Attualità

Uno di noi

Dai graffiti bolognesi al nuovo L'arbitro presentato a Venezia, il ritorno di Stefano Accorsi, il "sempregiovane" complessato del cinema italiano.

di Federico Bernocchi

Verso la fine degli anni Novanta sui muri del vecchio cinema Lumiére della Cineteca di Bologna, prima dello spostamento presso l’attuale sede in via Riva di Reno, c’erano delle bellissime scritte sui muri. Visto che ho sempre avuto questa malattia gravissima per cui mi presento al cinema con anticipi assolutamente esagerati, ho avuto modo di studiarle a lungo e di ragionarci sopra. La cosa divertente è che si trattava sempre di scritte da hooligan, da combattente duro e puro del Cinema. Simili agli sfottò calcistici che si vedevano in giro per la città il lunedì, ma anche agli slogan più “compagni”, come Meno internet, più cabernet o l’immortale Mal comune, Pippo Baudo. Solo che si trattava di cinema, non dei ragazzi della Fossa dei Leoni. La prima che mi viene in mente è forse la migliore: Abbas Kiarostami, W la fika!.

Sul muro, una frase di sole tre parole. Non c’era nessun ragionamento dietro, nessuna citazione o gioco di parole. Era più una certezza, una verità rivelata al mondo intero. Stefano Accorsi cane

Un’intuizione geniale, degna del miglior Bartezzaghi, che riesce in maniera fulminea a prendersi gioco del nome del famoso regista e sceneggiatore iraniano, al tempo protégé dei cinephile più oltranzisti, mettendo in relazione “quella sua idea di cinema” con il ben più immediato grido di battaglia da adolescente ormonizzato. Semplicemente perfetta. Al suo fianco c’era una meno efficace ma sempre soddisfacente Ken Loach, Ruina Mundi. In questo caso si prendeva in prestito il titolo di una delle più famose canzoni di Girolamo Savonarola, il De Ruina Mundi del 1472, per dileggiare il politicizzatissimo regista inglese di film come Terra e Libertà Il Vento che Accarezza l’Erba. Poi, appena sotto a questa scritta ce n’era un’altra, in nero e a lettere molto grosse. Era una frase di sole tre parole. Non c’era nessun ragionamento dietro, nessuna citazione o gioco di parole. Era più una certezza, una verità rivelata al mondo intero. Stefano Accorsi cane.

Domani, giovedì 12 settembre, esce nelle nostre sale L’Arbitro ed è diretto da Paolo Zucca. La pellicola, girata in bianco e nero, nasce da un precedente corto con cui Zucca ha vinto un David di Donatello e il Premio Speciale della Giuria a Clermont-Ferrand. Ora è un lungometraggio che ha avuto l’onore di aprire Le Giornate degli Autori all’appena conclusosi Festival del Cinema di Venezia. La storia, ambientata in Sardegna, è quella della rivalità tra due squadrette di calcio di terza categoria, ma il tutto sembra ruotare attorno alla figura centrale dell’arbitro del titolo, interpretato appunto da Stefano Accorsi. Da quello che abbiamo letto e intuito dal trailer il suo personaggio si chiama Cruciani ed è un arbitro che, dopo aver assaporato il successo e dei guai con la giustizia sportiva, torna a dirigere inutili partitelle tra scapoli e ammogliati. Oltre a lui nel cast ci sono una serie di attori emergenti, il caratterista Marco Messeri, la comica Geppi Cucciari e il campione mondiale di faccette buffe Francesco Pannofino, entrato nei nostri cuori per la sua parte in Boris e successivamente impegnato in una manciata di film italiani il più delle volte sfortunatamente deludenti. Ma tutta l’attenzione è rivolta a lui, a Stefano Accorsi. Prima dell’inizio del Festival si sono lette molte interviste all’attore e al film di Zucca è stata dedicata una certa attenzione. Ma non poteva andare diversamente.

