Attualità

Vita da collezionista

L'arte e l'individualismo. Enea Righi si racconta, tra corpo, identità, e impegno. Oggi dal vivo a Studio in Triennale.

di Alessio Ascari

Enea Righi sarà oggi il protagonista, durante Studio in Triennale, di un panel dal titolo “Il fascino del collezionista”. Alle 14.30.

 

Collezionista d’arte e manager, dal 2005 Enea Righi è vicepresidente e consigliere delegato del Cda di Servizi Italia S.p.A e collabora con le principali istituzioni pubbliche italiane e americane in ambito artistico. Domenica 26 maggio sarà ospite di Studio in Triennale, dove terrà un panel intitolato “Il fascino del collezionista – Passione, dinamiche, calcolo e mecenatismo”, insieme a Guido Costa, titolare della galleria di arte contemporanea Guido Costa Projects di Torino, e Andrea Viliani, direttore del museo d’arte contemporanea MADRE di Napoli.

Per l’occasione pubblichiamo sul nostro sito questa intervista, rilasciata ad Alessio Ascari, e pubblicata sul numero 4 di Studio.

 

Come e quando è nata la tua passione per l’arte? Che cosa ti ha spinto a collezionare?

Non c’è stato un momento particolare in cui è iniziata la mia passione per l’arte contemporanea, ma un insieme di coincidenze e di conoscenze unite a una forte curiosità. Posso focalizzare il primo approccio all’arte una ventina di anni fa, mosso dal desiderio di conoscere il lavoro di Mario Schifano, con l’acquisto dell’opera “Il fuggitivo”, una versione pop del “Il ciclista” della Natalia Goncharova. Il mio inizio è stato quindi pittorico figurativo anche perché erano anni del ritorno alla pittura, dopo il periodo concettuale e minimalista degli anni ‘70.

 

Come definiresti la linea e l’identità della collezione? Come si sta evolvendo, in che direzione sta andando? Quali obiettivi, quale visione per il futuro?

Trovo limitante sviluppare una collezione a tema anche perché l’arte è un’esperienza di vita che non può essere circoscritta a un singolo argomento.

La collezione non è nata da un’idea precisa ma si è sviluppata naturalmente insieme a una evoluzione del gusto e della esperienza personale. Oggi posso constatare una chiara linea di coerenza, rivolta soprattutto a temi legati al corpo, identità, impegno politico e sociale. Trovo comunque limitante sviluppare una collezione a tema anche perché l’arte è un’esperienza di vita che non può essere circoscritta a un singolo argomento. È per questa ragione che la collezione si sta sviluppando autonomamente; da una parte ampliando il numero delle opere per ogni singolo artista, dall’altra con un’attenzione particolare ad alcuni artisti giovani dei paesi emergenti e infine riscoprendo il lavoro di artisti storici, dimenticati dal mercato dell’arte e per fortuna oggi recuperati da alcuni giovani curatori.

Non a caso gli ultimi acquisti sono una pièce teatrale di Guy De Cointet, presente anche all’ultima biennale di Venezia, un’opera luminosa storica del 1970 di David Lamelas, una serie di autoritratti di Julius Koller che in questo momento sono esposti al New Museum di New York e un lavoro sempre del 1970 di Robert Breer ora esposto al Baltic in Inghilterra . Questa scelta è anche forse il motivo nel voler rimanere un po’ ai margini della speculazione e della frustrante super offerta di artisti mediocri. Questo atteggiamento mi appartiene anche come carattere.

 

Da un punto di vista psicanalitico i collezionisti, di ogni genere, dall’arte contemporanea ai francobolli, vengono spesso ritratti come degli ossessivi-compulsivi… Tu da che “patologia” sei afflitto?

Sicuramente l’ossessione del possesso è una patologia tipica del collezionista. Anch’io ne sono indiscutibilmente affetto. Di fatto questa ossessione diventa anche un limite del collezionista stesso, perché lo rende fortemente individualista anziché trasformare questa patologia, soprattutto oggi in un momento di gravi difficoltà del sistema dell’arte pubblica, in un elemento a favore dei più e della collettività e con una maggiore fruibilità sociale.

 

Che consigli daresti a un giovane che decidesse di incominciare a collezionare arte contemporanea nel 2011. Dove guardare? Come muoversi? Quali errori non commettere?

