Attualità

Perché IL ha cambiato il paesaggio del giornalismo italiano

Un racconto del magazine che ha contribuito a creare per i lettori e gli scrittori uno spazio che non esisteva.

di Cristiano de Majo

Venerdì 12 gennaio, uscirà in edicola l’ultimo numero diretto da Christian Rocca di IL, il mensile del Sole 24 Ore. Per quanto si sa e si intuisce, il magazine cambierà profondamente e diventerà qualcosa di diverso dal progetto che abbiamo conosciuto e seguito, da quando a marzo 2012 arrivò il primo numero della nuova direzione con il titolo “La notizia della mia morte è fortemente esagerata”, la celebre frase di Twain che veniva però riferita ai giornali. In un clima di pessimismo sul futuro dell’editoria periodica, che per certi versi oggi sembra anche peggiorato, Rocca firmava un editoriale di apertura improntato all’ottimismo, alla possibilità per i giornali e le riviste basati su qualità e autorevolezza di ritagliarsi una nicchia in cui esistere.

Ho la sensazione che venerdì non leggeremo i consueti appelli che si producono come un riflesso pavloviano quando qualcosa che viene difeso come “cultura ufficiale” chiude o finisce – riflesso che scatta anche se si tratta dei giornali più sbagliati, delle case editrici più inutili –  e va bene così, perché uno degli obiettivi del magazine è stato anche quello di combattere un certo tipo di retorica intellettuale italiana e oltretutto Rocca non ha fatto niente per farsi volere bene dai detentori di queste ufficialità. Ma forse, ora che un ciclo si chiude, ha senso provare a raccontare e a ricordare cos’è stato IL, perché è stato importante e cosa ha cambiato. Lo faccio per forza di cose da un punto di vista personale, il mio, quello di uno che su IL ci ha scritto sporadicamente e che ha lavorato perlopiù su una rivista, al tempo stesso concorrente e affine, come Studio, ma che, spero non troppo paternalisticamente, può provare a descrivere, perché l’ha vissuto come aspirante professionista di questo settore, cosa c’era prima che IL nascesse e in che senso insieme a Studio e poi ad altri siti e riviste nate su quell’onda, ha creato uno spazio che non esisteva.

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Intorno al 2009 al 2010 con Francesco Pacifico, che di IL è editor e scrittore, facevamo spesso un discorso, che poi è continuato negli anni, a distanza, tra città diverse. Il succo di questo discorso era che il paesaggio editoriale italiano dell’epoca non era sintonizzato con il nostro universo, non solo personale, ma anche generazionale, o forse meglio di un certo gruppo di persone appartenenti a quella generazione nata negli anni ’70, il cui apprendistato è durato dal crollo del muro all’undici settembre ed è passato con un’attitudine onnivora anche da videogiochi, marchi, musica pop, letteratura americana. Entrambi avevamo scritto per Diario, per la Domenica del Sole sotto la direzione Riotta, avevamo partecipato a blog, avevamo scritto su riviste letterarie più o meno note, ma sentivamo nello stesso modo il disagio di essere troppo diversi, sia dal punto di vista dei riferimenti che da quello delle idee, dai posti che ci avevano ospitato o che ci davano lavoro.

Sto parlando di letture, che fossero libri o riviste, ma anche di forme (tipologie di articoli, metodo di lavoro, stile), e sto parlando soprattutto di una tradizione, quella che chiamerò semplicisticamente dell’intellettuale impegnato, che rifiutavamo in toto: ci faceva inorridire l’idea che il lavoro culturale dovesse avere in Italia una giustificazione ideologica e per conseguenza comportasse l’iscrizione a una sorta di fronte dei giusti, depositari di una verità per salvare il Paese e il mondo intero. Ci sentivamo lontani da quei colleghi coetanei che invece a questa tradizione avrebbero sinceramente o utilitaristicamente aderito. Si poteva essere fan di Philip Roth, o del più ardito iperrealismo, ma per una sorta di automatismo davanti al foglio bianco di Word si finiva per comporre l’ennesima riscrittura di “Io so ma non ho le prove”: che dissociazione era? Dov’era il posto su cui anche noi avremmo potuto scrivere il nostro reportage non per forza sui barboni alla stazione Termini, ma magari sulle spiagge di Rimini d’estate? Desideravamo che qualcuno ci dicesse “scrivi un pezzo come il New Yorker”, come ha sintetizzato lo stesso Pacifico in un pezzo uscito sul n.88 di IL,  che scherzosamente qui si riferisce anche alle derive un po’ ridicole e vagamente provinciali di questo bisogno.

