Attualità
Fidatevi di Tomorrowland
La nostra ossessione per il futuro, i jetpack e tutto il resto: perché l'ultimo film di Brad Bird non va assolutamente perso.
Se c’è una persona che mi fa paura, quella è Walt Disney. Mentre il suo lascito più evidente è un mondo fantastico popolato da animali antropomorfi e parlanti (con i guanti) in grado di affascinare bambini di ogni età da più di sessant’anni, esiste una lunga serie di aneddoti che puntano nella direzione opposta.
Il Walt Disney dittatoriale, quello del famoso episodio del divieto di baffi in ufficio. Quello che non voleva fossero assunte delle donne nella sua azienda ma che contemporaneamente realizzava piccoli film d’animazione per spiegare le mestruazioni alle ragazzine di tutte le scuole degli Stati Uniti. Quello che ha fatto di tutto affinché nessuno fosse dichiarato morto all’interno dei suoi parchi divertimento. Quello che è stato ibernato.
Poi c’è quello megalomane. Ma non megalomane “sano”, ovvero un artista capace con il suo lavoro di influenzare intere generazioni di artisti nella creazione dell’immaginario fantastico di un intero pianeta, ma megalomane “preoccupante”. Quel tipo di megalomania che ti porta a pensare di poter essere in grado di cambiarlo questo mondo, di migliorarlo, di trasformarlo a tua immagine e somiglianza. In questo senso, il progetto più folle di Walt Disney fu sicuramente EPCOT, sigla che sta per Experimental Prototype Community of Tomorrow.
Verso la metà degli anni Sessanta, Walt Disney si convinse che il suo scopo era quello di creare una città del futuro. Una città per i suoi nipoti, distante dalla confusione e dalla violenza delle metropoli della west coast, vicina invece all’ordine e alla pulizia della sua Disneyland di Orlando. Non stiamo parlando di un altro parco a tema, bensì di una città con un vero e proprio piano urbano e architettonico. Disney cominciò ad interessarsi all’argomento e, insieme ai suoi Imagineering – ingegneri, architetti, artigiani e progettisti chiamati a “immaginare” e costruire le attrazioni principali del suo parco – sviluppò un vero e proprio progetto per rendere EPCOT una realtà. Comprò 113 kilometri quadrati di terra appena fuori Orlando e mise in piedi una petizione per chiedere allo Stato della Florida di poter avere giurisdizione municipale sul territorio in oggetto, in modo da poter gestire direttamente le costruzioni.
Esiste anche un video di una ventina di minuti circa in cui Walt Disney in persona, pochi mesi prima della sua morte, spiega a possibili investitori che l’incredibile successo del suo parco di divertimenti e dei quattro padiglioni costruiti per l’EXPO di New York del 1964/65, possono voler dire solo una cosa: è l’uomo giusto per costruire il Futuro. EPCOT, dopo la morte di Disney, divenne nel 1982 il secondo dei quattro parchi a tema del Walt Disney World Resort, ma doveva essere decisamente altro. Nel video – dal minuto 10 in avanti – viene spiegato nel dettaglio che EPCOT doveva essere una sorta di Città/Expo, in costante mutazione, territorio di sperimentazione per quel che riguarda la costruzione di mezzi di locomozione, di palazzi e spazi pubblici.
Vedere i modellini e i disegni preparativi di EPCOT, per chi ha più di trentacinque anni, non può che far venire in mente quell’ultimo periodo della Storia in cui esisteva una previsualizzazione del futuro. Ricordo distintamente che negli anni Ottanta, le riviste dei miei genitori che trovavo in casa, riportavano disegni in cui stereotipiche famiglie del futuro vivevano sulla Luna, vestiti come i Jetsons, in case trasparenti a forma di cupola e si spostavano su aereodinamiche monorotaie o macchine volanti. Il Futuro, l’anno 2000, era un luogo della fantasia piuttosto concreto. Sapevamo cosa aspettarci perché esistevano dei modelli di riferimento. Esiste una corrente artistica, il Retrofuturismo, nata proprio da questo, dall’idea che un tempo avevamo del futuro. Si tratta di un mondo profondamente ottimista, società utopiche caratterizzate da un design anni ’50 e ’60, che derivava dall’allora nascente impossibilità dell’uomo di relazionarsi con quello che stavano diventando le città. Per fuggire da un mondo che stava diventando progressivamente sempre più grigio e opprimente, ci si rifugiava in una realtà utopica in cui trovavano ancora spazio gli slanci ottimistici del boom economico.
Col tempo la capacità dell’uomo di visualizzare il futuro è andata diminuendo. Oggi non esiste un immaginario coerente di quello che sarà il nostro mondo tra un centinaio di anni. Mentre la tecnologia continua a fare passi da gigante nel nostro piccolo mondo privato, è venuta a mancare una visione d’insieme. Date un occhio ai più recenti film di fantascienza: le città del futuro del remake di Total Recall o di Cloud Atlas recuperano in maniera semplicemente più “sfavillante” l’immaginario di quelle che vedevamo su grande schermo mezzo secolo fa.
