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Michele Serra e quella cosa di sinistra

Le Amache, il pop, lo stile, Berlusconi e Renzi: un'intervista al corsivista più amato, appena tornato in libreria con una raccolta dei suoi editoriali.

11 Dicembre 2017

Pensi a Michele Serra e immediatamente, una dopo l’altra, sciorinate dal suo stile inconfondibile, ti vengono in mente le sue Amache: i corsivi più famosi d’Italia probabilmente; quelli che tengono compagnia ai lettori di Repubblica dal 2000. La Feltrinelli, che è la casa editrice di Serra, le ha raccolte ne Il grande libro delle Amache. E, contemporaneamente, ha pubblicato anche un altro libro, La sinistra e altre parole strane, brevissimo e intimissimo, più sul processo che c’è dietro ogni Amaca, che sulla Sinistra.

Sono 87 pagine. Potrebbe essere un monologo, e forse è così che nasce, di Serra ai suoi lettori. La “sinistra” del titolo è la parola più citata nelle sue Amache. La seconda è “politica”. La terza è “Berlusconi”. «Così dice il text mining almeno», precisa Michele Serra. Siamo seduti al tavolo di un bar di un vecchio albergo. Fuori dai finestroni socchiusi, c’è la Roma sonnolenta di Via della Penna: poche macchine, ancora meno pedoni; un’atmosfera grigia, poco sfumata. «Sono venticinque anni che c’è Berlusconi. Questa volta qui mi sembra che sia in forma molto collaterale».

ⓢ Collaterale, dice?

«Vediamo quanti voti prende, ma non penso tanti. Se torna, è perché c’è chi lo vota. Ogni tanto la frase fatidica diventa “l’avete demonizzato, l’avete ingigantito, se ne è parlato troppo”. Sì, forse si sarebbe potuto usare un dosaggio diverso. Ma francamente la colpa è di chi lo vota. Io che c’entro?».

ⓢ Questa cosa, “l’elettore è nudo”, torna molto anche nel suo libro. Cioè: spesso il problema è chi elegge, non chi viene eletto.

«C’è una quantità di italiani che ha molto amato Berlusconi, che si è rispecchiata in lui. Peggio per loro. O contenti loro: non so che commenti fare. Per quanto mi riguarda, era inevitabile che raccontando il Paese in questi ultimi venticinque anni, sempre secondo il mio punto di vista, mi toccasse parlare anche di lui».

Repubblica, che è il giornale che ospita le sue Amache, è poi diventato un polo anti-berlusconiano.

«Repubblica precede Berlusconi. E negli anni è diventata il giornale dell’opinione pubblica di sinistra. Non un organo di partito, attenzione: ma il giornale più rappresentativo di un’opinione pubblica di sinistra composita, variegata e tutto quanto. Certo finché c’era Berlusconi era talmente urgente, talmente preponderante, la necessità di neutralizzarlo e di combatterlo che ora alcune sensibili differenze dai lettori di Repubblica sono viste meno».

ⓢ Perché secondo lei?

«C’era un fronte comune contro quella roba lì. Dopodiché, passato Berlusconi, il giornale si è ritrovato a fare i conti con i suoi lettori, con quella sinistra, quel centro-sinistra, profondamente lacerati dall’esperienza renziana. E penso che il giornale, nel complesso, abbia riflettuto la schizofrenia dei suoi lettori».

ⓢ Scalfari, però, ha cambiato totalmente posizione: ora, dice, voterebbe Berlusconi piuttosto che Di Maio.

«Questa è l’opinione di Scalfari. Io la penso diversamente da lui. Io penso che nulla sia peggio di questa destra qui. Berlusconi non so che ruolo avrà. Non penso un ruolo preponderante. La convention di Forza Italia dell’altro giorno è stata sconvolgente: non si capisce che anno è, chi sono. Hanno qualche tonnellata di stucco in più, come per calcificare per sempre quelle facce. Però a me non piace, penso che peggio di quello non ci sia niente. Non ho particolare simpatia per i Cinque Stelle. Non li considero neanche benefici. Penso che rappresentino, bene o male, la frustrazione e la rabbia italiana».

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ⓢ Torniamo alle sue Amache. In questi anni questo tipo di corsivo è diventato un vero e proprio genere giornalistico.

