Cultura | Libri

I libri del 2020

Le 10 migliori letture dell'anno per la redazione di Studio.

di Redazione

Emanuele Trevi – Due vite (Neri Pozza)
Abbiamo particolarmente amato in redazione questo piccolo libro che si legge tutto in una volta, di quel genere in cui Emanuele Trevi ha sempre dato il meglio della sua scrittura, la non-fiction narrativa, un libro che sembra un seguito dell’indimenticabile e altrettanto piccolo Senza verso. Come in quel libro, anche in questo Roma gioca una parte importante, ma al centro ci sono, molto bene in evidenza, le “due vite del titolo”, vite di amici interrotte e raccontate per flash, per frammenti, quelle di due scrittori importanti, ma non così celebrati nel discorso letterario italiano, Pia Pera e Rocco Carbone, mentre in controluce affiora il paesaggio di un’epoca, gli anni ’80 e ’90, che sembra così lontana e ingenua. Su Studio, Davide Coppo ha scritto «Trevi parte sempre dal particolare – un episodio occorso a Rocco Romano o Pia Pera – per ragionare sull’universale e rendere il libro anche una riflessione sulla “arte impossibile di capire la vita” (come dice lui stesso)». In un altro articolo, uscito sempre su Studio, Elena Stancanelli ha scritto: «Trevi ha fatto a Rocco Carbone e a Pia Pera, il dono più grande. Una dichiarazione postuma di stima e di amore che li mette al riparo dalla sparizione, almeno per un po’».

Susan Minot – Scimmie (Playground)
Trad. di Bernardo Anselmi
È la riedizione di un libro uscito in Italia nel 1987 per Mondadori, ma vale come fosse una nuova uscita vista l’assenza di considerazione ricevuta da quel momento a oggi. Negli anni ’80, la sua autrice, Susan Minot (che è stata anche sceneggiatrice di Io ballo da sola e che è stata intervista da Leonardo Luccone per Studio) era considerata una stella del minimalismo americano poi però, nonostante abbia continuato a scrivere, è stata quasi dimenticata. Questa riedizione mostra invece come Scimmie sia un libro da ricordare eccome. Un romanzo fatto di racconti (pubblicati sul New Yorker e sulle solite altre riviste americane), o meglio di scene di vita di una numerosissima famiglia del New England, ritratta dal ’66 al ’78: «Gelidi inverni e fioriture primaverili, litigi furiosi e feste, cattiverie e dispiaceri, amori e ribellioni, un paesaggio familiare visto al tempo stesso con la coda dell’occhio e nel centro dell’azione», ha scritto Cristiano de Majo su Studio.

Susan Minot, foto di Jean Pagliuso

Hanya Yanagihara –Il Popolo degli alberi (Feltrinelli)
Trad. di Francesco Pacifico
Un libro «strepitoso» lo abbiamo definito su Studio, l’esordio di una scrittrice amata, anche in Italia, per il suo più famoso secondo libro, Una vita come tante (Sellerio). Il popolo degli alberi si ispira alla vera storia del virologo Daniel Carleton Gajdusek, che nel 1976 vinse un premio Nobel per aver identificato una malattia mortale in una remota tribù della Papua Nuova Guinea e nel 1997 fu arrestato per aver abusato sessualmente dei bambini nativi che aveva adottato. Clara Mazzoleni ha scritto su Studio: «Ci troviamo a dover interpretare (e giudicare moralmente, e interrogare, e mettere in dubbio) tutto quello che ci raccontano due narratori totalmente inaffidabili (uno peggio dell’altro) che riportano dal loro punto di vista una storia di potere, successo e prevaricazione, arroganza occidentale, vanità intellettuale, disintegrazione ecologica in nome della scienza».

Claudio Giunta – Le alternative non esistono (Il Mulino)
«Quanto è effimero il successo, quanto la “coerenza” non significhi nulla, quanto il carattere personale o la capacità di tessere relazioni contino più di quello che poi si scrive e si produce. Giunta scrive un approfondito saggio in cui restituisce l’abilità di Labranca nell’aver letto i tempi prima di molti suoi contemporanei e, perfino, meglio di suoi più noti predecessori. Ma, allo stesso tempo, va molto oltre la critica letteraria e prova a ricostruire un aspetto più complicato della vicenda umana di Labranca: perché una persona di enorme talento non viene riconosciuta? Com’è possibile che scivoli, collaborazione dopo collaborazione, sempre più nelle retrovie? È colpa della società letteraria, del suo carattere, del caso? Probabilmente tutto assieme e, quindi, come al solito finisce per non essere colpa di nessuno», così scriveva Arnaldo Greco su Studio a proposito di quello che è stato uno dei libri italiani più letti e citati dell’anno, un saggio che ricostruisce la figura di un grande intellettuale, stimato e dimenticato, come Tommaso Labranca.

Michele Masneri – Steve Jobs non abita più qui (Adelphi)
Una raccolta di reportage che diventano racconto unitario e appassionante del luogo che negli ultimi vent’anni è stato l’epicentro della trasformazione globale delle nostre vite: la California e in particolare San Francisco e la Silicon Valley, fotografati proprio nel momento in cui l’apogeo era appena superato e da lì in poi (il 2016-2017) sarebbero iniziati i guai e i problemi, le grane di Zuckerberg, l’ascesa di Trump e via dicendo. Dentro ci si trovano anche il racconto spassoso e istruttivo di come funziona e quanto sia avanzata la comunità Lgbt nella città che nelle parole di Masneri (intervistato su Studio) è «un parco a tema dei diritti», e bellissimi ritratti e interviste a personaggi come Jonathan Franzen e Bret Easton Ellis. Brillante, raffinato, contemporaneo.

