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Cosa vuol dire essere antirazzista per un bianco?

Una riflessione sui fatti di Minneapolis a partire dalla storia delle White Panthers, raccontata dalla fotografa Leni Sinclair.

di Francesca Berardi

Due manifestanti marciano durante la manifestazione Black Lives Matter il 1° giugno 2020 a Londra, Inghilterra (foto di Dan Kitwood / Getty Images)

Qualche giorno fa, mentre scorrevo il feed di Facebook, ho letto un post di Marsha Battle Philpot – scrittrice e attivista a Detroit. Il post diceva che anche durante la ribellione dell’estate del 1967 – che lei visse in prima persona e che attentamente non chiama riot – c’erano molti bianchi, come se ne vedono in questi giorni partecipare alle proteste esplose dopo l’uccisione brutale di George Floyd a Minneapolis. Solo che al tempo le immagini che circolavano erano controllate dai media che mostravano solo la rabbia dei neri, mentre oggi l’informazione è in mano a tutti e dunque si vede tutto. Alla fine del post Marsha diceva che i bianchi che nel 1967 erano scesi in strada “were not outsiders”. Tra i commenti del suo post c’era quello di una sua conoscente, anche anche lei testimone diretta di quelle ribellioni. Precisava che, sì, c’erano bianchi già allora, ma che tra essi non mancavano anche quelli che venivano da fuori città e che hanno contribuito alle violenze che poi la storia ufficiale ha fatto pesare solo sulle spalle dei neri. Se ne è visto qualcuno anche in questi giorni, tra decine di migliaia di protestanti pacifici di ogni colore e età. Gli organizzatori della manifestazione hanno chiesto “rispetto per la città”, mentre da altre parti degli Stati Uniti in cui si sono verificati episodi simili i toni sono stati anche meno pacati. Da Oakland, in California, la co-fondatrice di Anti Police-Terror Project, Cat Brooks, ha twittato: «White people DONT get to use Black pain to justify living out your riot fantasies.What’s happening in Minneapolis is BLACK LEAD Rebellion». Ho sentito poi Marsha su Messenger e mi ha detto che è difficile commentare cosa sta succedendo perché le manifestazioni sono molto diffuse, e l’organizzazione troppo decentralizzata, per riuscire a definire quali gruppi ne capiscono il significato e quali no. Da parte mia sono tornata a riflettere su una questione su cui non ho mai trovato una risposta chiara e univoca. Cosa vuol dire essere antirazzista per un bianco? Soprattutto sono tornata con il pensiero a Detroit e alla storia delle White Panthers.

Nel 1968 alcuni membri dei movimenti radicali bianchi di Detroit e Ann Arbour (una vicina città universitaria) decisero di unirsi formalmente alla lotta contro l’oppressione dei neri fondando un gruppo indipendente: The White Panther Party. La loro intenzione era quella di essere di supporto alla controparte nera, senza avere la pretesa di essere nella stessa posizione nel combattere quella battaglia. Nei periodi che ho trascorso a Detroit, tra il 2013 e il 2015, ho frequentato una delle fondatrici del gruppo, Leni Sinclair, al tempo fotografa della scena musicale più sperimentale. Ho approfittato della scrittura di questo testo per richiamarla. Mi ha risposto dalla sua casa di 8 Mile, dove convive con decine di scatoloni pieni di stampe e negativi di fotografie che raccontano un pezzo di storia della musica americana: Sun Ra avvolto in un mantello dorato, Fela Kuti a pugni alti, Iggy Pop con la faccia da sbarbino, Jimi Hendrix da giovane e già monumentale, gli MC5 a torso nudo con delle spillette piantate sul petto (Leni mi ha poi detto che erano incollate e che la loro applicazione è costata solo lo strappo di qualche pelo). Immagini divenute poi iconiche, ma che a Leni garantiscono a malapena la sopravvivenza.

«All’inizio le Black Panthers ci chiamavano psychedelic clowns», ricorda Leni. In effetti i suoi compagni di lotta non perdevano occasione per ironizzare, anche quando si trattava di organizzare un partito. Come presidente avevano nominato un membro del gruppo che fin da bambino veniva chiamato Panther e che di cognome faceva White. Tuttavia prendevano sul serio la loro missione e si impegnavano attivamente. «Con il tempo hanno capito che anche noi hippies eravamo una forza politica e che volevamo davvero collaborare mettendoci a loro disposizione». Il Ministro dell’Arte del White Panther Party, Gary Grimshaw, disegnò il logo del gruppo, invertendo i colori della pantera nera e delineando un muso più inferocito. Leni dice che in seguito anche le Black Panthers usarono questa nuova versione più espressiva. Uno delle iniziative che Leni e suoi compagni misero in atto fu distribuire le riviste dei militanti neri. «Ne vendevamo centinaia di copie ogni settimana», ricorda, spiegando che raccogliere fondi era un aiuto prezioso perché concreto.

La benedizione delle Black Panthers arrivò nel 1971, ad un rally per la liberazione di John Sinclair – co-fondatore delle White Panthers, noto poeta, nonché padre delle figlie di Leni. John Sinclair era stato arrestato per possesso di marijuana con un’operazione controversa considerata da molti come una scusa per fermare la sua propaganda politica. Sul palco, a richiedere la sua liberazione, salirono tra gli altri John Lennon, Yoko Ono, Stevie Wonder, Allen Ginsberg e soprattutto Bobby Seale, presidente del Black Panther Party. A quel tempo tuttavia le White Panthers non si chiamavano già più così. «Quel ‘white’ ci stava troppo stretto», dice Leni. «Ci era servito per chiarire alle Black Panthers che eravamo coscienti del colore della nostra pelle, ma l’idea del bianco non ci corrispondeva». Così si trasformarono nel Rainbow’s People Party, il partito delle persone arcobaleno.

