Attualità

The Dark Side of the Jobs

Esce oggi in Italia Steve Jobs del regista Danny Boyle. Un riuscito biopic che mostra il lato oscuro di uno dei volti del nostro tempo.

di Federico Bernocchi

Partiamo da un dato che può apparire superfluo, ma che in realtà ha una sua importanza. Il poster ufficiale del film Steve Jobs di Danny Boyle non riporta la scritta «dal regista di Trainspotting». Sono andato a controllare: c’era su quello di In Trance, l’orrido thriller psicologico che nessuno ricorda (se non per Rosario Dawson) e anche su quello del precedente, 127 Ore, in cui alla fine si tenta di far piangere il pubblico con i Sigur Rós a volume Krakatoa. Facciamo due calcoli : In Trance è un film del 2013, Trainspotting del 1996. In mezzo ci passano diciassette anni, sette lungometraggi, due film per la tv, un cortometraggio di fantascienza, la regia di una produzione teatrale gigantesca come il Frankenstein di Nick Dear, l’apertura dei Giochi olimpici di Londra e otto Oscar – tra cui anche quello per Miglior regia – per il film The Millionaire del 2008. Eppure su quella locandina c’era ancora scritto: «Dal regista di Trainspotting».

Cosa vuol dire? Semplicemente che la fama di quel film è superiore a quella del suo creatore. Significa che Danny Boyle, pur avendo tentato in tutti questi anni di lasciare il segno con film molto diversi tra loro, non è più stato in grado di entrare così in profondità nell’immaginario collettivo. Insomma, lui s’è impegnato, ha fatto questo e quello, l’horror finto povero, la mega-produzione fantascientifica, il film esotico terzomondista, ma quelli volevano solo Trainspotting 2. Lo sapete com’è fatto il pubblico, no? Gente irriconoscente, cattiva, mai contenta. E io mi immagino la frustrazione del povero Danny, seduto sulla sua poltrona di casa, intento a guardare fuori dalla finestra in cerca di ispirazione per riuscire a costruire un mondo talmente nuovo e potente da permettergli di entrare ancora una volta nel club molto esclusivo degli Autori con la A maiuscola. Poi arriva la locandina del film e, niente, «dal regista di Trainspotting».

Steve-Jobs-locandinaIl poster di Steve Jobs invece è pulito, bianco, minimale. Da una parte il profilo del protagonista, dall’altra i nomi degli attori, del regista e dello sceneggiatore. Niente rimandi al passato, basta con vecchi titoli e glorie ormai lontane. S’è voltato pagina, s’è deciso di ripartire da zero. Un po’ come quelle band che dopo una sbandata creativa che le ha allontanate dall’amore dei fan della prima ora decidono di intitolare il quarto album semplicemente con il nome del gruppo. Una dichiarazione di intenti, una rigenerazione. L’impressione che si ha, ancora prima di vedere il film, è che Boyle sia consapevole che la sua immagine necessiti di una ripulita, che qui ci si può giocare la carriera. Anche perché parliamo di un film importante, grosso, atteso da anni. Di quelli che – se te la giochi bene – due o tre Oscar li porti tranquillamente a casa.

Steve Jobs muore il 5 ottobre del 2011. Diciannove giorni dopo, il 24 dello stesso mese, mentre sulle lavagne dei pub di mezzo mondo compare la scritta «Stay hungry, Stay foolish» esce Steve Jobs, la biografia autorizzata firmata da Walter Isaacson. Si tratta di una lunga serie di interviste – quaranta con Jobs e più di cento con amici, colleghi e famigliari – raccolte dall’autore nell’arco di due anni. Isaacson è uno scrittore, giornalista ed ex dirigente della Cnn e del Time. Ha già scritto delle ottime e vendutissime biografie di personaggi come Albert Einstein, Benjamin Franklin e Henry Kissinger. È stato Jobs in persona, dopo aver saputo di essere malato di cancro, a sceglierlo per scrivere la sua biografia. Durante la stesura del libro, in un periodo in cui quindi la figura di Jobs era già vicina alla beatificazione, Isaacson gli è stato molto vicino. A quanto pare ha avuto accesso quasi totale alla vita anche privata del cofondatore, presidente e amministratore delegato di uno dei brand più diffusi e iconici del mondo.