Dare consigli è sempre molto difficile perché dipendono dalle intenzioni del collezionare. Si vuole collezionate per investimento? Per speculazione? Per acquisire uno status sociale? Per arredare i muri di casa? O per una passione autentica per l’arte? Solo in quest’ultimo caso, che è quello che mi interessa, occorre usare un pizzico di razionalità unito a un pizzico di irrazionalità e con una buona dosa di follia. Tradotto significa: comperare sempre di un artista un’opera importante e significativa. Essa avrà sempre valore nel tempo. Approfondire in modo sistematico il lavoro dell’artista prima dell’acquisto. Recuperare il ruolo centrale del gallerista e fra questi quelli che fanno ricerca, approfondimento e hanno un forte collegamento curatoriale. Usare tutti i mezzi di informazione disponibili e non lasciarsi influenzare dalle tendenze del momento ma seguire il proprio gusto. E poi lasciarsi andare…

 

Che rapporto hai con la tua città, Bologna? Come giudichi l’andatura delle politiche culturali della città sul contemporaneo? Il museo d’arte contemporanea, MAMbo, è stato aperto in pompa magna nel 2007, ma oggi, per diverse ragioni, appare purtroppo un po’ stanco. Lo stesso vale per la storica fiera d’arte cittadina, Arte Fiera, che non sembra riuscire a tenere il passo delle concorrenti internazionali come Fiac (Parigi) o Frieze (Londra).

Nemo profeta in patria. Bologna è una città provinciale e piccolo borghese. Una città ormai ridotta a poco più di 350.000 persone e la mentalità ne è conseguente. La politica culturale del comune è risultata modesta, inconcludente e di basso profilo. Il contemporaneo poi è sparito da quando MAMbo ha visto decurtati i fondi per gli investimenti culturali. Oggi è il classico museo che potrebbe chiudere e non se ne accorgerebbe nessuno. La direzione risulta superata rispetto a un contesto economico che richiederebbe un ben altro modo di rapportarsi con la città e con coloro che sarebbero pronti a far sistema. Credo di averlo detto e non ricevo più gli inviti per le poche preview che vengono organizzate. Pochi hanno il coraggio di dirlo fatti salvi i tu per tu; perché Bologna è fortemente consociativa ed è governata da un gruppo ristretto di persone. Critichi queste e sei fuori! Perché me lo posso permettere? Bologna non mi ha mai dato nulla in 56 anni di vita né sul piano personale, né sul piano lavorativo. Credo di potere continuare ancora per il resto dei miei anni senza avere bisogno di questo establishment, che tra l’altro l’ha ridotta in uno stato penoso. Se comunque ritengono che posso essere utile a un progetto, sono sempre qui. La stessa Arte Fiera, nonostante i tentativi del direttore artistico Silvia Evangelisti, dovrà prima o poi piegarsi a divenire una buona fiera di arte moderna, mentre sul contemporaneo, allo stato attuale, non può competere con alcuna fiera internazionale.

 

Qual è a tuo parere lo stato del collezionismo privato d’arte contemporanea in Italia oggi?

Credo buona, almeno da quello che sento dai galleristi all’estero. I quali affermano che il collezionismo italiano è uno dei più vivaci d’Europa. I galleristi italiani invece si lamentano sempre… anche perché non riescono a intercettare una serie di acquisti che vengono fatti all’estero dai nostri connazionali, forse per un eccesso di esterofilia.

 

Oggi molti collezionisti, in Italia e all’estero, aprono sempre più spesso fondazioni private e centri d’arte. Quali sono secondo te le ragioni di questo trend, se così possiamo definirlo? Tu hai deciso invece, almeno per ora, di muoverti in una direzione diversa: supportare istituzioni culturali già esistenti (come nel caso di Museion, a Bolzano, al quale hai imprestato a lungo termine buona parte della tua collezione), co-produrre e finanziare mostre ed eventi in musei pubblici (come nel caso della personale di Robert Kusmirowski alla Fondazione Galleria Civica di Trento, o dell’installazione di Philippe Parreno al Castello di Rivoli). Perché questa strada? Quali sono i vantaggi (e gli svantaggi) dell’agire dall’esterno, lateralmente, piuttosto che in prima linea?

Il periodo che viviamo è certamente caratterizzato dall’arretramento del pubblico rispetto al privato, soprattutto nell’ambito economico. Che può fare in questo contesto un cittadino, un amante dell’arte?

