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Justin Bieber ha pubblicato un nuovo album senza dire niente a nessuno Si intitola Swag e arriva, a sorpresa, quattro anni dopo il suo ultimo disco, anni segnati da scandali e momenti difficili.
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Il cofanetto dei migliori film di Ornella Muti curato da Sean Baker esiste davvero Il regista premio Oscar negli ultimi mesi ha lavorato all’edizione restaurata di quattro film con protagonista l’attrice italiana, di cui è grandissimo fan.
Nell’internet del futuro forse non dovremo neanche più cliccare perché farà tutto l’AI Le aziende tech specializzate in AI stanno lanciando nuovi browser che cambieranno il modo di navigare: al posto di cliccare, chatteremo.

Il giorno in cui McDonald’s conquistò Mosca

Il 31 gennaio del 1990 veniva servito il primo "Big Mak" dell'Unione Sovietica: sembrava la vittoria dell'Occidente, ma oggi stiamo scoprendo che la fine della storia, della guerra reale e della Guerra Fredda è stata solo un mito momentaneo.

08 Marzo 2022

Se il Mediterraneo si estende fino a dove nascono gli ulivi, secondo la definizione degli antichi, l’impero americano è parso arrivare fino a dove si beve la Coca-Cola. È sembrato cioè che l’America coincidesse con il globo stesso. Ma abbiamo forse dato troppa importanza ai simboli. «La Pepsi-Cola sarà il primo prodotto della società consumistica americana che verrà confezionato e venduto nell’Unione Sovietica» si legge nel novembre 1972 sul Corriere della Sera. Fino a quel momento gli accordi tra i due blocchi riguardano solo macchinari pesanti, petrolio e prodotti industriali. Gli americani inviano tecnici per creare gli impianti di lavorazione e imbottigliamento della bevanda.

Il primo McDonald’s dell’Unione Sovietica apre a Mosca il 31 gennaio 1990. Sono passati appena tre mesi dalla caduta del muro di Berlino. L’inaugurazione del ristorante americano, quintessenza dell’America, sprigiona nell’immaginario una forza paragonabile a quella dei berlinesi a cavalcioni sul Muro. Il McDonald’s di Mosca è il più grande del mondo (di ristoranti allora se ne sono aperti già in 52 Paesi) e il progetto è di aprirne venti in tutta l’Unione Sovietica. L’idea di sbarcare in terra sovietica viene al presidente della McDonald’s Canada, durante le Olimpiadi del 1976: «I negoziati con i sovietici sono durati dodici anni: più di quelli per la distruzione degli euromissili». McDonald’s a Mosca è la fine di un’era. Viene visto come la penetrazione definitiva degli Stati Uniti nel territorio più ostile, e quindi come il passaporto per approdare ovunque nel mondo. Intanto la Coca-Cola usa questo evento come cavallo di Troia: «Attraverso McDonald’s fa il suo primo timido ingresso sul mercato sovietico», fino a quel momento monopolizzato dalla Pepsi. A Mosca l’apertura è delicata e suggestiva, il ristorante è su quattro piani, con 700 posti a sedere. Viene interpretato come la resa sovietica a un modello alimentare ed economico. Il fast food come sineddoche di una filosofia in cui tutto si consuma velocemente. Un esercito di ventisettemila giovani presenta domanda per lavorare in quel McDonald’s, per 630 dipendenti. Carne, salse, lattuga e patate arrivano da produzioni locali, mentre le sementi delle patate vengono importate dall’Olanda

Per molti anni, una generazione è cresciuta con l’idea che le guerre si fossero spostate – non tutte, ma alcune sì – su un piano simbolico. Che le battaglie si combattessero ormai su mode, tendenze, consumo di prodotti, stili di vita, consumi culturali, uso di immaginario. La politica si valutava in base alla penetrazione di un logo, di un marchio, di una catena di negozi. Le vetrine dei centri delle città del mondo sono tutti uguali? Se ne concludeva che l’omologazione culturale aveva smussato differenze, attriti, tensioni. In tutti e cinque i continenti si indossano le Nike ai piedi: ecco il villaggio globale. Jeans e infradito in Africa, jeans e chador nel mondo arabo, jeans e biciclette a Pechino, jeans e colbacco in Russia. L’occidente era ovunque. In pochi giorni di guerra tra Russia e Ucraina, di minaccia nucleare in Europa, si ha invece l’impressione – già sorta per la verità in diverse altre occasioni – che l’impero americano dilaga solo come una patina, una spolverata di look sulla superficie del pianeta. Tradizioni, culture, valori e odio invece hanno radici profondissime, per tentare di analizzarli servono carotaggi. Le identità sono degli enigmi di granito, enigmi che portano a morire per la patria.