Logo delle White Panthers (Gary Grimshaw, 1969)

Nel suo post, Marsha diceva che molti dei bianchi scesi in strada a Detroit nel 1967 “simpatizzavano” o si sentivano “nella stessa barca” dei loro vicini di casa neri. Durante la nostra breve videochiamata, mi ha infatti ricordato anche un altro movimento di bianchi che si erano uniti alla lotta contro l’oppressione degli afroamericani. Si trattava del Motorcity Labour League, la controparte bianca della League of Revolutionary Black Workers. Che la lotta al razzismo non potesse essere trattata da sola, senza considerare le intersezioni con la lotta di classe e poi di genere, era chiaro già al tempo. Come era già chiaro che bianchi e neri non potessero far finta di combattere la stessa battaglia. L’attivista e scrittore James Boggs – originario dell’Alabama, operaio alla Chrysler per oltre venti anni – lo aveva spiegato bene. Secondo lui la lotta comune era una favoletta che serviva ai bianchi per costruire il loro sogno americano, di “arrampicata” scrive Boggs, sulle spalle della “sottoclasse” nera.

Leni Sinclair, White Panthers, 1970

Era anzi più facile che, ad unirsi alla battaglia dei neri, fossero i bianchi con una sicurezza economica che non metteva in discussione il loro privilegio. Il suo discorso mi ha fatto pensare anche all’Italia di oggi, al nostro razzismo strutturale, a un Paese con l’ambizione di andare avanti lasciando indietro centinaia di migliaia di persone sottopagate a cui non vengono riconosciuti diritti fondamentali. Un razzismo per molti versi incomparabile a quello americano, così come è incomparabile la riflessione sul razzismo nei due Paesi. In Italia la questione non è mai stata davvero decolonizzata e messa al centro del dibattito pubblico. Nonostante già dagli anni Sessanta le case editrici italiane abbiano tradotto testi di intellettuali legati alle lotte anticoloniali come Frantz Fanon, lo hanno fatto puntando a mettere in luce l’internazionalismo dei movimenti contro l’oppressione. È in questo contesto che si inserisce la traduzione, nel 1968 da parte della casa editrice Laterza, di una raccolta di saggi di Boggs dal titolo Lotta di classe e razzismo. In prefazione si legge che Boggs riusciva a ipotizzare una vera trasformazione strutturale, un «futuro alternativo al presente», impostando «la problematica priva delle illusioni e mistificazioni della sinistra tradizionale, così come dei nazionalismi negri». A questa trasformazione James Boggs ha lavorato fino alla morte insieme alla moglie Grace Lee, figlia di immigrati cinesi e divenuta tra le voci più amate e rispettate del black power movement a Detroit. La chiamavano la “r-evolution” e sostenevano che dovesse partire dai singoli individui, dal dialogo e dalla presa di coscienza. Non erano infatti tipi da piazza – non riuscivano ad identificarsi pienamente né nell’approccio di Martin Luther King Jr, né in quello di Malcolm X – preferivano piuttosto le conversazioni in cucina (che Grace Lee registrava per quanto considerava preziose).

E dalla cucina di Grace Lee torno all’antirazzismo da divano a cui in questi giorni mi sono dedicata anche io. La scorsa settimana, appena appresa la notizia dell’uccisione di Floyd ho condiviso sulla mia timeline di Facebook un articolo del New York Times che ne riportava la cronaca. Nella mia bolla di amicizie virtuali in molti abbiamo condiviso e commentato con sdegno quella notizia e quel video raccapriccianti. Poche ore dopo ho letto un tweet di Akilah Hughes, scrittrice, stand up comedian e podcaster americana. Diceva: «Please don’t put a video of a black person being killed on my timeline if you wouldn’t also post a video of a white person being brutally murdered. And you wouldn’t. And that’s also oppression. Showing us what can be done to us isn’t journalism, it’s signaling». Le sue parole, spiegate in una puntata del podcast What a Day, mi hanno rimesso al mio posto. In effetti ci penserei due volte prima di condividere il video del pestaggio di una donna da parte di un uomo, anche perché probabilmente sarebbe accompagnato da un articolo che in qualche modo reitera il nostro ruolo di “vittime” e associa la violenza a un gesto dettato da qualche forma di amore incontrollato.

Quando un uomo mi dice che è femminista gli chiedo cosa fa per esserlo. Spesso la risposta è che considera le donne al pari degli uomini, o che aiuta molto in casa, e per me non è quella giusta. Credo che un uomo possa aspirare ad essere femminista, e un bianco antirazzista, solo se prima di tutto capisce quali processi discriminatori e razzisti accetta e magari alimenta anche passivamente con gesti banali, l’uso delle parole, o come ci ha ricordato Hughes, la condivisione delle immagini. Oppure tramite le sue scelte da consumatore, ovvero l’esercizio quotidiano del potere. Lo scrittore James Baldwin era andato dritto al punto dicendo: «È l’innocenza che costituisce il crimine».