Cultura | Letteratura
Ben Lerner e il grande romanzo adulto
Topeka School, l'ultimo libro dello scrittore e poeta americano, è una seduta psicanalitica fra generazioni ma anche un tentativo di superare la deriva reazionaria dei nostri tempi.
Topeka School (appena uscito per Sellerio, traduzione, splendida, di Martina Testa), ancora più dei due precedenti romanzi di Ben Lerner, è un libro su come funziona il linguaggio, sul quel particolare modo di agire del linguaggio che gli uomini chiamano poesia: «La domanda è: riesci a leggere l’alfabeto sul petto di Holly Eberheart, il linguaggio natale del latte e degli uomini? La domanda è: sai usarlo per scrivere una poesia? Sulla famiglia, l’arte, la memoria e il significato, come si crea e si disfa?».
Se in Leaving the Atocha Station (Un uomo di passaggio, Neri Pozza), Lerner si soffermava sulla questione, mutuata dal geniale Allen Grossman, della virtualità della poesia (la poesia è un potenziale astratto incapace di realizzarsi pienamente; le poesie migliori sono quelle che rappresentano questo fallimento permettendoci di fare esperienza di una sorta di pura latenza). E se in 10.04 (Nel mondo a venire, Sellerio) a essere indagato era soprattutto l’incerto statuto ontologico dell’io che pronuncia il discorso e si muove nel testo (da dove arriva la voce che leggendo in mente la pagina di un racconto o di una poesia in qualche modo ripetiamo? Da quale punto dello spazio-tempo proviene?), “io” che Lerner finiva per situare in un luogo indeterminato, a metà strada tra realtà e finzione, tra segnaposto autobiografico e mero indice grammaticale. In Topeka School, che è una vera e propria preistoria degli altri due romanzi, i giochi metafinzionali sono messi da parte a favore di una struttura più tipicamente romanzesca (e quindi polifonica: nel libro si alternano i punti di vista di Adam Gordon, alter ego dell’autore, dei genitori, Jonathan e Jane, e di un personaggio eccentrico di nome Darren), all’interno della quale sono scorciate le vicende di quattro generazioni.
Non a caso, Lerner ha dichiarato in un’intervista con Ocean Vuong, su Literary Hub, che uno degli argomenti centrali del libro è quello della relazionalità intergenerazionale, della trasmissione tra genitori e figli (tra Jonathan e Jane e i loro genitori, tra loro due e Adam, tra Adam e le sue figlie). In quest’ottica genealogica la poesia (che noi moderni siamo soliti intendere, a torto, come la cosa più lontana dalla retorica) è ricondotta al suo antenato più prossimo, all’oratoria, disciplina di cui Adam Gordon è l’indiscusso campione. «E quel giorno alla Russell High, mentre enumerava in sequenza sempre più veloce i vari imprevedibili modi in cui l’applicazione della proposta degli avversari avrebbe condotto all’olocausto nucleare […], Adam superò, come spesso gli accadeva, una soglia misteriosa. Cominciò a sentirsi non tanto come se stesse tenendo un discorso quanto come se un discorso stesse tenendo lui, come se il ritmo e il tono della sua esposizione stessero cominciando a dettarne i contenuti, e non ci fosse più bisogno di organizzare le argomentazioni, perché bastava semplicemente lasciarle scorrere attraverso di sé. Tutt’a un tratto la tensione fisica che aveva addosso diventava pura energia concentrata, trasformazione che rendeva l’esperienza vagamente erotica. Che le parole che gli fluivano dentro riguardassero i presunti effetti catastrofici della cessazione del programma federale di intercettazioni telefoniche o l’incapacità dell’oratore pro di dimostrare l’attuabilità della sua proposta, si trovava comunque più nel regno della poesia che della prosa, e la velocità e l’intensità dell’enunciazione forzavano a tal punto il discorso che il suo significato referenziale gli sembrava dissolversi nella pura forma».
La poesia per Lerner non è, come si ostinano ancora a dire tanti poeti, una libera espressione del soggetto, ma una costante antropologica che ha il potere di trasformare il linguaggio in un incantesimo, in una formula magica, in un meccanismo di profilassi, in un evento eternamente reiterabile. Questo fenomeno prosodico, «un perfetto misto di somatico e semantico», che rende il linguaggio della comunità estraneo e per questo memorabile, ha il suo negativo nella pratica oratoria dell’«asfaltare», cioè dell’affastellare quanto più rapidamente possibile affermazioni e argomenti, magari insostenibili e privi di alcun fondamento, senza che l’avversario possa controbattere: «Già prima che la vita di una notizia si accorciasse a ventiquattr’ore, prima dei tweetstorm, del trading finanziario basato sugli algoritmi, dei fogli Excel e degli attacchi degli hacker per mandare in sovraccarico i server, gli americani venivano “asfaltati” nella loro vita quotidiana; nel frattempo, i loro politici continuavano a parlare molto, molto lentamente di valori del tutto scollegati dalle misure che adottavano». Il dibattito politico moderno è perciò, da un lato, un discorso specialistico che ha smesso di interrogarsi sui valori che reggono una comunità, dall’altro il modo semplificato con cui i politici sottopongono ai comuni cittadini giudizi di valore infantili e altamente ideologici. Nello svolgimento delle gare di oratoria che attraversano il libro, e soprattutto nei consigli che il coach reazionario Evanson dà al giovane Adam, c’è già inscritta tutta la retorica del populismo trumpiano.
