Attualità

L’altro processo a luci rosse che travolse Hollywood

Risale al 1936 e lo racconta il grande illustratore Edward Sorel in un libro appena pubblicato da Adelphi, I diari bollenti di Mary Astor.

di Letizia Muratori

Gli scandali invecchiano bene, specie quelli sessuali. In queste ultime settimane, a ridosso dei noti fatti di accappatoi e massaggi, perfino i più convinti sostenitori del diritto ad arrabbiarsi per certe faccende, valido anche a distanza di anni, farebbero volentieri a meno dei dettagli. La reazione a catena di confessioni, la tangentopoli globale dello showbiz cui stiamo assistendo, solleva non poche perplessità, dubbi. Ma ogni rivoluzione che si rispetti ha il suo Terrore, e questa che stiamo vivendo, piaccia o meno, lo è. Il cosiddetto backlash è inevitabile, irreversibile, e un filo grottesco. L’intelligenza vacilla di fronte all’ennesimo membro illustre tirato fuori e rimesso dentro i pantaloni. L’intelligenza, ma anche lo stomaco. Mentre il cuore rischia di battere a sproposito per il povero e sputtanato maniaco che solo ieri era uno che conta. Tutto questo accade, a caldo.

Ma se tra una ventina d’anni, un giovane uomo, ripescasse fortuitamente le tracce e le immagini del caso, mettiamo, Weinstein, e si invaghisse di una delle vittime dedicandole una vita di ricerche, invecchiandole accanto con intatto e appassionato candore, se alla fine il giovane uomo, ormai ottuagenario, questa storia la scrivesse e la illustrasse, allora perfino lo spaventoso backlash avrebbe il suo riscatto: giustizia sarebbe fatta, non solo in tribunale. Dietro ogni scandalo, debolezza e squallore c’è una storia notevole che attende d’essere raccontata come merita, e il tempo le fa, appunto, bene.

La prova di tutti questi se e mettiamo non è ipotetica, esiste: la troviamo in libreria, pubblicata da Adelphi. Si intitola I diari bollenti di Mary Astor, ovvero, il grande scandalo a luci rosse del 1936. Una storia vera, la storia di un noto processo che travolse l’intera Hollywood, ma anche una storia creata, rivissuta e immaginata per anni, prima di riversarla finalmente sulla carta, dal suo autore: Edward Sorel. L’illustratore newyorkese è stato uno dei padri della grafica americana. Con Milton Glaser (Mr. “I cuore rosso Ny”, ovvero l’inventore del logo dei loghi) e Seymour Chwast, Sorel fondò i Push Pin Studios per poi distaccarsene nel ‘58 intraprendendo un percorso, come si dice, autonomo. Il suo tratto satirico e romantico a un tempo, ha dato vita alle più belle copertine di Atlantic, New Yorker, e via dicendo.

Chiunque abbia visto il Sinatra di Sorel (Esquire Aprile ‘66): un topo di pessimo umore, assediato da mani femminili tozze e volgarotte che, stringendo accendini e fiammiferi, fanno a gara per raggiungere la sua sigaretta appesa al labbro, non riesce più a immaginare un altro Sinatra. L’idea soreliana del volto umano, sempre in bilico tra la bambola e il letto sfatto, la sua passione per il lato pesto e irresistibile dell’eleganza, quella magia irriverente per cui il figo, il cool, si fa all’improvviso tapino, il suo contrastare l’arroganza del potere abbassandogli le penne, e spesso anche gli occhi e le orecchie, fanno sì che per l’opera intera di Sorel si possa spendere, senza riserve, l’orribile: It’s a classic, calcando pure l’accento.

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Nel 1965 il nostro It’s a classic aveva trentasei anni, lavorava per Ramparts, una rivista molto di sinistra, grazie al Vietnam aveva cominciato a pubblicare vignette satiriche, e tanto per rimarcare  – scrive – la distanza dai doppiopetti che avevano trascinato l’America in guerra, girava come uno straccione. In quel momento da lui tutto ci si poteva attendere tranne che si innamorasse perdutamente di una diva hollywoodiana degli anni Trenta, Mary Astor: una professionista di media fascia che aveva passato la vita a impersonare ricche signore vestite molto bene, ma questo avvenne, e nel più inatteso e fantasmatico dei modi.

