Cultura | Cinema

Le cose migliori viste nel 2022

I film e le serie tv dell'anno secondo la redazione di Rivista Studio.

Top Gun: Maverick, Hustle
Le mie memorie visive di quest’anno vissuto non pericolosamente ma distrattamente, riguardano soprattutto film vecchi e meno vecchi recuperati su Mubi (su tutti Brother di Aleksej Balabanov e Sundown di Michel Franco). Sulle cose uscite nel 2022, invece, confesso una noia abbastanza generalizzata. Orfano, come tutti, di Succession, ho visto pezzi di serie anche interessanti ma non abbastanza da darmi la forza – perché ormai di questo si tratta, di forza – per finirle: DahmerWannaGli anelli del potere e persino l’acclamatissima The Bear, che per carità ha un’ambientazione affascinante e attori bravissimi, l’ho trovata comunque un po’ priva di mordente, sensazione paradossale per una serie tutta basata su dialoghi serrati. Deluso da Licorice Pizza, che mi è sembrato molto di maniera e lontano dal miglior Paul Thomas Anderson, e sorpreso dall’accoglienza di Nope, che è un assurdo film “artistico” di serie b, con delle intuizioni brillanti, ma davvero un po’ scarno per far gridare al capolavoro (mentre proprio in questi giorni tutti i giornali americani lo celebrano nelle liste di fine anno), ho goduto invece immensamente nel guardare al cinema Top Gun: Maverick di Joseph Kosinski, Ecco, per me è il sequel del classico anni ‘80 il vero film dell’anno, e persino di gran lunga migliore dell’originale diretto da Tony Scott. Si dirà, chiaro è merito della tecnologia che ha permesso di produrre uno dei film più spettacolari che si ricordi. Vero, ma Maverick è anche un film scritto benissimo, in cui l’archetipo del passaggio di testimone tra generazioni trova un arco narrativo classico ma perfetto. E la fotografia immerge tutto questo in una specie di idealizzazione estetica degli anni ‘80, con corse di motocicletta al tramonto e partite di football sulla spiaggia, adrenalina, muscoli, romanticismo. A proposito di archi narrativi classici – evidentemente il mio 2022 è stato visivamente un anno conservatore al limite del reazionario – la mia seconda scelta cade su Hustle di Jeremiah Zagar con Adam Sandler, sport movie come si facevano una volta (ancora gli anni ‘80), con la consueta parabola ascesa-fallimento-ritorno ambientato nel mondo dell’Nba in una Philadelphia che sembra presa direttamente da Rocky e con un Adam Sandler gigantesco, vestito malissimo e imbolsito più che mai, e quindi profeta di noi ormai ultraquarantenni con figli che ci credono ancora. (Cristiano de Majo)

La partita di football sulla spiaggia in Top Gun: Maverick

Gli orsi non esistono, Top Gun: Maverick, The White Lotus
Mi rendo conto che leggere questi tre nomi di seguito potrebbe sembrare se non un azzardo quantomeno un delirio, e probabilmente lo è. Intanto perché si tratta di due film (molto diversi fra loro) usciti al cinema e di una serie tv, ma da un po’ di anni qui su Rivista Studio mettiamo insieme film e serie tv perché, ci siamo resi conto, è così che oggi tendiamo a fruire di questi contenuti, complici le piattaforme in streaming e l’onda lunga dei cinema chiusi a causa del Covid. L’anno scorso scrivevo in questa rubrica che al cinema ci ero andata poco, pochissimo, e mi auguravo che nel 2022 lo avrei fatto molto di più, come succedeva prima della pandemia. In effetti, quest’anno ci sono tornata spesso e guardando ai mesi passati due sono stati i momenti in sala che ricordo con maggiore chiarezza. Quando ho visto Gli orsi non esistono di Jafar Panahi, innanzitutto, il film con cui il grande regista iraniano, oggi in carcere, si è aggiudicato il Premio speciale della giuria all’ultima Mostra del cinema di Venezia. È una storia che parla di esilio, vecchie e nuove identità, comunità ed estranei ma che parla anche del cinema stesso, o meglio del perché si fa un film. È una di quelle volte che si esce dalla sala e si sta in silenzio. Ho riso molto e fatto il tifo per tutto il tempo, invece, quando ho visto Top Gun: Maverick, pacchianissima epopea che solo Tom Cruise poteva rendere così credibile e piacevole da guardare e che ci ha ricordato che al cinema ci si può immensamente divertire. Come ogni anno, poi, ho visto un’infinità di serie tv, ma se dovessi sceglierne solo una direi sicuramente la stagione italiana di White Lotus: mi capita ancora di canticchiare quella sigla stupenda, mentre mi compiaccio del successo strameritato della nostra Sabrina Impacciatore. (Silvia Schirinzi)

