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Vittime di Dahmer

Nonostante le reazioni dei famigliari dei ragazzi torturati e uccisi dal vero serial killer e le polemiche sui social, la serie Netflix di Ryan Murphy continua a essere la più guardata al mondo. Ma cosa ci dice, questo, di noi?

Esistono diverse tipologie di spettatori della serie Dahmer: quelli che la guardano fino alla fine (10 interminabili ore), quelli che si fermano dopo la seconda puntata, e quelli che la abbandonano in corsa. Tra chi si è sorbito la serie per intero c’è sicuramente chi non conosceva la storia del mostro di Milwaukee, e ha continuato a guardare anche solo per sapere cosa succede. Chi già conosceva la storia e ha continuato fino alla fine ha senz’altro voluto ammirare il talento di Evan Peters nei panni del killer e onorare i suoi sforzi (un po’ come succede con Ana de Armas in Blonde) o ammirare l’impeccabile ricostruzione degli interni delle case e dei locali, la perfezione dei costumi e delle luci, l’ottima colonna sonora, la sceneggiatura convincente.

Tra i disertori che hanno abbandonato dopo la prima o la seconda puntata c’è ci si è annoiato a morte per l’estenuante lunghezza delle scene di suspence: di solito si tratta di convinti odiatori di Ryan Murphy («ormai sono anni che non ne imbrocca una», dicono) abituati all’horror e al crime più spinto, persone che la storia di Jeff Dahmer la conoscono a memoria (e in effetti in molti si sono chiesti: c’era davvero bisogno dell’ennesimo prodotto su questa vicenda?). Dalla parte opposta dello spettro del coraggio c’è chi ha interrotto la visione perché trovava la serie troppo disturbante: queste persone dovranno tollerare la paternale di chi i serial killer li mangia a colazione, che prontamente citerà The Texas Chain Saw Massacre (Non aprite quella porta), il film di Tobe Hooper del 1974 successivamente riproposto in mille versioni e diventato anche un franchise (l’ultimo, stroncato da tutti, è uscito a febbraio su Netflix), dicendo cose come «in confronto, questo è niente». Con la sua maschera di pelle umana, Leatherface si ispirava a Ed Gein, il serial killer che nel Wisconsin degli anni Cinquanta commise atti di squartamento e necrofilia sulle vittime. Ed Gein, infatti, viene citato anche in Dahmer, quando gli psicologi, interrogandosi sulla possibilità di decretare l’infermità mentale del serial killer, riconoscono nel caso di Gein un precedente con cui poter fare un confronto.

Oltre agli annoiati e ai paurosi, nel gruppo dei disertori c’è chi ha trovato disgustosa la calma con cui il regista si sofferma sulla scena di un minorenne abusato (drogato e lobotomizzato), descrivendo con solerzia le sue condizioni. I disgustati sono probabilmente d’accordo con chi pensa che Ryan Murphy dovrebbe andare in prigione o in pensione (difficile, visto che in questi giorni Dahmer è la serie Netflix più vista al mondo), essendo la serie irrispettosa nei confronti delle vittime. Non è soltanto una sensazione degli spettatori più sensibili: sono stati i parenti dei ragazzi uccisi a sollevare la questione. Oltre a lamentarsi di non essere mai stati interpellati della produzione, hanno espresso il loro dolore sui social. Eric Perry, cugino di Errol Lindsey, una delle vittime massacrate da Dahmer, si è sfogato in un tweet: «Abbiamo ancora bisogno di questi film, show, documentari? Non sta a me dirvi cosa guardare, è vero che il genere True Crime va molto, ma se siete davvero curiosi di apprendere il punto di vista delle vittime sappiate che la mia famiglia è molto arrabbiata per questa serie: c’era bisogno di traumatizzare ancora e ancora, e poi per cosa?». Anche Shirley Hughes, la madre di Tony Hughes (nella serie il non-udente afroamericano di cui il protagonista sembra per la prima volta innamorarsi), ha condannato la serie: «Non capisco come sia possibile. Non capisco come possano usare i nostri nomi e fare una cosa del genere».

Quella delle vittime non è stata l’unica polemica che ha accompagnato una serie che, attraverso il sadismo nei confronti dello spettatore solleva temi come il bigottismo delle famiglie (l’intensità con cui il padre e la nonna si mostrano ottusi di fronte alle tendenze del figlio creando un ambiente invalidante è dolorosa da guardare quasi quanto le scene di violenza), la malattia mentale (era un mostro crudele o un ragazzo gravemente malato?), il razzismo verso le minoranze (non c’è dubbio che Dahmer l’abbia sempre scampata perché bianco, biondo, educato, timido, occhialuto), l’incredibile cecità della polizia di fronte alla questione (le voci di chi aveva tentato di denunciare sono state infatti sistematicamente ignorate) e la clandestinità in cui la comunità omosessuale era costretta a vivere in quegli anni. Sono problemi sociali che, per più della metà della serie, rimangono schiacciati sotto la mole di scene che ci costringono a entrare in fantasie erotiche a base di organi e budella (Dahmer era affetto da splanchnophilia, un tipo di deviazione sessuale che consiste nell’eccitarsi alla visione delle viscere e degli organi interni del corpo umano). Netflix ci ha messo del suo, utilizzando l’hashtag Lgbtq+ per promuovere la serie (su Vanity Fair Richard Lawson elenca gli altri motivi per cui la serie si pone in modo molto ambiguo nei confronti della comunità Lgbtq+). Il resto è sfuggito di mano: dalla challenge esplosa su TikTok che invita a vestirsi come il serial killer ai meme che reinterpretano la storia in chiave comica, dall’ennesima riflessione sulla responsabilità del contesto famigliare nel generare mostri alle battute sul fatto che non sarà più possibile ascoltare “Please don’t go” senza associarla al rumore della motosega con cui Dahmer si accinge a sezionare un corpo umano, per ora sembra non ci sia modo di sfuggire alla sua presenza.