Quando Lerner afferma che «l’America è un’adolescenza senza fine», il riferimento è alla mascolinità tossica che fa da sfondo al romanzo, nella Topeka (piccola cittadina del Midwest) del 1997. Adam è il figlio di due sofisticati psicanalisti newyorkesi che si sono trasferiti in provincia per lavorare alla Fondazione, un’istituzione pioneristica nel loro campo. Cresce diviso tra la cultura e la delicatezza dei genitori e il conformismo steroideo e suprematista dei coetanei, al quale aderisce pur provando a mantenere vivo uno spazio ecologico (la cura e le attenzioni che dedica alla nonna, l’oratoria, la poesia). Rischia di trasformarsi in uno degli uomini che molestano la madre per le sue posizioni femministe e anti-patriarcato, ma diventa un poeta raffinato e ipersensibile, come dimostrano tanto la coda del libro (ambientata nel presente: il tempo dell’enunciato coincide con il tempo dell’enunciazione, Adam è adulto, sta scrivendo il libro – in cui parla di sé in terza persona e al passato – che stiamo leggendo)m che gli echi dal futuro che qua e là affiorano nel romanzo. Il libro funziona attraverso macro scene che più che sciogliersi in una trama si giustappongono, come le strofe di un’ode, aggregandosi tra loro attraverso costanti richiami interni, tic linguistici, temi, personaggi, lo stridere delle prospettive. Topeka School si offre allora come una costellazione di scene madri, di riti di passaggio, di nuclei narrativi ossessivi e dalla valenza altamente formativa per chi vi è implicato, scene che riaccadono identiche ma differenti, in nuovi contesti, in altre epoche, con altre funzioni, come tante ripetizioni dinamiche. Tutto ciò contribuisce a rendere il romanzo una sorta di interminabile seduta psicanalitica intergenerazionale, durante la quale i membri di una famiglia osservano le loro identità formarsi e ridefinirsi: differenza e ripetizione, identità e straniamento.
La morfologia del libro, l’organizzazione della scrittura, è strettamente solidale con il suo aspetto semantico. C’è un uso liquido dei linguaggi specialistici (quello della psicanalisi, quello dell’arte, quello dell’oratoria, quello della poesia, quello dell’infanzia) che vengono rifunzionalizzati in maniera ludica. Tempo e spazio, privato e pubblico, personale e collettivo, prima e terza persona, tendono continuamente a collassare. Frasi, gesti e immagini vengono riproposti all’interno del libro in posizioni diverse, in contesti impropri, come tanti elementi di disturbo che sembrano frutto di un malfunzionamento cognitivo. Si tratta di un procedimento ormai tipico della scrittura lerneriana, ma che qui sembra acquisire una diversa pregnanza. «Ma gli adulti non esistono, e bisogna crescere per capirlo in pieno: i tuoi genitori sono soltanto altri due corpi che vivono gli effetti del paesaggio e del clima, che cercano di dare un senso a delle colonne d’aria in movimento, che ridefiniscono le contingenze come necessità tramite la religione o la Teoria del Ghiaccio Cosmico o la scienza ebraica, tagliando profonde verità con il loro opposto mentre i regimi di senso crollano e vengono asfaltati».
In definitiva l’ultimo libro di Ben Lerner, uno scavo archeologico nella memoria del suo doppio Adam Gordon e nella preistoria del linguaggio approssimativo dei social media e dei comizi di Trump, è probabilmente la sua opera più matura, al punto da farci chiedere se il poeta sperimentale di Angle of Yaw non si sia trasformato in un narratore vero e proprio, non solo in un produttore di oggetti testuali ibridi. Topeka School non è solamente un libro brillante e intelligente (come i precedenti), ma anche un libro (tra le altre cose) sul raccontare storie, su come queste storie sono capaci di plasmare la nostra identità, e, creando uno spazio intersoggettivo di ascolto e attenzione, di salvarci dalla deriva reazionaria dei Paesi in cui viviamo. Da una retorica che non è basata sull’amore.