Sabrina Impacciatore nella seconda stagione d White Lotus

The Bear, La timidezza delle chiome, Station Eleven
Finalmente sta calando l’iper-produzione di serie tv, ho letto da qualche parte in questi ultimi giorni di 2022, e ho pensato: bene, forse sarà più facile trovare qualcosa di decente nella gigante laguna di mediocrità in cui navighiamo da anni. Quest’anno, una delle poche cose a episodi che ha avuto la capacità di spiccare sul panorama – e che soprattutto spiccherebbero anche se fosse il 2012 – è stato The Bear. La storia è una storia di memoria e di famiglia, due ingredienti che ci sono sempre quando si parla di cibo: Carmy è uno dei migliori chef del mondo, affascinante, malinconico e muscoloso il giusto, che lascia la cucina di un super-ristorante («il migliore d’America», dice la sua nuova stagista nella prima puntata) per tornare a casa, a Chicago, a risollevare la paninoteca del fratello suicida. Da qui, la serie si trasforma in un Cucine da incubo veramente da incubo, e con tutto il contorno della tragedia familiare italo-americana a supporto. Ricordi, rimpianti, nostalgie di un’infanzia scomparsa: cucina, insomma. A novembre, in pochi ma ottimi cinema, è stato distribuito La timidezza delle chiome, un film-documentario di Valentina Bertani (sceneggiato con Emanuele Milasi, Irene Pollini Giolai e Alessia Rotondo) che ha qualcosa di straordinario: consiste di cinque anni passati a seguire Benjamin e Joshua Israel, due gemelli che stanno affrontando la maturità, l’estate, la libertà post-adolescenziale e poi il lockdown da Covid, e che però da quando sono nati affrontano anche una disabilità intellettiva. Benjamin e Joshua sono personaggi largen than life, esilaranti, talentuosi, a volte arroganti, a volte sentimentali, a volte volgari. A tratti sembra che siano esseri umani in purezza, senza le paure e le convenzioni dei contratti sociali a incanalarne pensieri e comportamenti: ne risulta un film capace di andare molto in profondità, e scuotere a fondo lo spettatore. Infine, un’altra serie tv costruita in un modo apparentemente caotico e in cui invece torna tutto, in una trama complessa e riuscita: si chiama Station Eleven, parla di un mondo in cui l’umanità si estingue, o quasi, a causa di un virus respiratorio, ed è stata scritta nel 2019 ma – visto che la realtà ha eguagliato la fantasia – è stata poi fatta uscire solo nel 2022. Ha il sapore di quello che temevamo sarebbe successo e poi non è stato, ed è bella da guardare anche per questo: perché è un lungo, distopico, sospiro di sollievo. (Davide Coppo)

Jeremy Allen White in The Bear

Pearl, Blonde, Pleasure
Secondo The Cut è stato l’anno di Julia Fox: negli ultimi mesi lei e la sua compagna di merende Emily Ratajkowski hanno invaso TikTok con le loro riflessioni sullo sguardo maschile, o meglio, sulla decisione di voltargli le spalle, dopo una vita passata ad appagarlo e sfruttarlo per fare carriera (ne ho scritto qui). Se il femminismo pop di queste due mamme single non riesce a convincermi del tutto, forse proprio perché espresso in modo così insistente, letterale e citofonato, mi hanno invece convinto, o meglio, molto turbato, tre film che, in modo più complesso e diverso l’uno dall’altro hanno esplorato il rapporto di una donna con il desiderio e la necessità di piacere agli uomini, ma anche con il successo, l’ambizione, la bellezza. Il mio preferito è stato sicuramente Pearl, l’horror con Mia Goth che è il secondo capitolo della trilogia iniziata con X, bellissimo anche quello, e che si concluderà con Maxxxine. Così come i video di Emrata e Julia Fox, anche la scena in cui Pearl grida disperata «Nooooo, I’m a staaaaar» e si rifiuta di lasciare il palco dopo che viene rifiutata a un provino ha invaso TikTok (il video pubblicato da A24 è stato visto più di 9 milioni di volte): tantissime ragazzine e donne si sono immedesimate, per gioco, nella sua disperazione. Il regista Ti West ha detto che il suo scopo era creare una specie di favola Disney horror e demenziale, ma c’è qualcosa di profondamente orribile, spaventoso e triste nel fallimento della giovane protagonista (soprattutto se hai visto anche X, di cui Pearl è il prequel, e quindi sai che fine farà). «I’m a star» o «diventerò una star»: lo pensano (e forse lo dicono anche) le protagoniste degli altri due film che mi sono rimasti in testa. Blonde, l’adattamento del romanzo di Joyce Carol Oates liberamente ispirato alla vita di Marilyn Monroe, e Pleasure, la storia di una ragazza che si trasferisce a Los Angeles per sfondare nel mondo del porno. A differenza di Pearl, queste due donne riescono ad avere il successo che speravano, un traguardo che non le protegge da sofferenze e delusioni. Non so ancora dire se Ana de Armas sia stata una Marilyn convincente (preferisco pensare al film come a «uno studio sulla celebrità americana», come il New Yorker aveva definito il libro da cui è tratto, allentando il collegamento con la vera Marilyn) mentre ho adorato Sofia Kappel nei panni di Bella Cherry, la protagonista di Pleasure, e le sue colleghe (vere attrici porno). Ma soprattutto ho amato Mia Goth quando entra in modalità goblin mode (parola dell’anno), perfettamente grottesca nel suo impazzimento omicida. (Clara Mazzoleni)