In un appartamento dell’Upper East Side che cadeva letteralmente a pezzi, dove Sorel si apprestava ad andare a vivere con la sua seconda moglie, lo attendeva il colpo di fulmine: sollevando uno ad uno gli strati di linoleum in cucina, Sorel ne trovò uno di giornali, evidentemente usati per pareggiare le assi di legno. Erano tutti numeri del Daily News e Mirror, tutti del ’36, e lì stava sepolta Mary Astor, col suo grande scandalo: Clamorose rivelazioni terrorizzano i magnati del cinema… . Sorel rimase ore seduto sul pavimento a leggere gli articoli sul processo. Lo incuriosivano parecchio le clamorose rivelazioni, che ai tempi erano, diversamente da oggi, solo promesse e alluse. Il compito e il divertimento del lettore stava nel riempire i vuoti con l’aiuto di qualche esca, piccante, seminata ad arte in pagina da una iena di cronista.

Ancora nel ’65, e su una natura curiosa e con un debole per le donne nei guai come quella di Sorel, era irresistibile la vicenda dell’attrice trascinata dal marito in tribunale per toglierle l’affidamento della figlia, usando le pagine di certi diari di Mary che facevano di lei una madre degenere. L’immagine di questa creatura, in tutto e per tutto simile alle signore che Charles Dana Gibson disegnava a inizio Novecento, da quel momento in poi diverrà per Sorel una specie di ossessione. Ricostruirne la vicenda, renderle giustizia attraverso un libro era un piano che abbandonava e riprendeva, senza mai rinunciarci. Insomma, il processo Astor rischiava di diventare quel libro di cui si parla con gli amici a cena, il libro della vita che magari si finisce col non scrivere mai. E invece Sorel, a ottanta e passa anni, lo ha scritto, due volte: scritto e illustrato.

La freschezza della sua voce è sorprendente, quasi ingenua, così diretta che spolvera catafalchi monumentali come John Barrymore e, con lui, dà una rinfrescata a tutta la banda della Vecchia Hollywood. C’è perfino Gloria Swanson che fuma con il bocchino, c’è il passaggio dal muto al sonoro, non manca all’appello nessun mito, risaputo, di Babilonia, eppure attraverso gli occhi malinconici e un po’ perdenti di Mary Astor e quelli innamorati di un eterno radicale degli anni Sessanta, tutto appare fresco, forte e pulito come un Martini. Non è la solita incursione cinefila, o queer, in un mondo di falene e lustrini, qui siamo di fronte a una dichiarazione d’amore per la mezzacalza, meravigliosa, che si annida in ognuno: una faccenda leggermente più grossa.

Dodsworth

Mary Astor a partire dal nome è un po’ bluff, un nome dal retaggio aristocratico che le è stato dato per caso. Mary è vittima di un padre, crucco insopportabile, emigrato in America con la certezza di fare i milioni che, dopo un fallimentare allevamento di polli, decide di puntare sulla bellezza della figlia, che non può non diventare una stella del cinema. Mary è vittima di una madre ombra, che però la detesta. E’ vittima soprattutto della sua debolezza. Crede a chiunque, in qualsiasi cosa, tranne in se stessa.

Barrymore che dovrebbe fare la parte del seduttore di ragazzine, e la fa incartandosi una giovanissima Mary che lo affianca in Beau Brummel, Jack, il più grande attore shakespeariano d’America, che per primo di sé dichiara: Perdonami, Goffina, sono un gran figlio di puttana, quando si defilerà non risulta poi tanto condannabile. L’atteggiamento servile che Mary ha nei confronti dei suoi meschini genitori lo ha sfinito, stare con lei lo condannerebbe a una vita in salotto con Otto, il papà crucco, che inneggia alla superiorità della cultura tedesca, senza perdere mai d’occhio il portafoglio.

Mary è una che fa cadere le braccia: non si sente un’attrice, e diva solo una volta, in un treno, dove trova mazzi fiori ad attenderla. Non si sente nemmeno una macchina da soldi, ma una specie di impiegata da set. A sentire Sorel, era un’attrice straordinaria, a sentir lei, una che mirava solo a preparare la cena al maritino di ritorno dal lavoro. La verità sta come sempre nel mezzo, e infatti la cacciatrice di maritini rassicuranti ha qualcosa che non le funziona nella testa, un tratto autentico d’artista, e di maritini ne colleziona uno peggio dell’altro.