Idoli, miti che ammiriamo o sentiamo a noi affini grazie alla loro produzione descritti anche nei loro lati oscuri

Ma la cosa forse più interessante, preso anche in considerazione il fatto che era la prima volta che Isaacson scriveva di una persona ancora in vita, è che Steve Jobs ha rinunciato al diritto sul controllo dei contenuti del libro. Ha semplicemente scelto la foto di copertina – il famoso ritratto di Albert Watson del 2006 – e ha chiesto di poterlo leggere in anteprima, ma ha garantito la massima libertà al giornalista. È un dato interessante perché quello che viene fuori dal libro è un ritratto complesso, di un uomo geniale, di un’intelligenza cristallina, in grado di influenzare la cultura e la vita di tutti noi, ma che in molti potrebbero descrivere facilmente come un po’ stronzo. Come abbiamo spesso scritto anche qui, il biopic moderno non è più una semplice agiografia ma un racconto sfaccettato in cui si mostrano luci e ombre del personaggio. Idoli, miti inavvicinabili che ammiriamo o sentiamo a noi affini grazie alla loro produzione – dischi, teorie, libri, film o iPod che siano – descritti anche nei loro lati oscuri, sgradevoli. Il tutto per renderli tridimensionali, più reali, fallibili e per questo più vicini agli spettatori.

Aaron Sorkin è uno degli sceneggiatori più influenti del nostro cinema. Piaccia o meno (come Boyle ha estimatori e detrattori in ugual numero e mossi dallo stesso ardore), ha uno stile facilmente riconoscibile e unico. «Unico» nel senso che è anche tra quelli più imitati, copiati, ma fino a ora nessuno è riuscito a eguagliarlo. Esistono i film à la Sorkin, ma si capisce subito se è scritto da lui o meno. Un po’ come accadeva alla fine degli anni Novanta con Tarantino: non basta mettere due gangster in macchina a parlare di canzoni pop per risultare dei geni. Sorkin ha praticamente inventato il Walk and Talk, quella tecnica narrativa in cui i protagonisti parlano tra di loro mentre camminano dal punto A al punto B. Avete presente quando il giornalista giovane e appassionato, quello che ha appena messo le mani su uno scoop che sta per cambiare il mondo, incontra tra i corridoi della redazione del suo giornale il direttore e abbatte i suoi iniziali timori con una serie di dialoghi, e botta-e-risposta al cardioplama? Ecco, quello è Sorkin. Nel suo curriculum ha perle come Codice d’Onore, Il Presidente – Una Storia d’Amore, The Social Network e ovviamente The West Wing – Tutti gli Uomini del Presidente, serie televisiva che ha in qualche modo cristallizzato e definito il suo stile.

A lui è toccato il compito non facile di adattare per il grande schermo il lavoro fatto da Isaacson. Certo, a ben vedere non poteva essere altrimenti: è forse l’unico in grado di rendere cinematografico un libro di interviste, ma tuttavia dev’essere stato – immaginiamo – un lavoro difficile e complesso. Per una serie di motivi diversi tra loro. Parliamo come detto di un uomo che è stato santificato dalla maggioranza delle persone mentre era ancora in vita, e di cui sappiamo volenti o nolenti quasi tutto. Un uomo la cui immagine è tra le più riconoscibili, anche esteticamente, degli ultimi decenni. A questo proposito permettetemi di aprire una piccola parentesi. Noi abbiamo impresso nella nostra memoria il volto, la figura di Steve Jobs, il suo modo di parlare, i suoi vestiti, proprio grazie a lui che – come dice giustamente il comico Bill Burr – ha incentrato gran parte delle sue campagne pubblicitarie paragonandosi alle grande icone della storia: John Lennon, Gandhi, Mohammed Alì, «This Guy!».