Sarà che il Novecento comincia con Freud che interpreta i sogni, sarà che per Nietzsche esistono solo interpretazioni, sarà l’indigestione della semiotica nel secondo Novecento e poi dei cultural studies, ma troppo spesso si è tentati di dare per assodati mutamenti epocali attribuendo eccessivo peso all’immaginario. Quante storie di fantascienza sono state lette come specchio dell’ostilità tra Stati Uniti e Russia? Quando gli alieni sono diventati meno crudeli o addirittura teneri come E.T di Spielberg (1982) non è sembrato che l’incubo Guerra Fredda fosse finito per sempre? In Rocky IV (1985), quando Rocky Balboa batte Ivan Drago viene applaudito anche dai russi. L’impressione che il pericolo di un conflitto atomico fosse alle nostre spalle e non davanti a noi è presente nella letteratura degli ultimi decenni. Dice Klara Sax nelle pagine ambientate nel 1992 del romanzo di Don DeLillo Underworld: «Ora che il potere è in frantumi o a brandelli e ora che quei confini sovietici non esistono più come prima, be’, è proprio adesso che secondo me riusciamo a capire, a guardare indietro, a vedere più chiaramente noi stessi, e anche loro. Il potere aveva un significato, trenta, quarant’anni fa. Era una cosa stabile, focalizzata, tangibile. Era grandezza, pericolo, terrore, tutte queste cose. E ci teneva insieme, i sovietici e noi. Forse teneva insieme il mondo. Si aveva la misura delle cose. Si poteva misurare la speranza e si poteva misurare la distruzione. Non è che io desideri riesumarlo. È finito, grazie al cielo». Invece non era finito. Il mito della fine della guerra reale e della Guerra Fredda è un’illusione ciclica. Newsweek nel 1959 scrive: «Competere con l’unione sovietica in termini di elettrodomestici renderebbe la corsa agli armamenti superflua». La tragedia di ogni bomba sul suolo ucraino ha anche l’effetto di mostrare che il mondo non è poi tanto un villaggio globale, che le multinazionali non hanno completamente sostituito i governi nazionali, che flussi di notizie, tecnologie, turismo e mercati finanziari non hanno ancora l’ultima parola sulla politica, almeno quando invia i carri armati.

Il primo giorno di apertura a Mosca, McDonald’s supera con le vendite le migliori aspettative. Si formano lunghe code e ore di attesa: trentamila persone attendono la polpetta macinata e il sacchetto di patatine fritte. Nel gennaio 2000, per i dieci anni da quell’apertura – durante i quali quel ristorante ha sfamato 25 milioni di clienti – i giornali titolano “Così l’hamburger divorò il comunismo. Dieci anni fa a Mosca aperto il primo McDonald’s, inizio della rivoluzione consumista”. La tesi è che ad accelerare la rivoluzione consumista sia stato «in misura non irrilevante proprio l’umile McDonald’s». L’Urss scivola verso l’autodistruzione, è l’epoca della perestrojka di Gorbaciov, gli hamburger americani arrivano a Mosca: «A dieci anni di distanza quegli avvenimenti appaiono come un chiaro presagio del crollo dell’Urss sopraggiunto nel dicembre del 1991». Klara Sax perde il filo quando parla, ma non bisogna dimenticare che DeLillo è un noto profeta: «Ma come facciamo a essere certi che la crisi sia davvero finita? La disgregazione dell’Urss è davvero in corso? Oppure è tutto un complotto per fregare l’Occidente? Quelli vogliono farci credere che stanno cadendo a pezzi per farci abbassare la guardia, okay?».

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