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Nel pezzo di Pacifico si legge: «Vorremmo essere una specie di New Yorker italiano». «Fallo tipo New Yorker». Io e i miei colleghi scrittori e giornalisti delle riviste culturali abbiamo sentito spesso queste frasi. E, anche se ogni volta avevamo qualcosa da obiettare, ci ha fatto bene l’ambizione di certe riviste italiane: essere qualcos’altro, fuori dalle tracce moraviane, calviniane, manganelliane: la recente tensione a superare certe abitudini del giornalismo culturale italiano – l’elzeviro o la recensione tirata via – ci ha permesso di fare un lavoro nuovo […]».

Tutto questo succedeva prima che nascesse IL, prima che nascesse anche Studio. Forse sembrerà esagerato, ma io credo che questo cambio di paesaggio può essere paragonato alla nascita di un movimento.  IL ha pubblicato articoli di 20 pagine, cosa fino a quel momento inconcepibile per l’Italia. Ha raccontato il mainstream in modo intelligente, con lunghe e approfondite interviste “letterarie” a personaggi popolari come Daria Bignardi o Fabio Fazio o Francesco De Gregori.  Ha parlato con la stessa competenza e curiosità di genitori e figli, di Medio Oriente e di politica americana, di ristoranti, di nuove mode, di sport. Ha mappato lo stato dell’arte delle serie tv con la stessa serietà che ha riservato alla letteratura. Ha inventato cose che poi sono state riprese – per essere gentili e non dire copiate – dalla cosiddetta grande stampa. Ha cresciuto un gruppo di scrittori e giornalisti, quasi tutti giovani, con idee piuttosto varie, che difficilmente avrebbero trovato spazio sui grandi quotidiani e sui loro inserti (e se l’hanno trovato poi è stato anche grazie a IL). E tutto questo l’ha fatto con lo spirito di unire bellezza e intelligenza.

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Dopo la grande stagione del design editoriale degli anni ’60-70, l’Italia è finita in una spirale di bruttezza, che ancora oggi continua a perseguitarci: basta guardare le copertine di settimanali come l’Espresso, del mensile del Fatto, di Sette del Corriere della Sera. IL, già premiato per la grafica prima che Rocca ne divenisse direttore, sotto la direzione creativa di Francesco Franchi, passato poi a Repubblica, è stato sperimentale e innovativo anche nella sua veste, nella scelta dei font, nelle infografiche, nell’uso delle illustrazioni e delle foto negli impaginati. Ci ha ricordato che i giornali e le riviste possono regalare piacere e non solo indignazione. Ovviamente si prova una certa amarezza al pensiero che le cose brutte resteranno mentre quelle belle stanno per finire.

Non è detto, però, che tutte le cose debbano esistere per sempre. Noi qui a Studio avremmo preferito che IL continuasse a restare questa cosa. Da lettori e anche da “concorrenti”, perché fa bene essere stimolati da qualcuno che fa qualcosa di simile a quello che stai facendo tu. Ma grazie a IL sappiamo che in mezzo a tanti disastri editoriali (sia dal punto di vista del prodotto che imprenditoriali) e a uno scenario oggettivamente complicato per questo settore, è possibile in Italia provare a fare giornali contro la tradizione immutabile, belli e pieni di idee, e che esistono lettori che hanno bisogno di questo. Ci sembra insomma, e ce lo auguriamo, che la notizia della morte di cui sopra continui a essere “fortemente esagerata”.