Il primo la ama, forse, d’altro amore, per usare una metafora adatta ai tempi. Gelido, senza mai averla sfiorata, il primo muore, lasciandola nella più cupa disperazione. A questo amico, e solo amico, Mary pare avesse voluto bene. La conseguenza della morte improvvisa di lui è l’alcol, l’isolamento e la malattia. La giovane vedova, in seconde nozze, sposa il medico che la ha curata. Il peggiore affare della sua vita, è lui l’uomo che la trascinerà in tribunale. I due hanno una figlia, entrambi si annoiano terribilmente a vicenda. Mary, tra un filmetto a cottimo e l’altro, fugge a New York per una breve vacanza e qui incontra George S. Kaufman, un nome che magari a qualcuno dice poco, ma che è stato un pilastro di Broadway.

Mary Astor

Noto nel giro come un rarissimo esemplare di ninfomane maschio, George era uno scopatore compulsivo, un igienista patofobo, ed era sposato nel più indissolubile dei modi: il matrimonio libero. Sia lui che la moglie per il sesso si rivolgevano altrove, ma solo per quello. Per di più frequentava la cricca, insopportabilmente pallosa e boriosa, dell’Algonquin. Però questo soggetto cui qualsiasi donna sensata, come qualsiasi sciacquetta hollywoodiana, avrebbe dato l’importanza che meritava, aveva un enorme pregio agli occhi di Mary: non le faceva i conti in tasca. Due pregi: col secondo la portava al raggiungimento di ripetute estasi.

Le pagine del suo diario, dopo e durante l’affare Kaufman di cui Mary era la donna del giovedì, divennero bollenti e piene di particolari piccanti anche su altri pezzi da novanta dell’ambiente. Essendosi scoperta all’improvviso una pantera del materasso, Mary prese a stilare pagelle prestazionali sui suoi amanti, e pare che certi seduttori, messi sotto contratto dagli Studios, non ne uscissero tanto bene. Questa lesione di immagine virile spaventava a morte gente come Samuel Goldwin, Louis B. Mayer, Irving Thalberg, Harry Cohn, Jack Warner e Jessy Lassy. Forse una delle scene più belle del libro è quella in cui Mary affronta a testa, quasi alta, i boss di Hollywood riuniti. Samuel Goldwin che ai tempi del processo era il suo produttore e con cui Mary stava girando Infedeltà la difenderà a sorpresa, mosso più che altro dall’odio feroce per il suo nemico giurato: Mayer, il paladino della morale che era solito praticare il casting per vie orizzontali. Una donna sola in mezzo ai leoni: niente di più adatto alla sensibilità cavalleresca di Sorel.

Il libro, specie nella parte in cui si racconta il processo, è ricchissimo di intrecci appassionanti tra la politica e la società dello spettacolo di allora. Lo stritolante e adrenalinico lobbysmo americano qui esce molto meglio che in House of Cards. Al di là dei tantissimi aspetti di mondo, diciamo, di costume, perfettamente restituiti, la forza del racconto e del segno sulle tavole sta nel tifo che l’autore fa per la sua eroina in cui ovviamente si specchia. Entrambi, ad esempio, hanno odiato i loro padri.

Sorel, nato Schwartz nel Bronx, ha cambiato il nome per distinguersi dalla piccineria del genitore, un venditore porta a porta di stoffe. Ma lo ha rinnegato con autoironia affibbiandosi l’identità dell’arrampicatore sociale di Stendhal. Poi come un filo, nemmeno tanto sotterraneo, scorre tra le pagine del libro il dna dell’intellettualità ebraica americana: i suoi tormenti, i suoi tic, la sua enorme influenza culturale. George S. Kaufman non toccava un goccio d’alcol, perché a un ebreo non è concesso di perdersi il contesto, ciò che gli accade intorno. Guardandosi intorno, non perdendosi il contesto, Sorel è riuscito a raccontare qualcosa di quel segreto che è la natura umana, con leggerezza, con pazienza, con tutti i mezzi a disposizione, compreso l’amore.

 

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