Pur avendo una carriera ormai lunga e di successo, aveva alle calcagna anche un impressionante numero di detrattori anche piuttosto feroci. Accorsi, nel ’99 aveva gli haters

Il film è obiettivamente curioso: in primo luogo perché parla di calcio, argomento come abbiamo già detto tabù per il cinema italiano  ed inoltre possiamo definirlo come esteticamente azzardato. E poi c’è Stefano Accorsi, che giustamente crea interesse. Anche solo per una questione di tempo. Il suo ultimo film infatti risale al 2011 ed era Ruggine di Daniele Gaglianone, una favola dark dove Filippo Timi (come un orco) si mangiava tutto e tutti e dove il nostro passava decisamente in secondo piano. Ma già ai tempi di Ruggine Stefano Accorsi per noi era quasi un desaparecido. Dopo un lungo, lunghissimo periodo in cui era stato senza alcun dubbio uno dei volti più noti e popolari, era velocemente scomparso dai nostri radar. Certo, in mezzo c’era stato il matrimonio con l’attrice e modella francese Laetitia Casta, la televisione, il teatro e mille altri impegni che l’avevano allontanato dal grande schermo, ma forse le cose si possono vedere in maniera diversa. Forse Stefano Accorsi s’è in parte allontanato dal cinema (italiano) perché stanco di essere odiato. Certo, sicuro è amato da una gran parte del pubblico, ma è spesso preso come esempio, nome simbolo di un modo di fare cinema che tanti altri detestano. Ho messo italiano tra parentesi nella frase precedente perché esistono anche due film da lui interpretati addirittura inediti in Italia e che invece in Francia, Inghilterra e Stati Uniti hanno avuto buon riscontro di pubblico e critica. Per i più curiosi parliamo di La Faute à Fidel! Del 2006 di Julie Gavras e di La Jeune Fille et Les Loups diretto nel 2008 da Gilles Legrand e interpretato anche dalla Casta. Il dato che però all’epoca isolavo da quella scritta così decisa era che Stefano Accorsi, pur avendo una carriera ormai lunga e di successo, aveva alle calcagna anche un impressionante numero di detrattori anche piuttosto feroci. Accorsi, nel ’99 aveva gli haters.

Accorsi è poi diventato la figura chiave del nostro cinema degli ultimi decenni: il post trentenne in crisi esistenziale, che ha una famiglia, delle certezze ma qualche rimpianto, e la voglia di tornare a essere “il vecchio ghepardo di un tempo”

Ma per quale motivo? E soprattutto, per colpa di chi? Dal mio punto di vista Stefano Accorsi non è un bravo attore. Il parere è puramente personale per cui prendetelo con tutte le pinze del caso ma se tralascio la sua piccola partecipazione nel film La Stanza del Figlio di Nanni Moretti, non mi ha mai suscitato particolari entusiasmi. Ciò non toglie che abbia attraversato ormai una quindicina di anni del nostri cinema. Accorsi, ormai, è un veterano. Altri, al suo posto, ne sono usciti con le ossa rotte. Abbiamo cominciato a conoscerlo come simpatico ragazzino bolognese che si avvaleva della sua scarsa pronuncia della lingua inglese per broccolare giovani straniere sulle spiagge dell’Adriatico. Un colpo di fulmine: una pubblicità diventata tormentone e che lancia la carriera del ragazzo sconosciuto. L’abbiamo poi visto interpretare la parte di un liceale innamorato di Violante Placido nel generazionale Jack Frusciante è Uscito dal Gruppo. Ma già lì c’era qualcosa che non andava: il film, pur lanciato dal libro di Enrico Brizzi, non andò come previsto e il fatto che il protagonista venisse chiamato “il giovane Alex”, mentre l’attore che lo interpretava aveva 25 anni, lasciava abbastanza interdetti. Ma questo non ha preoccupato i registi e gli sceneggiatori italiani che da lì in avanti l’hanno scelto come volto ufficiale per rappresentare il concetto di Giovane. Il Giovane nei film italiani di quegli anni era un essere umano dall’età anagrafica incerta, descrivibile come qualcuno di puro, innamorato, non allineato, ispirato al punto da non sapere resistere ai propri impulsi. Diciamo una persona di età compresa tra i 18 anni di Radiofreccia di Luciano Ligabue, passando per i 25 di Santa Maradona di Marco Ponti. Un Giovane di 30 ne L’Ultimo Bacio di Gabriele Muccino o gay e forse trentenne in Le Fate Ignoranti di Ferzan Ozpetek. Poi il tempo è inesorabilmente passato e Accorsi è diventato la figura chiave del nostro cinema degli ultimi decenni: il post trentenne in crisi esistenziale. Colui che ormai ha una famiglia, delle certezze ma anche qualche rimpianto e la voglia di tornare a essere “il vecchio ghepardo di un tempo”. Questo crudele meccanismo ha avuto anche una conseguenza. Questa sovrapposizione inutilizzabile (o ancora, poco credibile) quando chiamato a interpretare ruoli differenti. Penso principalmente alla versione cinematografica di Romanzo Criminale, diretta da Michele Placido nel 2005, dove ha portato sullo schermo con evidenti difficoltà il Commissario Scialoja, poliziotto alle prese con la storia della rise and fall della famigerata Banda della Magliana. La sequenza dell’interrogatorio con Il Freddo, interpretato da un ispirato Kim Rossi Stuart parla piuttosto chiaro. Per gli spettatori è più facile immaginare Accorsi mentre litiga con Giovanna Mezzogiorno in salotto piuttosto che in uno scantinato mentre ha che fare con rapine e attentati. Sempre con Placido, l’attore ha avuto altri due ruoli particolarmente significativi. Il primo è del 2002. Accorsi vince la Coppa Volpi a Venezia per il suo Dino Campana in Un Viaggio Chiamato Amore. È una consacrazione: l’ex ragazzino impacciato che prima diventa attore poi, col tempo, un attore maturo. Due anni dopo però sempre insieme a Placido e alla figlia Violante incappa in Ovunque Sei, film molto fischiato a Venezia soprattutto per uno stile quantomeno azzardato, per il lavoro degli attori e per un nudo integrale dei due protagonisti che avrebbe dovuto suscitare un piccolo scandalo.

