Industry | Coronavirus
Il leisurewear è il futuro della moda?
L'abbigliamento comodo è quello perfetto per stare in casa: come le strategie dei marchi si adattano alla delicata situazione che viviamo.
Illustrazione tratta dal profilo Instagram della designer francese Marine Serre
«La prima metà del 2020 sarà probabilmente la peggiore nella storia del mercato del lusso», non ci gira troppo intorno Luca Solca, analista di Alliance Bernstein intervistato nell’ultima puntata del podcast di Business of Fashion. I dati del primo trimestre si sommano ai fatti delle ultime settimane: se l’emergenza Covid-19 aveva già portato a una discesa in picchiata delle vendite in Cina dove ora, a due mesi dallo scoppio dell’epidemia, si sta lentamente provando a riaprire scuole e negozi, l’Europa e l’America hanno solo appena cominciato il loro periodo di isolamento. Più ancora del rallentamento della produzione (in Italia da domenica scorsa tutte le attività produttive non essenziali sono chiuse fino a data da destinarsi), preoccupa il calo della domanda: se le persone sono costrette a casa, perché dovrebbero comprare nuovi vestiti?
Ancora nel podcast, Solca accenna a un’ipotesi che starebbe girando tra gli addetti ai lavori, poi citata anche da un’ intervista del Corriere della Sera a Francesco Tombolini, Presidente Camera Buyer Italia. L’idea è quella di provare a trovare un accordo tra i grandi marchi per uno stop collettivo della produzione delle collezioni primavera estate 2021 (che dovrebbero essere presentate agli addetti ai lavori tra giugno e settembre). Anche ipotizzando che i marchi del lusso possano davvero riuscire ad accordarsi su un fermo di questo tipo, al momento l’urgenza riguarda la vendita della merce che si trova ora nei negozi, chiusi, quindi raggiungibile dai possibili acquirenti solo tramite gli e-commerce: la vendita online però ad oggi rappresenta solo l’11,4% nel nostro Paese. In un momento di grande incertezza, dunque, le aziende di moda (chi più chi meno) sforzano la loro comunicazione. Principalmente in due direzioni.
La prima è quella della solidarietà, doverosa, certo, ma anche significativa nel raccontare un settore più abituato degli altri a reagire con ingegno e tempestività. Primo in ordine cronologico è stato Giorgio Armani, decisionista anche nelle fasi iniziali dell’allarme italiano, quando in piena fashion week aveva deciso di sfilare a porte chiuse. Lo stilista ha donato complessivamente 2 milioni di euro agli ospedali italiani in prima linea per la cura dei pazienti affetti da Covid-19 e ha annunciato di aver riconvertito i propri stabilimenti produttivi in Italia nella produzione di camici monouso destinati agli operatori sanitari. È stato seguito da un gran numero di aziende, tra cui il gruppo Prada, anch’esso impegnato nella produzione di materiale protettivo sanitario, e Trussardi, Bvlgari, Dolce & Gabbana, Versace, Moncler, Benetton e il gruppo Kering tra gli altri, che con Gucci si è impegnato a produrre mascherine per gli ospedali italiani in difficoltà e ha annunciato un contributo di 2 milioni di euro: 1 in favore del Dipartimento della Protezione Civile e 1 al COVID-19 Solidarity Response Fund della Fondazione delle Nazioni Unite. Il gruppo Lvmh, invece, ha innescato la catena delle riconversioni annunciando la trasformazione delle unità di profumi e cosmetici per la produzione di gel disinfettanti per le mani, come stanno facendo anche l’Oreal e La Roche-Posay.
La seconda è uno stravolgimento delle vetrine di marketing: ritirate le inserzioni da riviste cartacee e la cartellonistica, su social media e newsletter si punta sull’unica tipologia di prodotto (non essenziale) che potrebbe essere acquistata in questo momento: l’abbigliamento da casa. Se l’apocalisse deve essere affrontata in pigiama così sia, e ognuno faccia il proprio gioco. I pr si affannano a inviare i loro edit al grido di #iorestoacasa, sui magazine online piovono consigli su come vestirsi per affrontare lo smart working con stile. E i marchi virano la loro comunicazione in questo senso (associandola a sconti anticipati, specialmente da parte del fast fashion). L’unica alternativa al leisurewear, è l’activewear. Perché le palestre saranno pure chiuse, ma se su Instagram fioccano gli allenamenti in diretta e su Amazon tra le categorie più visitate figura quella degli attrezzi per il fitness, c’è ragione di pensare che anche l’abbigliamento e gli accessori sportivi saranno più acquistati rispetto ad altri.
In un’intervista a Wwd, un rappresentante di Net-a-Porter ha dichiarato che il sito ha registrato un aumento del 40% nelle vendite generali di pantaloni della tuta nella prima settimana di blocco COVID-19. Anche la piattaforma e-commerce Farfetch conferma un aumento nell’interesse, come ci spiega un rappresentante: «il desiderio nei confronti del leisurewear non ha mai registrato livelli così alti: la tuta da ginnastica sta vivendo una vera e propria rinascita, con una serie di marchi che offrono una gamma di modelli contemporanei che si rifanno al tradizionale set di pantaloni e felpa da indossare in casa». Sono proprio i rivenditori, specialmente quelli che nascono online, a farlo con maggiore rapidità ed efficacia grazie a un già radicato approccio di editing nella comunicazione. E a una rete logistica che in questo momento può dare un supporto alle realtà partner: «Molte delle nostre boutique partner sono piccole aziende che hanno dovuto chiudere i loro negozi fisici. Pertanto, stiamo anche lavorando con i proprietari per aiutarli in ogni modo possibile durante questo periodo», continuano da Farfetch, «e ci stiamo assicurando che possano continuare a vedere attraverso il nostro sito, anche se non sono in grado di accogliere i loro clienti nei loro negozi al dettaglio in questo momento. Stiamo anche aumentando la visibilità del loro stock, e li aiutiamo nella logistica, nel marketing e nelle operazioni attraverso la nostra piattaforma».
È legittimo chiedersi, però, se dopo uno o due mesi in cui avremo ridotto all’osso le nostre abitudini – come quella di comprare abiti nuovi in continuazione – non torneremo alla realtà irrimediabilmente cambiati. Se avremo comprato probabilmente ci saremo mossi ormai dediti a quel culto dello “stare a casa”, e allora perché, anche con tutta la buona volontà di ascoltare gli esperti che consigliano di lavorare a casa vestendosi come se si andasse in ufficio, mettersi un abito e dei tacchi per lavorare dal divano? E ci sono pochi dubbi sul fatto che il massimalismo tutto loghi e stravaganza che ha attraversato le tendenze negli ultimi anni ci sembrerà decisamente fuori dal tempo. A segnarlo, questo nuovo tempo, sarà forse un linguaggio più riflessivo, e un riscoperto lusso delle piccole cose.