«Devo dire che è un genere psicologico. L’incontro quotidiano, per giunta informale, quindi senza bandiere al vento, senza nastri da tagliare, senza discorsi pomposi, dà assuefazione. Sia a chi scrive che a chi legge. Incontro tantissime persone che oramai hanno un rapporto profondamente affettivo con l’Amaca. Un’abitudine. Un’abitudine quotidiana. Ovviamente se pensassero che quello che scrivo è ributtante non sarebbe diventata un’abitudine. Però c’è un’affinità su molti punti. Evidentemente io incarno in modo perfetto l’uomo medio di sinistra, forse con molti dei luoghi comuni che ci sono; evidentemente non sono particolarmente strambo o originale o marginale. Sono pop. L’ho scoperto con gli anni. Cosa che non sospettavo minimamente. Da giovane mi sentivo di tendenza, con Cuore e la satira. A parte che anche Cuore è stato pop, vendendo centomila copie».

ⓢ Ma pop in che senso?

«Sono pop nel senso che rappresento una serie di punti di vista, di sensibilità e di emozioni nella quale si riconosce un sacco di gente. E penso che sia così anche per Gramellini e per Feltri con i loro corsivi».

ⓢ I corsivi alla fine, come dice anche lei nel suo libro, sono opinioni. E dare la propria opinione, se ci pensa, è anche quello che succede sui social di cui lei non è grande fan.

«Qualcuno mi ha detto che sono stato social inconsapevolmente e in largo anticipo. E un po’ è vero. Intanto, sai, dire “i social” è un po’ come dire “i giornali”: c’è la merda e c’è la cioccolata. Se leggi Sinistra e altre parole strane, ti accorgi che quello che per me conta è la scrittura. Io lavoro, fatico, è difficile che riesca a scrivere un’Amaca spontanea o di corsa. Capita una volta ogni cinquanta, forse. È un lavoro di correzione. Sono social senza la compulsività del social. A meno che non si consideri compulsiva la quotidianità. Diciamo che ho una compulsività comoda, che mi consente di dire una cosa al giorno ma con cura».

ⓢ E in effetti se c’è una cosa che sembra proprio non piacerle è la non-cura.

«Quando mi chiedono “quali sono le Amache di cui ti penti?”, io rispondo: quelle in cui non sono riuscito a dire quello che penso, a dire una cosa chiara. Sono Amache che rileggo e che dico: non sono mica tanto d’accordo. È normale dopo venticinque anni. L’Amaca fumosa, l’Amaca che mena il can per l’aia, che tergiversa è l’Amaca che mi è piaciuta di meno. E ce ne sono, insomma. Sono le Amache inutili».

ⓢ Perché?

«Ho trovato una vecchia poesia di Cuore in cui dico che l’unica cosa veramente volgare è non dire niente. Scrivere, cioè, senza dire niente. Sono ancora d’accordo. Sprecare l’occasione è brutto. Essere al di sotto delle responsabilità, insomma. Parlare in pubblico è importante, è un momento, che devi usare. E se lo usi in modo sciatto, o anche non sciatto nelle intenzioni, c’è da ammettere di aver sbagliato».

ⓢ Crede che oggi sarebbe possibile aprire una rivista come Cuore?
«Io sono convinto che la quantità di materiali satirici in rete sia almeno equivalente. La roba c’è. L’enorme vantaggio di allora era che facevi un giornale, nel quale davi un’ossatura e una casa, una casa comune a tot autori, che voleva dire anche una serie di punti di vista diversi. Adesso è un casino. Riuscire in questo caos, che ovviamente è anche vitale ed esplosivo, è difficile. Spero che ci siano dei ragazzi che hanno una capacità di orientamento superiore alla mia. Ma penso che anche quelli bravi ad orientarsi sentano la mancanza di un luogo preferito».

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ⓢ Perché “mancanza”?

«Manca strutturalmente. Manca quello che i francesi chiamano “milieu”. Milieu significa che ci sono tre stronzi come noi, che si siedono a un caffè, chiacchierano e hanno idee. Il milieu è una specie di incubatrice. E deriva anche dal contratto umano».

ⓢ E crede che una cosa del genere, online, sia impossibile?

«Io non so come sul web possa crearsi, o ricrearsi, qualcosa di simile. Immagino che ci siano dei siti, dei blog, che lo fanno. Ma allora, con Cuore, era molto più potente. Tra l’altro ebbi il lavoro molto facilitato perché prima di me c’era stato Tango: e io ho ripreso quegli stessi autori e ne ho cercati altri in giro. È un po’ come formare una squadra di calcio e prendersi i migliori».

