Attualità
The Dark Side of the Jobs
Esce oggi in Italia Steve Jobs del regista Danny Boyle. Un riuscito biopic che mostra il lato oscuro di uno dei volti del nostro tempo.
Partiamo da un dato che può apparire superfluo, ma che in realtà ha una sua importanza. Il poster ufficiale del film Steve Jobs di Danny Boyle non riporta la scritta «dal regista di Trainspotting». Sono andato a controllare: c’era su quello di In Trance, l’orrido thriller psicologico che nessuno ricorda (se non per Rosario Dawson) e anche su quello del precedente, 127 Ore, in cui alla fine si tenta di far piangere il pubblico con i Sigur Rós a volume Krakatoa. Facciamo due calcoli : In Trance è un film del 2013, Trainspotting del 1996. In mezzo ci passano diciassette anni, sette lungometraggi, due film per la tv, un cortometraggio di fantascienza, la regia di una produzione teatrale gigantesca come il Frankenstein di Nick Dear, l’apertura dei Giochi olimpici di Londra e otto Oscar – tra cui anche quello per Miglior regia – per il film The Millionaire del 2008. Eppure su quella locandina c’era ancora scritto: «Dal regista di Trainspotting».
Cosa vuol dire? Semplicemente che la fama di quel film è superiore a quella del suo creatore. Significa che Danny Boyle, pur avendo tentato in tutti questi anni di lasciare il segno con film molto diversi tra loro, non è più stato in grado di entrare così in profondità nell’immaginario collettivo. Insomma, lui s’è impegnato, ha fatto questo e quello, l’horror finto povero, la mega-produzione fantascientifica, il film esotico terzomondista, ma quelli volevano solo Trainspotting 2. Lo sapete com’è fatto il pubblico, no? Gente irriconoscente, cattiva, mai contenta. E io mi immagino la frustrazione del povero Danny, seduto sulla sua poltrona di casa, intento a guardare fuori dalla finestra in cerca di ispirazione per riuscire a costruire un mondo talmente nuovo e potente da permettergli di entrare ancora una volta nel club molto esclusivo degli Autori con la A maiuscola. Poi arriva la locandina del film e, niente, «dal regista di Trainspotting».
Il tema della riconoscibilità di Jobs è centrale nell’avvicinarsi al film di Boyle e Sorkin. Subito dopo la morte, Hollywood si rese conto che era necessario realizzare un film sulla sua storia (in realtà ne esisteva già uno che raccontava gli esordi suoi e di Bill Gates: I Pirati di Silicon Valley del 1999), per questo venne girato in fretta e furia Jobs, una sorta di istant movie sceneggiato dall’esordiente Matt Whiteley e diretto da Joshua Michael Stern, uno che aveva in curriculum The Contractor – Rischio Supremo, un film con Wesley Snipes del 2007. Non fate così: nulla contro i film action girati in Bulgaria con Wesley Snipes, ma solitamente tendono ad essere differenti dai biopic sui geni dell’informatica. Jobs basava il suo appeal unicamente sul fatto che – adeguatamente truccato – il protagonista Ashton Kutcher era identico a Steve Jobs da giovane. “Guarda! Sembra proprio lui”. E basta: non c’era nulla più di così, ma in quel momento era più importante battere il ferro finché era caldo piuttosto che concentrarsi sul racconto. Riguardando a questo film diventa assolutamente geniale la scelta di Boyle di prendere un attore esteticamente diversissimo da Jobs per interpretarlo. Anche Michael Fassbender viene ovviamente truccato in modo da ricordarci quelle immagini, ma non si scade mai nel tranello della semplice imitazione.
Steve Jobs è il resoconto del dietro le quinte, del backstage delle presentazioni pubbliche più importanti della sua carriera. Non si vedono mai i keynote veri e propri – li abbiamo già visti su YouTube o al telegiornale – ma si guarda dal buco della serratura, si spia quello che c’è stato dietro. In forma quasi teatrale, con tanto di entrate e uscite di scena, quinte, palchi e set, ci si concentra su una serie di dialoghi con i tecnici della Apple, la sua segretaria (una Kate Winslet in stato di grazia), la ex compagna, la figlia, i suoi capi (spunta anche Jeff Daniels, protagonista della serie The Newsroom, altro prodotto celebre di Sorkin), ex colleghi ed ex amici come il povero Steve Wozniak (Seth Rogen), giornalisti e altri ancora. In questo modo, con una mossa geniale, lo sceneggiatore è riuscito a trasformare una serie di interviste in pura materia cinematografica: dialoghi serrati, battute, suspense e colpi di scena. Il tutto servito su un piatto d’argento a Danny Boyle.
Il regista di The Beach, Piccoli omicidi tra amici e Una vita esagerata ha uno stile volutamente barocco. Ha una mano evidente, quando non ingombrante. Riprese convulse, a mano, quasi mai dritte. Frame ricolmi di elementi, spesso stratificati e modificati digitalmente. Un montaggio frenetico e folle. Qui però sembra aver intuito la necessità di scomparire, di farsi il meno invadente possibile per lasciare il giusto spazio al lavoro di Sorkin e dei suoi attori. Se si escludono alcuni momenti in cui non riesce a rinunciare a qualche inutile vezzo arty (le immagini storiche proiettate sulle pareti bianche a cui sono appoggiati Fassbender e la Winslet), qui è più asciutto e rigoroso di quanto non lo fosse mai stato in tutta la sua carriera. E il risultato, a dispetto di incassi modesti e di quell’aria da compitino svolto con precisione senza troppa passione, è decisamente convincente. Se sulla locandina del prossimo film di Danny Boyle ci fosse scritto “dal regista di Steve Jobs”, non ci troverei nulla da dire. Anzi.