Accorsi semplicemente, come un Signor Malussène, è stato scelto per diventare il capro espiatorio o il bersaglio più in vista di una crisi profonda

Ma il problema principale che ha segnato la carriera di Accorsi è stato il repentino cambio di giudizio che hanno subito le pellicole che l’hanno reso famoso. Tutti i film che abbiamo appena citato, escluso Ovunque Sei, sono stati degli enormi successi dal punto di vista commerciale e hanno in qualche modo segnato una generazione intera di spettatori. Non solo: è proprio sempre grazie ai quei titoli che molti di quei registi sono diventati nomi consueti del nostro cinema. Per dire: Gabriele Muccino è inscindibile dal successo de L’Ultimo Bacio, così come Ferzan Ozpetek è diventato un Autore grazie a Le Fate Ignoranti. Ma il momento magico, l’innamoramento tra Stefano Accorsi e il pubblico italiano è durato poco. Qualche anno dopo proprio quel tipo di cinema, quei registi e quei titoli, sono diventati qualcos’altro: da fiori all’occhiello per una costantemente sbandierata Rinascita del Cinema italiano si sono trasformati in esempi negativi, pellicole il più delle volte ripudiate proprio da coloro che un tempo le avevano esaltate. Il problema è che il cinema di Ozpetek e di Muccino, come quello di Ligabue o di Ponti, forse non si è saputo trasformare. Al contrario è rimasto ingabbiato in schemi sempre simili tra loro, stancando una parte di pubblico e condannando alcuni attori a una serie infinita di ruoli manichei. Accorsi semplicemente, è tra quelli che ha subito di più questo passaggio. L’attore, come un Signor Malussène, è stato scelto per diventare il capro espiatorio o il bersaglio più in vista di una crisi profonda. Da allora ogni sua apparizione cinematografica o televisiva è stata criticata forse fin troppo ferocemente da un pubblico che non senza una buona dose di ipocrisia, oggi non sembra perdonargli più nulla.

La scelta di tornare a Venezia con L’Arbitro, un film piccolo, nato da un cortometraggio, dall’ambiente di un cinema italiano che si pone in parte come diverso da quello in cui eravamo abituati a ritrovarlo, è un segnale. Giocando con l’immaginazione mi piace pensare alla scelta di Accorsi di partecipare a questo film come un tentativo di rivalsa. Una rentrée che parte dal basso con un inaspettato colpo di reni. Adesso torno in Via Pietralata e lì sotto scrivo anche io tre parole:  Non Mollare Mai.

 

Immagine: una scena de L’arbitro