Industry | Coronavirus

Come i marchi di moda stanno iniziando a muoversi

L’emergenza Coronavirus sta colpendo il settore, ma molti brand cercano nuovi modi di comunicare con i propri clienti e affrontare la crisi.

di Studio

Una (finta) confezione di gel antibatterico Purell/Louis Vuitton, realizzata su Instagram dall'utente @rickdick__. LVMH ha annunciato che produrrà gel disinfettante da regalare agli ospedali francesi

Ora che il Coronavirus è ufficialmente una pandemia, tutti i settori economici iniziano a farci i conti seriamente. Per quanto riguarda la moda, ai timori iniziali sul rallentamento dei consumi dei cinesi, sia in Cina continentale che altrove (i cinesi, d’altra parte, sono i primi consumatori del lusso al mondo), si aggiungono ora le chiusure di moltissimi negozi e le incertezze su come la situazione si evolverà nel breve e lungo periodo. I negozi sono chiusi in Italia, Francia, Spagna, Danimarca, Hong Kong e Cina, nel Regno Unito e negli Stati Uniti si è lasciata una formale libertà ma in molti, come Sephora, Nordstrom e Gucci, hanno deciso responsabilmente di abbassare le serrande. Succede qualcosa di simile anche in Brasile e in India, dove gli spostamenti internazionali sono stati fortemente limitati nelle ultime settimane e dove, soprattutto nelle grandi città, sempre più attività sono ferme. Secondo le stime di Business of Fashion, in Italia il settore del commercio al dettaglio è sceso al 25 per cento (in Cina al 50 per cento), mentre marchi globali come Nike si preparano a chiudere in negativo il primo trimestre dell’anno. La banca d’investimento Cowen prevede un declino del 34 per cento per il colosso dell’abbigliamento sportivo, causato dalla chiusura dei suoi negozi negli Stati Uniti, Canada, Europa occidentale, Australia e Nuova Zelanda almeno fino al prossimo 27 marzo, mentre Woozle Research stima che le vendite siano calate del 21 per cento da metà febbraio al 10 marzo.

In Italia, epicentro della produzione del lusso mondiale, affrontiamo il problema della diminuzione degli ordini che, come aveva segnalato il presidente di Confindustria Moda Claudio Marenzi all’inizio dell’emergenza, può mettere in difficoltà le piccole e medie imprese della nostra filiera. Con la diminuzione della domanda dalla Cina, molte aziende stanno vedendo un calo della produzione: per ora il governo ha stanziato 25 miliardi, che sono però molto pochi, e promesso ulteriori misure. Come riporta Annachiara Biondi su Vogue Business, la società di consulenza BCG ha rivisto al ribasso le stime per il 2020, anticipando un calo delle vendite del lusso che dal 10-15 per cento è passato al 20-25 per cento. Secondo BCG, comunque, «le vendite al dettaglio potrebbero subire un impatto più duro rispetto alla produzione, perché i lunghi tempi di approvvigionamento della catena di distribuzione nella moda potrebbero in qualche modo proteggerla. I vestiti ora in negozio sono stati confezionati sei mesi fa e ora i fornitori dovrebbero produrre quello che vedremo sugli scaffali alla fine dell’anno. Il ritmo è rallentato, ma possiamo ancora farcela per le collezioni dell’Autunno Inverno 2020», ha concluso.

Sebbene sia ancora troppo presto per avere un quadro preciso, qualcosa nelle abitudini di shopping sta cambiando. Si nota già un incremento delle vendite online, come rilevato dalla app Hero che ha visto un incremento del 52 per cento degli acquisti nelle prime due settimane di marzo 2020 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Le persone comprano perlopiù dalle 9 di mattina alle 6 di pomeriggio, cioè nell’orario in cui, normalmente, sarebbero a lavoro. In Cina, poi, si è visto un incremento dei marchi di activewear: se dobbiamo motivarci ad allenarci in casa, meglio farlo con un nuovo completo. In questa fase, comunque, sono chiaramente avvantaggiati tutti coloro che vendono beni di necessità, come il cibo e i prodotti per la pulizia, e che possono contare su una forte presenza online (soprattutto Amazon, che meriterebbe un approfondimento a parte, ma anche Walmart e Target in America, ad esempio), ma non è detto che con il prolungarsi delle quarantene non si veda anche l’aumento di altri settori, abbigliamento compreso. Per ora molti marchi, soprattutto quelli del fast fashion che soffrono particolarmente per la chiusura dei negozi (e che erano già in difficoltà), hanno già allargato i loro saldi di metà stagione, che in molti casi sono passati dal regolare 30 per cento al 50, e stanno sperimentando nuovi modi per mantenere il contatto diretto con i loro clienti.

In questo momento, la comunicazione con le proprie community è diventata estremamente delicata. In qualche modo, l’emergenza sembra aver accelerato dei processi già in corso come la riformulazione della classica formula del commercio al dettaglio e il rapporto sempre più diretto tra i marchi e i propri clienti, con tutte le difficoltà che questo comporta. Sono tanti i brand che negli ultimi anni hanno sperimentato nuove piattaforme e modalità di intrattenimento per raggiungere i loro consumatori, dai live streaming ai podcast, ma la particolare situazione che viviamo oggi potrebbe tradursi in un incentivo deciso verso la definitiva apertura a nuove tecnologie, come gli showroom e gli strumenti virtuali per provare gli abiti da casa. Allo stesso tempo, in un periodo storico in cui ai marchi si richiede di prendere una posizione sui grandi temi dell’attualità, è facile cadere nella trappola di quello che è stato definito “moral merchandising”, e cioè tutte quei prodotti creati ad hoc per rispondere a un’emergenza e che possono rivelarsi un’arma a doppio taglio (si pensi al caso delle felpe di Balenciaga per gli incendi in Australia, che sono state viste come un tentativo di capitalizzazione su una tragedia più che come un’iniziativa di supporto).

Sono particolarmente interessanti, perciò, le strategie di “conversione” di cui parla Marta Casadei su Il Sole 24 Ore, attraverso cui le aziende si stanno impegnando a dare il loro contributo in questa fase di emergenza. Lo hanno fatto Miroglio, Artemisia e Santini, che stanno producendo mascherine e camici per il personale medico provando anche a testare nuovi prodotti, come le mascherine riutilizzabili, in attesa di essere certificati e pronti per il commercio. Attraverso Pwc, Confindustria Moda ha poi lanciato un appello, anche social, alle aziende del tessile-moda per la produzione di “tessuto non tessuto” (Tnt) idrorepellente e per la confezione di mascherine, camici, calzari. Mentre si aspetta di capirne di più dal punto di vista della normative di governo, le candidature arrivate sono state all’incirca 100 al giorno. Qualche giorno fa, invece, LVMH aveva annunciato che convertirà le sue fabbriche e i suoi laboratori di profumi, dove normalmente si confezionano i prodotti Guerlain, Dior e Givenchy, per produrre gel antibatterico che sarà distribuito gratuitamente negli ospedali francesi, in particolare nelle 39 strutture pubbliche di Parigi. In Italia lo hanno fatto anche il Gruppo Menarini, la Aquaflex e Davines, che si sono impegnati per donare il gel alle strutture che ne hanno un gran bisogno in questo momento. Decisamente più utile di una t-shirt.