, non era riconducibile a nessuno dei quattro gusti fondamentali (dolce, aspro, salato e amaro) e neppure a un’interazione di quei gusti fra loro. Le parole con cui, alcuni mesi dopo, Ikeda comunicò al mondo la sua scoperta sono di una semplicità quasi commovente: «benché ciò sia basato su un’impressione soggettiva, molte persone interrogate al riguardo si dicono d’accordo con tale congettura, immediatamente o a seguito di una breve conversazione. Di conseguenza, ci sono pochi dubbi che esista un altro gusto, oltre ai quattro tradizionali. Propongo di chiamare questo gusto umami, per comodità». La parola, in realtà, se l’era inventata. Umami è un neologismo che crea un concetto partendo da un aggettivo: noi lo potremmo tradurre con “deliziosità”.
Gli ingredienti profondamente umami sono spesso tra i più simbolici di una specifica cultura gastronomica
Da quel giorno l’umami è un po’ la chimera della comunità gastronomica: i giapponesi lo rivendicano come una caratteristica intrinseca della propria identità nazionale, in tutto il mondo si organizzano festival e contest di cuochi-umami, nascono start-up e società segrete. Se è la prima volta che sentite parlare di umami, sarete probabilmente perplessi: subodorate l’ennesimo polverone sul food e borbottate proverbi che coinvolgono arrosti e fumo. Vi chiedo di scorrere rapidamente questa lista di alimenti ad alto contenuto di umami. Cercate di immaginarne il gusto, e se non vi viene neanche il remoto sospetto che alcuni di questi cibi abbiano qualcosa in comune, in quel caso potete smettere di leggere. Pomodori secchi, alga kombu, sardine e acciughe sott’olio, salsa di soia, ketchup, pane di lievito naturale, funghi (tutti), brodo di pollo e fumetto di pesce, porchetta, frutti di mare, tè verde e parmigiano. Sì, il parmigiano.
Per darvi un’idea, anche Massimo Bottura crede in umami: parlando di uno dei suoi piatti più famosi, Cinque età e temperature di Parmigiano Reggiano, una volta ha detto che quel piatto si sarebbe anche potuto chiamare Cinque età e temperature di umami. Perché ogni cultura ha gli umami che si merita. Anzi, a pensarci bene, gli ingredienti profondamente umami sono spesso tra i più simbolici di una specifica cultura gastronomica: la salsa di soia per la Cina, l’alga kombu per il Giappone, i frutti di mare per la Francia, il ketchup per gli Stati Uniti, i crauti per i tedeschi, la bottarga per i siciliani, il parmigiano e i pomodori maturi per l’Italia unita.
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Faccio il cuoco, e vi lascio immaginare cos’ho provato il giorno in cui ho messo da parte il mio snobismo e ho deciso di informarmi seriamente sul fantomatico quinto sapore. Di punto in bianco mi è parso di trovare la matita per unire tutti i puntini solitari delle mie ricerche gustative abortite. Per esempio si spiega la leggenda del garum, una salsa di pesce fermentato che, a quanto pare, gli antichi romani usavano come gli americani usano il ketchup, e che gli storici del cibo considerano come una specie di brontosauro dell’umami: nessuno sa davvero come fosse fatta, e soprattutto nessuno ha la minima idea di che sapore avesse. Alcuni sostengono fosse simile alla colatura delle alici, ma sono approssimazioni di noi cuochi moderni.
Mi ritrovo presto in tasca un minuscolo quaderno con liste di ingredienti umami, come quando si è in un paese straniero e si annotano le parole nuove di una lingua che si muore dalla voglia di imparare. Il quinto gusto sembra peraltro svelare il segreto dei miei piatti forti: ecco perché la mia pappa al pomodoro rivisitata funziona sempre (ci aggiungo un cucchiaino di purée di pomodori secchi), ed ecco perché tutti adorano i miei pezzetti di barbabietole con le acciughe. Pomodori secchi, acciughe: umami.
L’aggettivo più ricorrente per definire umami è rotondo: è la differenza fra una cosa molto buona e una cosa a cui davvero non c’è nulla da aggiungere. Ma non è tutto: secondo la vulgata il gusto umami è anche la sensazione che quello che mangiamo ci fa bene – qualcosa che, mentre lo mangi, sai già che ti sveglierai bene il giorno dopo. È quel sapore che ci fa sapere che saremo a posto. (Tra l’altro: recuperate una barbabietola gialla e fatela bollire fino a quando non riuscite a trapassarla col coltello; lasciatela raffreddare e sbucciatela, tagliatela a spicchi, mettete tutto in un piattino con un filetto d’acciuga su ogni spicchio: olio, pepe e qualche goccia di limone. Poi assaggiate, e richiamatemi domani mattina).