La mia è una scelta come le altre. Né più né meno valida. Forse è più consona al mio carattere e alla mia impostazione culturale. Ho sempre pensato infatti che al sistema pubblico (nell’arte, nella società, nell’istruzione) vada demandata la funzione di socialità, di allargamento del sapere e che al privato vengano affidati importanti ed essenziali compiti di sussidiarietà. È del tutto evidente inoltre che il rapporto tra pubblico e privato tende a modificarsi nel tempo a seconda delle condizioni politiche ed economiche. Il periodo che viviamo è certamente caratterizzato dall’arretramento del pubblico rispetto al privato, soprattutto nell’ambito economico. Il pubblico non ha più le risorse per prestare tutti i servizi al cittadino. Non occorreva quindi uno dei tanti guru economici per profetizzare che il primo settore ad andare in crisi sarebbe stato il sistema pubblico dell’arte, quello cioè che investe più sull’anima del cittadino che su un bisogno reale, concreto e quotidiano dello stesso. Parallelamente a questo la crisi bancaria e delle fondazioni proprietarie delle stesse è stata devastante e le tante istituzioni culturali che avevano fatto affidamento sui lauti finanziamenti degli stessi, hanno visto crollare i contributi. Che può fare in questo contesto un cittadino, un amante dell’arte? Io ho dato la mia risposta personale che è quella, nei limiti delle proprie possibilità, di affiancare il sistema pubblico e all’interno di questo, quelle istituzioni che presentavano progetti più consoni al mio modo di vedere e sentire l’arte contemporanea.

Da qui sono nati progetti e ne sono in cantiere altri in cui nasce una vera e propria partnership con giovani curatori e direttori di musei. Non faccio altro quindi che condividere un progetto che gradisco. Non mi interessa infatti esercitare nessun potere nell’arte. Tu mi chiedi quali sono i vantaggi o gli svantaggi di questa scelta? Ti posso rispondere nessuno in entrambi i casi. Perché non essere in prima linea con una propria fondazione? Lasciami dire che in Italia è un fiorire di fondazioni estemporanee e di livello piuttosto provinciale. Si investono soldi senza alcun ritorno pubblico sul piano culturale. Pensa un po’ se si riuscisse a canalizzare questi investimenti in flussi di denaro più ampi tra i tanti collezionisti coinvolti, su progetti di ben altro respiro e su istituzioni museali di livello internazionale, quali risultati otterremmo come italiani! Proprio però quella caratteristica, di cui parlavamo prima, dell’individualismo del collezionista, rende un’idea come questa una strada impervia e quasi impossibile. Io continuo per la mia in beata solitudine.

 

Tre giovani artisti da tenere d’occhio nei prossimi anni…

Oltre ai già affermati R.Gander, C. Von Wedemeyer, M. Leckey, M. Garcia Torres sto guardando con particolare attenzione il lavoro di Ayren Anastas & Rene Gabri (Palestina-Iran) , Pratchaya Phinthong (Tailandia), Gintaras Didziapetris (Lituania) Michael E. Smith (America).

 

C’è un lavoro che hai comprato e di cui ti sei pentito? Quale è stato, se c’è stato, il più grande “strafalcione” della collezione Enea Righi?

Pentimenti non ne ho, posso eventualmente provare un interesse diverso nei confronti di quelle opere che oggi non rispecchiano la mia evoluzione o il mio cambiamento di gusto. Non li considererei “strafalcioni” ma “anelli di passaggio” naturali nello sviluppo di una collezione. Hanno comunque una loro ragione d’essere.

 

C’è un lavoro che non sei riuscito a comprare, magari a un’asta, e su cui hai lasciato il cuore?

Avevo appena cominciato a collezionare, quando mi si presentò l’occasione di un’opera molto importante, che un collezionista italiano doveva vendere per ragioni economiche. Era “L’annunciazione” di Richter dei primi anni ‘70. Proveniva dalla prima mostra dell’artista in Italia, dove non vendette un quadro. Un’opera straordinaria di impostazione raffaellesca. Il prezzo era assolutamente un affare, ma non avevo i soldi per comperarlo. Andò a un museo americano. Mi è sempre rimasta nel cuore, ma poi capii che non è necessario rincorrere un’opera. Un’altra occasione si presenterà nella vita. Questo è anche un piccolo suggerimento ai giovani collezionisti: non avere la foga di comprare. Domani può capitare un’occasione migliore.

 

Se fossi messo nelle condizioni di salvare una sola opera della tua collezione quale sceglieresti e perché?

Ardua scelta. Credo uno dei lavori di Boetti perché rappresenta indiscutibilmente l’artista cardine sul quale si è sviluppata l’intera collezione e avrei così la possibilità di ricominciarne un’altra. Un’altra volta.

 

 

Nell’immagine: Philippe Parreno, Speech Boubles (Silver) 2009. Courtesy dell’artista e Castello di Rivoli.