Attualità

One Hit Wonder

Cosa fanno i musicisti meteore quando è finito il loro quarto d'ora? Non possono fare tutti i predicatori

di Violetta Bellocchio

Non festeggiamo mai gli anniversari delle cose che se lo meritano davvero.

Ad esempio: Baby Got Back ha appena compiuto vent’anni. Non se ne è accorto nessuno. Eppure ha venduto due milioni di copie, nel ’92, e ha vinto un Grammy l’anno dopo. E alla scarsa longevità dell’artista responsabile, Sir Mix-a-Lot, corrisponde una durata straordinaria del singolo brano.

Me ne sono ricordata solo per l’omaggio molto affettuoso che gli ha rivolto il blogger musicale Todd Nathanson, in arte Todd in the Shadows. Ora ho cinque cose da dire e tutto si tiene.

 

1. Il genere.

Là dove non arrivano hip hop e consumo, arriva il legame indissolubile tra hip hop e culo.

“Baby Got Back” consolidò la formula della booty jam, il pezzo fatto per far muovere i culi, che parla di culo in movimento. Le prime cinque booty jam che mi vengono in mente: Tootsie RollBack That Azz UpThong SongShake Ya Ass, e la versione per bianchi falso-country, Honky Tonk Badonkadonk. (Sulla sua tenuta non mi sbilancio, ma il 2012 è cominciato con A$$ di Big Sean, un esordiente prodotto da Kanye West. Il ritornello dice “culo” 15 volte, una strofa recita, «come mai di punto-vita sei anoressica e di culo sei colossale?». Poi arriva Nicki Minaj.) Lo stesso, il messaggio passa: la donna deve avere un bel culone, senza cedere alle lusinghe della chirurgia plastica, altrimenti non è degna dell’autore. Niente affetto, niente diamanti.

Possiamo discutere tra quanto, di nuovo, l’artista si guardi intorno e racconti quello che gli piace, e quanto invece scriva calibrando i valori su quelli di un possibile pubblico. Un pochino come, stando alla leggenda, le ballate romantiche delle boy band sono rivolte a un “tu” femminile senza nome proprio, perché qualsiasi ascoltatrice possa calarsi nel ruolo. Si canta a una generica “ragazza”, opaca. E da qui nascono cento, mille “Hey Girl…”.

2. Il successo.

Spesso tradotta con “meteora”, la frase “one hit wonder” è molto più precisa. Indica una fortuna enorme, isolata, irripetibile. Al successo in termini sia di vendita sia di diffusione deve corrispondere un artista incapace di ripetere quell’exploit. E allora, per dire, negli Stati Uniti verranno considerati meteore musicisti che in Europa hanno avuto una carriera lunga, al di là del singolo brano, e viceversa. Da una parte i Blur, dall’altra Bobby Brown.

A volte, come per Baby Got Back, una one hit wonder finisce per essere conosciuta da tutti; con altre si può sviluppare un rapporto personale più intenso. Provare un senso di scoperta, anche se fuori luogo, come davanti a un prodotto che si presuma “di nicchia”. Specie se poi l’artista ha fatto LA BRUTTA FINE, in modo che il pubblico da casa possa dire eh già, è proprio vero che il successo e i soldi non sono tutto nella vita. Se lui/lei non è morto, gli verrà cucito addosso il personaggio dello scoppiato, di quello che ancora si bulla per un pezzo uscito vent’anni fa. (La variante più generosa è l’ex popstar PERFETTAMENTE APPAGATA di ramazzare i frutti della vecchia gloria: ce n’è uno – maschio – in Scrivimi una canzone.) Nella realtà, per una one hit wonder finita male, ce ne sono trenta passate dietro le quinte della stessa industria, o che hanno cambiato lavoro. Non possono diventare tutti pastori protestanti, anche se a me piacerebbe un sacco; Rico Suave oggi fa questo.

3. Il consumo.

Le one hit wonder piacciono a tutti, perché non se ne vanno mai davvero.