ⓢ Quello di dare una struttura di riferimento, però, non dovrebbe essere compito dei giornali? Penso a quanti inserti culturali ci siano oggi, ogni settimana, in edicola.

«Qui non ho risposte precise. Per dartele, dovrei essere un giovane. Non so se questo avviene perché è dispersivo il metodo, e quindi non hai né la testa né il tempo per fermarti in un posto per tre ore – perché un giornale è anche questo: è statica, c’è bisogno di sedersi e di fermarsi. Oppure se dipenda dalla mancanza di idee forti, come si dice banalmente. Cioè un pensiero che fa da coagulo. E lo farebbe anche sul web. Io ho l’impressione che ci sia un cambiamento metodologico proprio rivoluzionario. E non so quante persone sotto i 35 anni sentano il bisogno di leggere un giornale».

ⓢ Il punto, nel suo libro, è lo stile. La scrittura. E quindi le chiedo: conta di più la forma, ovvero come si dice una cosa, o il contenuto, la cosa cioè che si vuole dire?

«Se uno parte con zero contenuti, la forma non serve proprio a un tubo. È evidente che alla base ci sono una serie di simpatie e di antipatie, che ci sono una serie di orientamenti etici ed estetici che ti appartengono e altri che rifiuti».

ⓢ Però?

«Puoi avere tutti gli umori del mondo, ma se la forma è mediocre non ti caga nessuno. E funziona anche nell’altro senso: la forma può aiutarti. Quando nel libro dico che le mie parole sono migliori di me, intendo dire proprio questo: ci sono momenti in cui fermandomi, pensando, prendendo tempo riesco a spiegarmi meglio; e la forma restituisce più forza al contenuto; anzi, talvolta me lo rivela».

ⓢ Una cosa che mi ha molto colpito è la contrapposizione iniziale, immaginifica, tra l’illustrazione di Gipi e il ritratto di Kurt Vonnegut che ci sono nel suo studio. Sembra rappresentare proprio questo: l’equilibrio tra contenuto e forma.

«È vero. Un po’ è casuale, ma è così. Gipi mi ha voluto regalare questo omino con la bandiera rossa sperduto in mezzo al nulla che ricorda la mia storia, da dove vengo, qual è la mia esperienza umana. Vonnegut, invece, è frustrante: lui scrive veramente come un ragioniere, con frasi brevissime, mai voli pindarici, pochissime subordinate. Le due cose stanno molto insieme. Devo dire che con il passare degli anni tengo in considerazione più la forma. Io per esempio leggo abbastanza spesso Il Foglio, e lo leggo per quello: perché è scritto bene, dalla prima all’ultima riga. Ci sono delle cose che mi fanno girare le palle, ma apprezzo enormemente lo sforzo di usare bene, di usare davvero, la parola».

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ⓢ La parola che più ha citato in venticinque anni di Amache e che ritorna anche nel titolo del suo libro è “sinistra”. Cos’è, oggi, la sinistra?

«È ciò che non si sa che cos’è. E un pochino è sempre stato questo. A uno di destra, dopotutto, le cose vanno bene così: magari è più incazzato con gli immigrati, magari di meno, magari di più per le tasse. Però grossomodo il quadro va bene, ed è un modo di affrontare la vita. La sinistra è sempre stata un’incognita. Quello che il mondo dovrebbe essere. Cosa che suona presuntuosissima da una parte, e molto vaga dall’altra. E quindi ci si scontra con questa gragnuola di domande che batte sulla testa. Dopodiché ci sarebbe da parlarne infinitamente. Cos’è la sinistra, chi è di sinistra».

ⓢ Renzi è di sinistra?

«Renzi per alcune cose è molto più di sinistra di Bersani e di D’Alema, come per la legge Cirinnà, che il vecchio Pci non avrebbe mai fatto. Su altre cose, come la tutela del lavoro, subisce di più l’andamento del mercato capitalistico. Quelli che però mi scrivono che Renzi è un alieno, che ci ha divorato dall’interno, sono degli imbecilli. Sono dei paranoici. Questa idea malsana che ci sia un corpo estraneo che viene ad infangare casa tua e la tua purezza è ridicola. Non è questo il problema».

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