Attualità

A che punto siamo con la morte

Sembra essere arrivata al traguardo la legge sul biotestamento, ma la definizione di morte è cambiata nel tempo ed è ancora oggetto di discussione scientifica.

di Luca D'Ammando

All’inizio del XX secolo il dottor Duncan MacDougall, di Haverhill, in Massachusetts, fu certo di aver riscontrato in alcuni suoi pazienti un’improvvisa perdita di peso al momento della morte. Per avere una controprova, il dottor Duncan decise di sopprimere alcuni cani e topi e vedere cosa succedeva: nei casi degli animali non rilevò alcuna variazione di peso. «Eureka», pensò, «ho dimostrato il peso dell’anima». Così nel marzo 1907 ne diede solenne annuncio al mondo in un celebre articolo pubblicato contemporaneamente sul Journal of the American society for Psychical Research e sull’American Medicine. L’episodio era solo l’ennesimo grottesco tentativo del genere, ma ebbe un clamore internazionale anche grazie al New York Times che – facendosi megafono di quella che nessuno allora si azzardò a denunciare come fake news – titolò «L’anima ha un peso, pensa un medico». Nonostante la conclusione di MacDougall fosse stata seccamente smentita da gran parte della comunità scientifica, da allora si diffuse l’idea secondo cui l’anima dell’uomo pesa 21 grammi. Idea poi rilanciata dalla cultura pop, dallo struggente film di Iñárritu con Sean Penn alla meno memorabile canzone di Fedez.

Con un salto di seimila chilometri e oltre un secolo, andiamo dal Massachusetts alla Svizzera. È da qui, infatti, che passa oggi la discussione sulla morte, con due casi che negli ultimi tempi, visti dall’Italia, sembrerebbero intrecciati. La prima notizia, che in realtà non ha attratto l’interesse dei media, è che l’Accademia svizzera delle scienze mediche ha deciso di dimezzare il tempo della diagnosi di morte: non più dieci minuti dall’arresto cardiaco ma cinque, il tempo che rende irreversibile l’interruzione delle attività del telencefalo. Così, dopo cinque minuti, si potrà procedere all’espianto di organi. Il secondo caso, che invece sta occupando un ruolo centrale anche nel dibattito politico, è il processo a Marco Cappato, accusato di istigazione al suicidio per aver accompagnato lo scorso 27 febbraio Fabiano Antoniani, meglio noto come Dj Fabo, a morire in una clinica svizzera, tramite una procedura di suicidio assistito. Qui il punto centrale e controverso della questione, come ha sottolineato bene Mattia Feltri sulla Stampa, è che «per il nostro ordinamento la vita non è un bene disponibile: è della collettività, dunque il suicidio non è ammesso. La codificata dignità umana ci consente di rifiutare le cure ma non di rifiutare una vita di irrimediabile sofferenza».

Family And Lawyer Representing Phillip Coleman Hold News Conference After Chicago PD Video Released

Così abbiamo dovuto assistere a una madre costretta a deporre in tribunale e a raccontare il calvario del figlio: «Mi diceva voglio morire, mamma, devi accettarlo. A volte gridava dal dolore, gli sembrava di avere il diavolo in corpo. Ho barato tante volte, poi ho ceduto. Sono andata in Svizzera con lui e Cappato. Due minuti prima che premesse il pulsante con la bocca, gli ho detto vai Fabiano, la mamma vuole che tu vada». E così abbiamo dovuto sentire Matteo Salvini dichiarare con tono deciso: «Mi occupo dei vivi, non dei morti». Mentre assistiamo a un Parlamento che, finalmente, si appresta ad approvare una legge sul testamento biologico. Un primo passo per superare la consuetudine italiana del “Si fa ma non si dice”. Perché è un fatto che il decesso di centinaia di migliaia di italiani è stato ed è accompagnato spesso da un intervento non dichiarato dei medici. Lo dicono i numeri di decine di indagini, da ultimo quella del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica di Milano; lo dicono diversi sondaggi anonimi tra i medici; lo dice un numero sempre più ampio di testimonianze pubbliche di parenti. Ora, il testo di legge in approvazione si occupa di regolare la scelta del cittadino di porre fine alla propria vita attraverso il rifiuto di terapie mediche inutili, non di eutanasia o suicidio assistito.

Già il caso di Eluana Englaro aveva messo in evidenza la drammaticità del conflitto tra etica, religione, tecnologia e legalità, e ha portato all’attenzione pubblica la necessità di ridiscutere i confini tra natura e scienza. Perché se esiste il diritto di nascere e vivere, deve esistere anche quello di morire quando la vita è diventata solo un battito del cuore. Eppure, anche sul battito del cuore la comunità scientifica sta ancora discutendo. Tornando alla decisione dell’Accademia svizzera delle scienze mediche di dimezzare il tempo di diagnosi della morte, si sono alzate subito le proteste delle associazioni mediche ippocratiche e cattoliche, le quali ritengono che l’attesa debba prolungarsi finché si spenga anche il tronco encefalico e, di conseguenza, anche della corteccia cerebrale.

The Human Brain

A dimostrazione che la definizione di morte è ancora oggetto di negoziazione scientifica e bioetica, pur avendo abbandonato quasi del tutto le considerazioni su principi metafisici («Da vivo, io agisco e reagisco in massa, da morto, io agisco e reagisco in molecole […]. Dunque non muoio?», si chiedeva già nel 1769 Denis Diderot). Dall’antica Grecia a oggi, le tecniche per diagnosticare la morte – dallo specchietto posto dinanzi alla bocca, alle ciotole piene d’acqua sul cavo dello sterno, all’elettroencefalogramma – considerate all’inizio garanti di certezza, si sono poi dimostrate drammaticamente insicure. In più, le nuove tecnologie hanno dato la possibilità di mantenere artificialmente attive le funzioni vitali, il che non permette di stabilire con chiarezza il momento della morte. Hanno sempre maggiore peso delle decisioni dei medici, il che ha portato, per reazione, a importanti rivendicazioni dell’autonomia del malato.

E nel giro di pochi anni, il nostro modo di rapportarci alla fine della vita è mutato profondamente. Come emerge anche dal saggio Storia della definizione di morte pubblicato da Franco Angeli nel 2014, il tabu della morte è sempre meno imperativo, tanto che nei medical drama la visione di pazienti che muoiono sotto i ferri dei chirurghi nonostante i vari tentativi di rianimazione con defibrillatori o altre modalità fanno parte di una quasi quotidiana esperienza televisiva. Se è interessante l’analisi dei codici comunicativi con cui la morte viene visualizzata nei drama più seguiti (per la cronaca, Grey’s Anatomy in prima serata su La7 ha una media di 500mila spettatori), è ancora più interessante rendersi conto di come queste visualizzazioni modificano le opinioni del pubblico sulla medicina moderna. Le fiction inducono la speranza che medicina e tecnologia possano sconfiggere la morte. Un tema che è diventato un argomento da salotto, almeno fino a quando non irrompe improvvisamente la realtà per spegnere la televisione e riportarci alla vita, o ai suoi ultimi istanti.

 

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