Mia Goth in Pearl

Everything Everywhere All at Once, RRR, Station Eleven
Come tutti gli anni da dieci anni a questa parte, anche questo l’ho passato a guardare film di supereroi maledicendomi per i miei gusti fermi alla pubertà e augurandomi la fine della moda dei cinecomics. La fine forse non è ancora vicina ma non è neanche così lontana, ormai: Black Adam e Wakanda Foverer sono due dei peggiori film di supereroi che io abbia mai visto, è vero che gli incassi reggono ancora (nel caso di Wakanda Forever dire che reggono è un eufemismo) ma il genere comincia a dare evidenti segni di esaurimento e prima o poi – speriamo prima – il grande pubblico si ricorderà che il cinema d’azione-d’avventura-d’intrattenimento può essere anche altro (in questo Top Gun: Maverick farà da epifania, chi lo sa). Forse è anche per questo che il mio film dell’anno è Everything Everywhere All at Once. Perché è un film che ha ovviamente un enorme debito nei confronti del cinema supereroistico (come film sul multiverso è nettamente superiore sia a Spider-Man: No Way Home che a Dottor Strange nel multiverso della follia, però), ma è anche una di quelle cose che succedono solo al limite di una moda, al termine di un canone: il cinecomic è diventato prima moda e ora canone, e gli elementi che lo hanno reso tale cominciano a essere scambiati e rimescolati per fare finalmente altro. In più, Everything Everywhere All at Once segna il ritorno al mestiere di attore di Ke Huy Quan, uno dei Goonies di Richard Donner, che dopo un sabbatico lungo vent’anni potrebbe addirittura vincere l’Oscar. Harrison Ford, che con Quan ha recitato in Indiana Jones e il tempio maledetto, ha detto che il premio sarebbe meritatissimo, anche se lui Everything Everywhere All at Once non l’ha visto e non ha nessuna intenzione di vederlo, ovviamente. Sempre parlando di film che non esisterebbero senza quelli di supereroi, alla fine dell’anno ho scoperto RRR, kolossal tollywoodiano e mia personale gateway drug verso quel vero e proprio multiverso della follia che è il cinema indiano (nelle ultime settimane ho visto quasi solo film indiani). La storia di amicizia maschile, rivoluzione anti-colonialista, danze sfrenate e tigri prese a cazzotti nel muso di S.S. Rajamouli ha superato non si sa bene come i confini nazionali, è diventata prima cult e poi successo e adesso se ne parla addirittura per gli Oscar. Di fatto, questo film potrebbe essere per il cinema indiano quello che Rashomon è stato per il cinema giapponese od Old Boy per quello sudcoreano: il biglietto d’ingresso nei consumi e nell’immaginario occidentale. Immaginario che, ma magari questa è solo una mia impressione, si sta appassionando sempre di più alla sua stessa decadenza. Ci ho pensato scorrendo nella mente soprattutto le serie tv che mi sono piaciute di più nel 2022: Severance e Andor, sono serie che a loro modo raccontano lo sgretolarsi delle certezze. Cosa succede quando il lavoro diventa una prigione del corpo e soprattutto della mente (Severance)? Cosa succede quando lo Stato diventa tirannia (Andor)? Seguendo questo ragionamento, ho deciso che la mia serie preferita del 2022 è Station Eleven, un post apocalittico – l’umanità finisce sull’orlo dell’estinzione a causa di una letale e incurabile influenza – basato su linee temporali multiple e personaggi legati tra loro dalla serendipità, tratto dal romanzo omonimo di Emily St. John Mandel e che prova a rispondere alla domanda “cosa succede quando il mondo intero diventa tuo nemico?”. Che, personalmente, è una domanda che mi faccio da un po’. (Francesco Gerardi)

Michelle Yeoh in Everything Everywhere All at Once