Fa l’animatore alla Disney, scrive per Spielberg, crea Krusty il Clown: poi Brad Bird si dà a Il Gigante di Ferro
Sarà forse per questo motivo che ogni tanto ad Hollywood arriva qualche regista in grado di riflettere ancora su quell’idea di futuro o di inserirla in un contesto narrativo attuale. Era successo con il più sottovalutato dei film d’animazione dell’ultimo periodo, Robots di Chris Wedge; c’aveva provato Kerry Conran con il bizzarro Sky Captain and The World of Tomorrow e ultimamente il discorso s’era spostato nel mondo videoludico, con titoli come Fallout. Anche se non mancano le differenze, il mondo dello steampunk – quello di Metropolis di Rintaro o di quel pasticcio che era Sucker Punch – è avvicinabile al discorso che abbiamo fatto fino ad ora.
Ma c’è un regista che ha elevato questo tema a personale poetica, e il suo nome è Brad Bird. Disegnatore e animatore prodigio fin dall’età di 14 anni, Brad Bird ha attraversato la storia del grande cinema di fantasia statunitense. Frequenta il California Institute of the Arts dove conosce John Lasseter, lavora nel reparto animation della Disney insieme al suo grande amico Tim Burton, realizza parte dell’animazione per Piccolo Nemo – Avventure nel Mondo dei Sogni, scrive una sceneggiatura per una trasposizione cinematografica di The Spirit approvata da Will Eisner in persona, realizza alcune delle prime sequenze di prova per Tron, scrive alcuni degli episodi migliori per la serie Amazing Stories sotto la supervisione di Steven Spielberg, ed arriva a lavorare per I Simpsons introducendo nella serie il personaggio di Krusty il Clown. Dopo questa incredibile gavetta esordisce a 42 anni con il suo primo lungometraggio animato: Il Gigante di Ferro.
Tratto dal racconto di fantascienza per ragazzi del 1968 dello scrittore e poeta inglese Ted Hughes, racconta la storia dell’amicizia tra un bambino e un robot altro 30 metri negli Stati Uniti del 1957, quelli della Guerra Fredda, quelli post-Sputnik. Il Gigante di Ferro, oltre ad essere un film estremamente emozionante, è in grado di recuperare un immaginario in totale controtendenza per l’epoca della sua realizzazione – il 1999, lo stesso anno del primo Matrix – e di inserirlo in un contesto popolare.
L’anno successivo Bird viene contattato da Damon Lindelof per dirigere un progetto a cui sta lavorando come sceneggiatore e produttore. Il titolo iniziale era 1952, anno in cui inizia la storia, ma è stato poi modificato in Tomorrowland, come l’omonima futuristica attrazione dei parchi Disney. E il cerchio in qualche modo si chiude. Il film è l’omaggio definitivo di Bird al suo modello di ispirazione Walt Disney e alla sua creazione più ambiziosa, quella EPCOT di cui abbiamo parlato a inizio pezzo. Qui, finalmente, in forma live action, trovano spazio tutte le ossessioni del cinema di Bird: c’è lo stesso bambino de Il Gigante di Ferro che presenta una sua invenzione – un jetpack, ovviamente – all’EXPO di New York del 1964, una civiltà parallela costruita dalle migliori e più fantasiose menti della storia (i già citati Imagineering della Disney) uscita da un manuale retrofuturista, pupazzi replicanti dal sorriso smagliante, trabocchetti alla Chuck Jones, un personaggio che si chiama Hugo Gernsback, portali spazio temporali, ascensori che permettono di vedere il futuro, citazioni dalle foto col grano di Agnes Denes, città intelligenti in grado di modificarsi e di aggiustarsi da sole, accenni di steampunk, vecchie navicelle intradimensionali nascoste nella Torre Eiffel, macchine volanti e intelligenze artificiali.
Oltre ad essere quindi un più che esauriente compendio di tutto ciò che è stata la nostra vecchia visione del futuro, Tomorrowland recupera in maniera efficace anche l’aria di quel periodo: distante dalla nostalgia anni Ottanta e in antitesi con il presumibile ritorno del post atomico, lo script di Bird riesce a riesumare un ottimismo e uno spirito fanciullesco assolutamente irresistibili. Il futuro è ancora da scrivere, lo si può ancora immaginare e a farlo saranno quelli che passano la vita a guardare verso le stelle.
Sfortunatamente però il prodotto sta andando male quasi ovunque nel mondo. A fronte di un investimento iniziale di 190 milioni di dollari, al botteghino statunitense ne ha guadagnati solo 70 e poco di più nel resto del mondo. Il problema sicuramente è stato di comunicazione: venduto come un film per bambini, con una locandina che tenta di strizzare l’occhio al pubblico adolescente in stile Hunger Games, Tomorrowland è un film d’avventura fin troppo raffinato e sofisticato per il pubblico verso il quale l’ufficio stampa della Disney ha pensato la propria campagna pubblicitaria. Non è un caso che molti articoli pubblicati oltreoceano a ridosso dell’uscita abbiamo interpretato il film semplicemente come un lungo spot all’omonima attrazione del parco divertimenti, senza riuscire ad andare oltre all’omonimia modello Pirati dei Caraibi. Un vero e proprio peccato. In cuor nostro abbiamo la certezza che col tempo, come già accaduto con Il Gigante di Ferro, Tomorrowland verrà rivalutato. Non perdetevelo.
Nell’immagine: una scena di Tomorrowland