michael-fassbender-steve-jobs-movie-2015

Il tema della riconoscibilità di Jobs è centrale nell’avvicinarsi al film di Boyle e Sorkin. Subito dopo la morte, Hollywood si rese conto che era necessario realizzare un film sulla sua storia (in realtà ne esisteva già uno che raccontava gli esordi suoi e di Bill Gates: I Pirati di Silicon Valley del 1999), per questo venne girato in fretta e furia Jobs, una sorta di istant movie sceneggiato dall’esordiente Matt Whiteley e diretto da Joshua Michael Stern, uno che aveva in curriculum The Contractor – Rischio Supremo, un film con Wesley Snipes del 2007. Non fate così: nulla contro i film action girati in Bulgaria con Wesley Snipes, ma solitamente tendono ad essere differenti dai biopic sui geni dell’informatica. Jobs basava il suo appeal unicamente sul fatto che – adeguatamente truccato – il protagonista Ashton Kutcher era identico a Steve Jobs da giovane. “Guarda! Sembra proprio lui”. E basta: non c’era nulla più di così, ma in quel momento era più importante battere il ferro finché era caldo piuttosto che concentrarsi sul racconto. Riguardando a questo film diventa assolutamente geniale la scelta di Boyle di prendere un attore esteticamente diversissimo da Jobs per interpretarlo. Anche Michael Fassbender viene ovviamente truccato in modo da ricordarci quelle immagini, ma non si scade mai nel tranello della semplice imitazione.

Steve Jobs è il resoconto del dietro le quinte, del backstage delle presentazioni pubbliche più importanti della sua carriera. Non si vedono mai i keynote veri e propri – li abbiamo già visti su YouTube o al telegiornale – ma si guarda dal buco della serratura, si spia quello che c’è stato dietro. In forma quasi teatrale, con tanto di entrate e uscite di scena, quinte, palchi e set, ci si concentra su una serie di dialoghi con i tecnici della Apple, la sua segretaria (una Kate Winslet in stato di grazia), la ex compagna, la figlia, i suoi capi (spunta anche Jeff Daniels, protagonista della serie The Newsroom, altro prodotto celebre di Sorkin), ex colleghi ed ex amici come il povero Steve Wozniak (Seth Rogen), giornalisti e altri ancora. In questo modo, con una mossa geniale, lo sceneggiatore è riuscito a trasformare una serie di interviste in pura materia cinematografica: dialoghi serrati, battute, suspense e colpi di scena. Il tutto servito su un piatto d’argento a Danny Boyle.

Il regista di The Beach, Piccoli omicidi tra amici e Una vita esagerata ha uno stile volutamente barocco. Ha una mano evidente, quando non ingombrante. Riprese convulse, a mano, quasi mai dritte. Frame ricolmi di elementi, spesso stratificati e modificati digitalmente. Un montaggio frenetico e folle. Qui però sembra aver intuito la necessità di scomparire, di farsi il meno invadente possibile per lasciare il giusto spazio al lavoro di Sorkin e dei suoi attori. Se si escludono alcuni momenti in cui non riesce a rinunciare a qualche inutile vezzo arty (le immagini storiche proiettate sulle pareti bianche a cui sono appoggiati Fassbender e la Winslet), qui è più asciutto e rigoroso di quanto non lo fosse mai stato in tutta la sua carriera. E il risultato, a dispetto di incassi modesti e di quell’aria da compitino svolto con precisione senza troppa passione, è decisamente convincente. Se sulla locandina del prossimo film di Danny Boyle ci fosse scritto “dal regista di Steve Jobs”, non ci troverei nulla da dire. Anzi.