Industry | Dal numero

La nuova collezione di Pinko all’insegna dell’upcycling

Come il marchio italiano, conosciuto per lo stile spensierato e di qualità, ridisegna il suo futuro con la collezione "Reimagine".

di Silvia Vacirca

Foto Sara Scanderebech

Il primo dicembre, Pinko ha lanciato una collaborazione speciale con il designer inglese Patrick McDowell, formatosi alla Central Saint Martins di Londra. La collezione upcycling, ovvero realizzata con materiali riutilizzati, si chiama “Reimagine” e coglie lo spirito dei tempi, desiderosi di durata e recupero amorevole dell’effimero, e nulla sottrae alla voglia pazza di glamour. “Reimagine”, come mi racconta McDowell collegato dal suo studio di Londra, è «una selezione di pezzi classici», bagnata in un clima di festa brillante, «dai jeans patchwork alle camicette con paillettes, e blazer, cappe gioiello, cappotti e borse decorate da piegoline di tulle… Il mio pezzo preferito è il cappotto nero con le piccole ruches verticali». Il designer ha selezionato pezzi invenduti delle precedenti collezioni Pinko e li ha reinterpretati per dar loro una seconda possibilità. Ci vogliono tra le sei e le dodici ore per scomporre e ricomporre ogni capo d’abbigliamento, operazione che ha permesso di riutilizzare circa 1.000 metri di tessuto. La pratica del riuso appassiona McDowell dall’età di tredici anni, quando si è scucito i jeans per farsi «una cartella per la scuola, senza macchina da cucire, con ago, filo e mani».

Foto Sara Scanderebech

Da quando lavorava da Burberry, Patrick McDowell aveva chiesto al direttore creativo Christopher Bailey di poter usare i materiali di scarto. Dal 2013 al 2018 Burberry ha distrutto vestiti, borse e profumi per un valore di 90 milioni di sterline. McDowell è convinto che «l’industria avrà sempre bisogno di materie nuove e tecnologiche, ma in questo momento sembra giusto non sprecare nulla». In effetti, a questo punto della storia i magazzini sono pieni. Non che fare vestiti upcycled sia facile. McDowell ha dovuto programmare con cura i campioni e le quantità di tessuto – «doing the maths», dice lui – assistito dal team di Pinko, per poi metterli insieme in design artistici. “Reimagine” ha la qualità rara di essere insieme sostenibile, glamour e classica. Il giovane designer è «felice che Pinko abbia compiuto un passo coraggioso verso un’industria della moda circolare. Queste iniziative sono essenziali per dimostrare che i marchi possono non solo ridurre l’inventario invenduto, ma anche andare oltre, reinventandolo in nuove collezioni che siano interessanti e rilevanti per i loro clienti».

Foto Sara Scanderebech

Entrare in un negozio Pinko del centro città e non comprare nulla è impossibile, dato che è l’unico brand nella sua fascia di mercato ad avere un atelier interno con abili sarti e modelliste – «Sono incredibili!», esclama McDowell – e a mantenere un eccellente rapporto qualità-prezzo. Per Pinko è un onere, in termini di costi, mantenere un atelier interno con circa quaranta donne che lavorano con gli spilli, la carta e il manichino per “sdifettare” il capo, ma è un punto d’orgoglio aver sempre difeso la presenza del settore modellismo e prototipia. Uno dei campi in cui l’Italia eccelle e in cui nessun governo, vittima di un pregiudizio antico nei confronti del lavoro manuale, ha avuto la lungimiranza d’investire, con il rischio che una tradizione di conoscenze sartoriali e creatività vada perduta per sempre. L’idea di “Reimagine” è di Caterina Negra, direttore creativo di Pinko, che ha capito come Patrick McDowell condividesse con il brand lo stesso gusto per una femminilità “vestita”, alla moda, scintillante e accessibile, che non vuol dire facile. McDowell ama il modo di vestire delle donne italiane: «Mi ricorda Liverpool, la mia città d’origine, dove le ragazze non hanno paura di essere eleganti, come a Milano. Le mie zie amano vestirsi».

Nella sua ultima collezione, “Catholic Fairytales”, immagina un mondo dove la liturgia e l’opulenza della religione cattolica possano celebrare e accettare tutti. Le sue collezioni s’ispirano a storie personali, della sua famiglia. In fondo anche da Pinko, impresa a conduzione familiare, sono le storie personali a dar forma alle attività e all’immagine energetica del brand. Gli abiti Pinko hanno il pregio non da poco di non sfigurare con l’ultimo pillbox di Lanvin, come si può constatare nell’ultimo videoclip di Ariana Grande, “Positions”, che esibisce il cappotto della collezione Autunno Inverno 2021, un pied-de-poule d’ispirazione vintage. Nel video la popstar porta a spasso una muta di cani sul prato della Casa Bianca mentre nevica, in un cappotto Pinko scelto dalla stylist Mimi Cuttrell, anche grazie all’ottimo lavoro dell’agenzia Preface Public Relations.

Foto Sara Scanderebech

In Cina, poi, Pinko è famoso soprattutto grazie all’enorme successo del logo degli uccellini Love Birds presente sulla Love Bag e altri accessori. Per i clienti cinesi è diventato un portafortuna, racconta Pietro Negra, Ceo del marchio, che sottolinea come la riduzione degli sprechi sia un impegno serio e necessario, e la collaborazione con McDowell, che durerà per i prossimi due anni, va in questa direzione. Dopo un «giro veloce di fast-fashion», che si basa «su un prodotto consumato in poche settimane da immettere subito nel circolo dei saldi e degli outlet, finendo per svilirne il valore», la moda torna al prodotto. Per ridurre gli sprechi è essenziale «riuscire a ridurre il tempo di attraversamento dall’idea alla realizzazione del modello industriale, ma questo non implica che il capo abbia poi vita breve in negozio», spiega ancora Negra. «La tecnologia è uno strumento utile ma non può sostituire l’uomo, come accade in certi casi dove a fare il merchandising e la progettazione è un algoritmo. Si caricano i dati su competitor e celebrity e con una misurazione micrometrica ricevi indicazioni pronte su posizionamento e sviluppo del design».

L’opposto di Pinko, dove nuovi talenti hanno l’occasione di farsi le ossa, dall’ideazione alla distribuzione, come Nicola Brognano, di recente nominato direttore creativo di Blumarine. Pinko è presente in mercati difficilissimi, a Faubourg St. Honoré a Parigi, Madison Avenue a New York, Regent Street a Londra, Via Montenapoleone a Milano, Aoyama a Tokyo, Shenzhen in Cina, con spazi progettati da Pae White, Lucy Dodd, Steven Scott, Gabriel Serra e Jonathan Binet. Ma anche online fa bene. Su Farfetch, dopo due anni di permanenza, è tra i primi cinquanta brand, premiato da donne che cercano un’eleganza rock, senza pretese intellettualistiche, e la sicurezza di un prodotto di qualità.