Sparisce l’autore, ma il prodotto resta, diventa il sottofondo ideale per spot pubblicitari, salta fuori nelle scalette radiofoniche, trionfa nei film e telefilm dove l’uso di quella certa canzone denoterà “momenti spontanei” o scivolate nel grottesco. (Soltanto Baby Got Back risulta presente in una ventina di colonne sonore, affidata a personaggi che vanno dal ritardato mentale alla ragazza bianca, fino al livello estremo: Ciuchino.) E sto tralasciando un caso che Nathanson cita, cioé i format video-musicali costruiti proprio sul concetto di one hit wonder, che siano «i 100 più grandi artisti da un successo solo degli anni Novanta» o i docu-reality dove i vecchi campioni hanno «una nuova occasione per tornare al top». (E lì scopri cosa fa adesso Rico Suave, per dire.) Vincono tutti: il programma è il solito trionfo del trivia, del fatto minimo trasformato nella cosa più importante da sapere su qualcuno, mentre il pubblico viene immerso in un calderone di bisogni artificiali – «ehi, mi ero sempre chiesto dove fosse finito Rico Suave! Potevo cercarlo su Google, ma non l’ho fatto!» – innescati da domande retoriche – «ehi, vi ricordate Vanilla Ice? Ah ah ah, che vestiti stupidi portavamo tutti quanti allora!» – quando non da osservazioni casuali. Ehi, ve lo ricordate Baltimora? E’ MORTO.

4. Il ritorno.

Baby Got Back nasceva per inserirsi in un tipo particolare di canzoncina hip hop: quella leggera e stupida, con la data di scadenza tatuata in fronte. A differenza dei “momenti” in cui un brano di un artista già famoso arriva ovunque e auto-convalida il proprio successo (Halo nel 2009, la bolla che ha permesso al secondo album di Justin Timberlake di durare un anno intero), in casi simili più aumentano i passaggi radio-televisivi più c’è gente pronta a dire BASTA, hai stufato. Da parte sua, Sir Mix-a-Lot fu preso alla sprovvista dalla fortuna di quel pezzo, e cercò di replicarla, fallendo. Indizio: dopo il culo, parlò di tette.

Se, come osserva Todd, non c’era troppo posto per un artista “sciocco” nel panorama hip hop degli anni ’90, la formula revival si nutre esattamente di questa sciocchezza per sopravvivere. (Si veda anche: ballare “Paper Planes” ai matrimoni.) Molti di questi pezzi possono avere una seconda vita, magari quando vengono rifatti sotto forma di cover “ironica” da parte di musicisti giovani e bianchi. Ed è così che, guardando solo agli ultimi mesi, vi ritrovate i Karmin ospiti al Saturday Night Live. Chiedo scusa per quello a cui vi espongo.

5. La memoria.

Una one hit wonder è una macchina del tempo personale. Ma funziona in modi non previsti.

A volte può riportare chi ascolta a un momento e un luogo chiari; a volte, più spesso, replica soltanto se stessa, e il “momento” che genera è il ricordo di aver già sentito quella canzone, quando non era più nuova. E’ un classico immediato, perché non è fatta per durare, ma ha un potere infinito.

Se ascolto Bust A Move non sono riportata a nessun ricordo autentico, a parte [l’ho sentita cinque minuti fa mentre scrivevo il paragrafo 4.] Al limite, mi torna in mente una scena di Tra le nuvole, quando i protagonisti si imbucano alla convention aziendale nel loro albergo, e lì il culmine dei festeggiamenti sta nell’arrivo di Young MC che si mette a cantare Bust A Move. Tutti quanti si mettono subito a ballare felici, uomini donne nonni e nipoti uniti dal giro di basso di Bust a Move, come se avessero ritrovato un amico, ed è esattamente così che ci si sente.

Inoltre, penso sia quello che Young MC fa di lavoro, oggi. L’ospite speciale nei panni di se stesso.