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Qualche sera fa ho preparato, a Parigi, città dove lavoro, una cena privata per cinque “nasi” di una nota multinazionale di profumi. Dal punto di vista strettamente gastronomico i clienti di queste cene si distinguono in due grandi tipologie: da un lato quelli che sono alla ricerca di accoppiamenti insoliti e gusti sconvolgenti, tipo il gelato al curry con la soppressa e il risotto alle arance tarocco. La seconda tipologia, più riflessiva, apprezza di più quando un solo gusto, di per sé magari noto e ordinario, viene esaltato, sublimato, estratto. I nasi mi avevano chiesto di preparare «qualcosa di molto semplice e molto speciale»: quindi volevano cose astratte e sublimi. Quindi spaghetti di grano arso.
Tanto tempo fa, in Puglia, capitava che qualche chicco di grano sfuggisse alle mani callose del contadino: dopo la raccolta si bruciavano gli sterpi, secondo una sapiente tradizione che rendeva la terra più fertile per l’anno dopo. Prima che il campo venisse arato, tuttavia, si era soliti recuperare quei chicchi sfuggiti, che risultavano variamente tostati, e che soprattutto erano gratis. Quei chicchi sono il grano arso, e da qualche anno ne trovate traccia nei menu di qualche ristorante italiano sensibile alle belle storie. Io lo riproduco in laboratorio: un po’ perché quello che si trova in commercio non è abbastanza saporito, un po’ perché le autorità non gradiscono più che si brucino i campi, e in generale perché la Puglia è lontana.
In Francia una cosa come il grano arso ha un potenziale esotico e narrativo incalcolabile. In più è pure buono: ci si fa la pasta, e ha un sapore molto intenso, gradevolmente organico e tostato, completo, rotondo. Insomma, il piatto è piaciuto proprio tanto. Parlando dei gusti e dei profumi della vita, verso fine serata mi fanno provare la loro nuova acqua di colonia, che sarà in commercio fra due mesi: io approvo e mi congratulo, siamo quasi amici. Infine, con superbo spregio di papille gustative e narici, fumiamo tutti insieme alcune sigarette, e ci ritroviamo a parlare di umami. Due di loro ne hanno sentito parlare ma niente di più, gli altri mostrano di sapere perfettamente di cosa si tratta, ma non paiono dare grande importanza alla cosa. Alcuni si lamentano del fatto che il cibo nei ristoranti cinesi ha tutto lo stesso sapore.
Un po’ deluso, cerco di prendere in contropiede il loro snobismo e dico che umami è nell’esperienza di ciascuno di noi, nei nostri comfort food, nei nostri piatti preferiti e nelle nostre madeleine. A quel punto uno di loro, che fino a quel momento era sembrato il più scettico, dice questa cosa qui: a prescindere dalla nostra cultura e dai nostri gusti, c’è un alimento-umami che tutti abbiamo amato e di cui ci siamo nutriti per un periodo rilevante della nostra vita: il latte materno. Qualche anno fa, mi dice, avevo anche cercato di sintetizzarne l’aroma per un’eau de toilette femminile, immaginando di risvegliare così nell’uomo sfuggente il desiderio di essere accudito.
Mi dico che forse è giunto il momento di tornare a casa. Ma l’entusiasmo per aver trovato la pietra filosofale dura poco, e rapidamente comincio a sospettare di essere stato ingannato da una divinità maligna. È un po’ come quando ho usato per la prima volta il Bimby, un termofrullatore indistruttibile che non si vende nei negozi e che puoi comprare solo se conosci qualcuno che ce l’ha. Per le prime tre settimane, indimenticabili, mi sono sentito onnipotente. Le certezze, però, si sono incrinate in fretta quando ho realizzato che tutto quello che cucinavo, ormai, sapeva di Bimby.
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Laura Santtini (sì, con due T) è una cuoca e impresaria culinaria britannica di vaghe origini italiane, ed è anche la persona che qualche anno fa ha pensato di monetizzare l’umami. Sul suo sito si definisce «Cognitive Cook, Flavo(u)rist, Umami Expert and Alchemist». A lei dobbiamo una linea di tubetti dal design intenzionalmente démodé, il cui contenuto è segreto ma, ci assicurano, ricavato con soli ingredienti naturali. I tubetti portano il marchio Taste#5, Umami Paste. Oltre all’acquisto del singolo tubetto di Taste#5, fra i vari servizi del sito c’è anche l’opzione subscription, e la cadenza proposta per le spedizioni è di un tubetto a settimana. Curiosando sul sito si inciampa in foto di fragole food porn e ricette di spaghetti aglio, olio, peperoncino e umami: a un certo punto trovo il disegno di un kalashnikov rosa, con la didascalia seguente: «qualunque cosa diventa buona se la si fa friggere a lungo, forse funziona anche se prendi una cosa brutta e la dipingi con un bel colore?».