Louise Glück – Averno (Il Saggiatore)
Trad. di Massimo Bacigalupo
È la storia editoriale dell’anno, venuta alla ribalta a ottobre con l’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura a questa poetessa americana nata nel 1943. Semisconosciuta in Italia, il suo libro più importante, Averno (2006) era nel catalogo di un piccolo libraio-editore napoletano, Dante & Descartes, che vi si era incuriosito a causa del titolo, il nome di un piccolo lago di origine vulcanica, a qualche chilometro da Napoli, che nell’antichità si credeva fosse la porta degli inferi. Averno, come L’Iris selvatico del 1993 (e a venire tutta l’opera di Glück) è stato poi acquisito da Il Saggiatore che l’ha subito riproposto in una nuova edizione uscita a dicembre. Dentro il libro troverete una luce fredda, parole che sembrano oggetti dentro un flusso che è sogno, paesaggio, mito e quotidianità.

Louise Gluck nel 2016, mentre riceve da Barack Obama la National Humanities Medal per la poesia.

Robert Macfarlane – Underland (Einaudi)
Trad. di Duccio Sacchi
È passato un po’ in sordina questo libro di Robert Macfarlane in Italia, forse perché di difficile catalogazione in un Paese in cui amiamo dividere le cose per scaffali, forse perché la moda della non-fiction, e ancor di più quella del nature writing, ha ormai perso il suo slancio iniziale. Arrivava invece con ottime recensioni, a proposito di scrivere della natura: «Un libro eccellente», l’ha descritto il New York Times, aggiungendo poi: «Il lato oscuro del nature writing». Perché oscuro? Perché quello di Macfarlane è un viaggio – in prima persona, e attraverso testimonianze, storie e tradizioni – nel sottosuolo della terra, dove la luce non arriva. Dove troviamo un mondo (nel vero senso della parola) di curiosità scientifiche e naturali, e caverne e fiumi scavati nel corso dei millenni, scorie radioattive che si estingueranno soltanto tra centinaia di migliaia di anni, veri e propri universi paralleli che ignoriamo completamente, qui in superficie, a guardare sempre verso il cielo. Ma forse la parte più interessante di ciò che si trova sotto di noi non è la natura, scopriamo in Underland, ma siamo noi stessi: quando ci imbattiamo, cioè, nei resti dimenticati di ciò che è stata l’umanità, decine di migliaia di anni fa, oppure soltanto secoli. È un viaggio anche nella nostra memoria, destinata sempre a riaffiorare.

Ben Lerner – Topeka School (Sellerio)
Trad. di Martina Testa
È il terzo romanzo di uno tra i più celebrati scrittori maschi bianchi americani. Per alcuni non al livello dei precedenti, ma è piaciuto moltissimo ad altri. È ambientato nel Kansas ricco, bianco, borghese e intellettuale. Su Studio Fabrizio Spinelli lo ha definito «uno scavo archeologico nella memoria del suo doppio Adam Gordon e nella preistoria del linguaggio approssimativo dei social media e dei comizi di Trump, è probabilmente la sua opera più matura, al punto da farci chiedere se il poeta sperimentale di Angle of Yaw non si sia trasformato in un narratore vero e proprio, non solo in un produttore di oggetti testuali ibridi».

Anna Wiener, La valle oscura (Adelphi)
Trad. di Milena Zemira Ciccimarra
Come avevamo già scritto su Studio, il famoso, chiacchieratissimo memoir di Anna Wiener è una specie di Diavolo veste Prada versione tech (e infatti la Universal lo trasformerà un film) in cui la voce narrante alterna il senso di inadeguatezza e i momenti di scetticismo a un istintivo entusiasmo, mantenendosi quasi sempre in posizione borderline e mostrandoci i lati luminosi e i lati oscuri di una San Francisco colta in un momento particolare, precedente a quello descritto da Masneri: qualche anno dopo l’esplosione della febbre del tech, diversi anni prima del diffondersi capillare di diffidenza e disillusione. Descrivendo il passaggio dal mondo sfigato, squattrinato ma in qualche modo sensuale, lento e caotico dell’editoria newyorkese a quello efficiente, dinamico e spaventosamente sano della Silicon Valley, Wiener riesce a disegnare una caricatura spassosa di entrambi. Durante i cinque anni in cui l’autrice si immerge nelle acque sempre più profonde della bolla del tech (per riemergere molto più stressata e ricca di prima), il lettore ottiene le informazioni necessarie per costruire una panoramica realistica, dettagliata e inquietante di quello che c’è dall’altra parte di internet. Un’analisi del passato che, in un anno in cui, grazie ai vari lockdown, il digitale ha fatto passi da gigante in tempi record, potrebbe aiutarci a leggere il futuro.

Paolo Giordano, Nel contagio (Einaudi)
In questo breve saggio, pubblicato poco dopo l’esplosione della pandemia, Paolo Giordano sfrutta la sua sensibilità scientifica (come nella Solitudine dei numeri primi) per provare a comprendere quello che ci è successo, senza aver paura di delineare un futuro decisamente oscuro. Anche le osservazioni più semplici contenute in questo libricino sono espresse con tale chiarezza e prontezza da costituire un’importante testimonianza di quello che sabbiamo vissuto e che stiamo ancora vivendo: «Non voglio perdere ciò che l’epidemia ci sta svelando di noi stessi», scrive Giordano all’inizio. «Superata la paura, ogni consapevolezza volatile svanirà in un istante – succede sempre così con le malattie» (abbiamo parlato di questa tendenza alla rimozione, di virus e di scrittura anche durante la nostra conversazione a Studio in Triennale, per la prima volta interamente online: qui il video dell’incontro). La lucidità e la rapidità con cui Giordano ha saputo elaborare un evento incredibile come quello che ha segnato il 2020 non può che renderlo uno dei 10 libri dell’anno.