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Cosa sta succedendo tra i giganti dello shopping online

Mentre i negozi restavano chiusi il settore del lusso ha visto un’impennata sul digitale che sta ridistribuendo poteri e possibilità tra i player del mercato.

di Federica Salto

Una schermata di Farfetch. Image Courtesy of Farfetch

Alla vigilia di un Black Friday quasi esclusivamente online e alle porte di una stagione di corsa ai regali che è ancora sui tavoli di governo ma che difficilmente farà contenti i commercianti, le cifre della crescita degli acquisti online (+22 per cento) non lasciano spazio ad altre conversazioni se non quella sulle sfide che lo shopping digitale comporta. E, infatti, all’inizio di novembre è stato annunciato un accordo storico del settore. Farfetch, noto principalmente per essere una piattaforma di vendita dal modello di business diverso da quello dei suoi competitor, ha raccolto 600 milioni di dollari da Alibaba e dal gruppo svizzero Richemont e insieme formeranno una nuova joint venture per la Cina e investiranno nello sviluppo della piattaforme di ecommerce. A questo si è aggiunta un’ulteriore partecipazione di 50 milioni di dollari da parte di Artémis, il veicolo d’investimento del gruppo Kering che già nel 2018 aveva investito nella società londinese fondata dal portoghese José Neves. L’obiettivo comune è quello di consolidare il comparto digitale del gruppo, a discapito di Lvmh, che gode di un portfolio di marchi più ampio, ma che non è veramente riuscito a lanciare il suo esperimento di e-tailer multibrand, 24S.

Ma perché Farfetch? Prima dello scoppio della pandemia era un nome importante, ma non il protagonista. Poi i blocchi di confine, il servizio clienti e più in generale i meccanismi del tradizionale commercio all’ingrosso sono emersi come ostacoli quasi insormontabili per i suoi competitor, lasciando il campo libero al suo modello di business unico. Farfetch, infatti, non acquista i prodotti ma prende una percentuale sulla vendita degli stessi, consentendo ai marchi e ai negozi multibrand di gestire il proprio inventario e di godere di una grande visibilità, mentre si smarca dalla voce di costo più influente, quella dei magazzini e della distribuzione. Ma non è solo questo il segreto del suo successo nel 2020: la società si sta sempre più specializzando nella consulenza tecnologica per i marchi e i negozi che vogliono avviare un ecommerce senza strutturarsi internamente e, allo stesso tempo, sul costumer service per chi invece sceglie di non vendere online ma vuole (e deve) offrire un servizio ineccepibile ai consumatori, come Chanel. Se tutto questo finora ha funzionato bene in Europa, il nuovo accordo mira a fare lo stesso in Cina. Ma ci sono delle incognite, e la prima si chiama Amazon.

Già nella prima parte dell’anno erano arrivati alcuni segnali riguardo la volontà di Jeff Bezos di ritagliarsi il proprio posto a sedere nella sfida digitale del lusso: da una parte la produzione di un programma TV, Making The Cut, destinato ad Amazon Prime Video e liberamente ispirato al primo (e unico) successo sul genere, Project Runway, dall’altra l’investimento in uno store temporaneo, Common Threads: Vogue x Amazon Fashion, realizzato in collaborazione con Condé Nast e in particolare con Anna Wintour a sostegno dei marchi emergenti americani, messi alla prova dalla pandemia. Ora arriva la notizia dell’arrivo di Sally Singer, ex creative director di Vogue Us e ora nello stesso ruolo da Amazon Fashion. Un po’ come aveva fatto Facebook nel 2015 arruolando la ex editor di Lucky Magazine Eva Chen come Head of Fashion di Instagram, Amazon prova ad aprirsi definitivamente al lusso puntando in alto nella scala gerarchica di Condé Nast, dove gli affari non vanno altrettanto bene. Resta da capire come Amazon possa adattarsi a un commercio che, anche sul digitale, è ancora strettamente connesso all’idea di sogno ed esclusività e lontanissimo dalla sua estetica funzionale ma spartana. Oppure come possa piegarlo alle sue regole.

Farfetch e Amazon non sono gli unici attori, anzi. Alcuni di questi hanno sperimentato come il digitale sia davvero un territorio difficle e come, senza una struttura definita e ben oliata, questo 2020 possa trasformarsi in un grande boomerang. Si pensi al caso di Moda Operandi, il cui modello di business pensato per donne facoltose che così possono ordinare direttamente online i look dalle passerelle dei grandi brand suona oggi totalmente fuori tempo e le ombre su investimenti e i cambi di sedie, come racconta AirMail, non devono aver aiutato nell’evoluzione del progetto. Dall’altra YNAP, nato dalla fusione tra YOOX e Net-a-Porter nel 2015, primo a offrire un servizio White Label ai brand, forte anche dei rapporti solidi e duraturi costruiti negli anni dai due fondatori, Federico Marchetti e Nathalie Massenet, oggi è di proprietà del gruppo Richemont e incagliato nelle difficoltà del modello del commercio all’ingrosso. Richemont, infatti, che nel suo portafoglio annovera Cartier, Van Cleef&Arpels, Montblanc e Buccellati, ha appena incassato la notizia dell’acquisizione di Tiffany&Co. da parte di Lvmh, che proverà così a togliergli lo scettro del settore orologi e gioielli. Per questo la proprietà non sembra focalizzata sul prendere una decisione a proposito del suo etailer, per ora, mentre gli analisti auspicano una fusione proprio con Farfetch.

Due esempi fuori dal coro sono quelli di Luisaviaroma e MyTheresa, entrambi nati come la versione digitale di negozi fisici (il primo a Firenze, il secondo a Monaco), capaci di costruirsi dei piccoli imperi indipendenti e ora focalizzati su differenti sviluppi digitali: Andrea Panconesi, proprietario di Luisaviaroma, sta puntando tutto su MOD4, app che prova a introdursi nel mondo del gaming, mentre Michael Kliger, presidente e Ceo di MyTheresa, è sempre più focalizzando su un utilizzo sofisticato dell’analisi dei dati che ha permesso al sito di acquisire una clientela maggiormente propensa al ritorno. La partita, insomma, è ancora tutta da giocare.